PIER DELLA VIGNA

Federiciana (2005)

Pier della Vigna

Hans Martin Schaller

Nella sottoscrizione autografa dello strumento notarile del 1246 e in tutti i documenti risalenti all'epoca di Federico II: Petrus de Vinea, solo in seguito Petrus de Vineis o Piero o Pier delle Vigne. P. era senz'altro nativo di Capua, come testimoniano due lettere del suo epistolario (III, 43 e 45). Il padre, "Angelus de Vinea", era uno iudex, la madre si chiamava "Adelictia" (Delle Donne, 1998, p. 4); non era quindi di umili origini, come hanno affermato i suoi contemporanei Guido Bonatti ed Enrico d'Isernia. Un documento capuano del 1219 menziona uno "iudex Angelus" defunto (Bova, 1998, p. 165). L'appellativo "de Vinea" potrebbe riferirsi a un sito di Capua: "in loco Camillani, ubi dicitur ad Vineas" (Id., 1999, p. 233). Di recente Bova ha avanzato l'ipotesi che P. fosse ebreo e che "de Vinea" si debba intendere come "della stirpe di Giuda" (Id., 2001, pp. 40-42), ma si tratta di una congettura poco convincente. La città di Capua, sede arcivescovile, non avrebbe nominato un ebreo alla carica di giudice cittadino e la propaganda papale contro l'imperatore si sarebbe senz'altro compiaciuta di rinfacciare a P. un'origine ebraica se la notizia fosse stata fondata. Anche le notizie sulla formazione di P. sono scarse. L'arcivescovo Giacomo (1227-1242) chiama P. suo "alumnus", ossia allievo (Huillard-Bréholles, 1865, p. 305): poiché il prelato probabilmente era canonico della cattedrale di Capua, prima di diventare nel 1219-1220 vescovo di Patti, P. potrebbe essere stato suo alunno precedentemente al 1219 nella scuola del capitolo di Capua. È controverso se P., come riferisce Guido Bonatti, abbia studiato all'Università di Bologna.

Il titolo di magister da lui portato non è affatto rivelatore in merito al compimento di studi universitari. Alla luce delle conoscenze di P. nel campo del diritto romano e canonico, della sua cultura letteraria e della sua corrispondenza tarda con dottori dell'Università di Bologna, appare verosimile che abbia studiato in questa città. In caso contrario, non si spiegherebbe che P., nel settembre del 1224 ‒ la sua prima menzione documentaria ‒, compaia a Capua come "magne imperialis curie iudex" in una sentenza del supremo tribunale di corte in veste di giudice a latere (Mazzoleni, 1960, nr. 18, pp. 56 s.). Non c'è dubbio che un uomo di origini borghesi possa aver ottenuto questa prestigiosa carica solo avendo compiuto studi universitari. E poiché un giudice della Magna Curia (v.) doveva avere almeno venticinque anni, P. potrebbe essere nato al più tardi intorno al 1200 o fra il 1190 e il 1200. Enrico d'Isernia, che era in rapporto con notai della cancelleria imperiale, racconta che l'arcivescovo Berardo di Palermo (Berardo di Castagna) aveva raccomandato P. all'imperatore sulla base di un'unica lettera a lui indirizzata. Dal gennaio del 1221 Berardo risiedeva di nuovo alla corte di Federico II. Guido Bonatti riferisce che P., conclusi gli studi, era stato dapprima notaio, e poi protonotaro, dell'imperatore (Huillard-Bréholles, 1865, p. 8). Quest'affermazione sarebbe confermata dalla lettera di un "Petrus notarius" che comunica alla madre di aver ottenuto un posto nella imperialis curia: la grazia divina l'ha innalzato dalla sua povertà e ora potrà porre rimedio all'indigenza della madre e di sua sorella. Questo discorso potrebbe suffragare le dichiarazioni di Guido Bonatti e di Enrico d'Isernia sulla povertà di P.; forse il padre Angelo era già morto molto tempo prima del 1219 e da allora la famiglia viveva in ristrettezze.

Nella risposta ben simulata della madre si dice che P. ha ottenuto la carica di notaio (Denholm-Young, 1950, p. 223). P. non è menzionato come scrittore in nessuno dei documenti di Federico II, ma forse si potrebbe individuare la sua mano tra gli scrittori non ancora identificati degli anni 1221-1224, per esempio mettendo a confronto le sigle dei notai. Infatti lo stesso P. si considerava palesemente un notaio: nelle sue sottoscrizioni il nome è sempre preceduto da un'asta verticale intersecata da tre linee orizzontali che in basso si conclude in un ghirigoro. Alla firma segue la raffigurazione di una lancia giacente che talvolta si incontra anche nelle sigle dei notai capuani (Bova, 2001, p. 19). In ogni caso, accadeva con una certa frequenza che dal gruppo dei tabellioni qualcuno riuscisse ad ascendere fino alla carica di notaio della cancelleria imperiale. P. apparteneva comunque a quella ristretta cerchia di notai e letterati che in qualità di dictatores non componevano solo i documenti, ma soprattutto le lettere e le circolari dell'imperatore. In questo contesto è opportuno ricordare che i due esemplari più antichi dell'epistolario di P. risalgono al marzo e al luglio 1224: VI, 30, il privilegio concesso da Federico II ai popoli baltici, e III, 11, la lettera circolare sulla fondazione dell'Università di Napoli. Forse si tratta dei due dictamina più antichi usciti dalla penna del Capuano.

A giudicare dal suo carteggio, però, P. sembra aver redatto la maggior parte delle lettere imperiali negli anni compresi fra il 1236 e il 1248. Come dictator solo raramente è attestato in modo esplicito nei manoscritti. Inoltre alla corte imperiale erano presenti anche altri notai e letterati in grado di scrivere lettere eccellenti sul piano stilistico: per esempio, Nicola da Rocca, Salvo, Terrisio di Atina e Taddeo da Sessa. Di questa cultura letteraria di corte sono un'eloquente testimonianza, in particolare, le circa sessanta lettere private di P. e dei suoi amici. P. deve comunque la sua fama più autentica alle centinaia fra lettere, mandati e manifesti che concepì ed elaborò per il suo committente imperiale. Sotto il profilo formale le lettere sono fra le testimonianze più importanti dello stilus altus o supremus, quello stile sovraccarico sorto in Francia nel XII sec. che fu presto recepito anche in Italia, soprattutto presso la Curia pontificia, e che fu portato da alcuni autori a livelli altissimi. P. poteva aver acquistato familiarità con questo stile a Capua e nella Terra di Lavoro, da cui provenivano molti dei funzionari della cancelleria papale, e anche a Bologna, città dove insegnavano celebri maestri dell'ars dictandi, tanto più che la conoscenza della retorica era indispensabile per ogni giurista. Il contenuto delle lettere palesa la vasta cultura di P., che mostra una notevole dimestichezza con gli antichi classici, gli autori ecclesiastici e la giurisprudenza del suo tempo. Ma P. non è un epigono, perché ha creato un suo linguaggio sontuoso, nobile, maestoso, che riflette nelle lettere e nei documenti tutto lo splendore dell'Impero svevo.

Minute e copie delle lettere di P. e dei suoi collaboratori erano state già raccolte nella cancelleria del Regno di Sicilia (v.), ma anche in altre cancellerie. Dopo il crollo degli Hohenstaufen (1266, 1268), un allievo di P., il notaio Nicola da Rocca, fuggì alla corte pontificia portando con sé materiali della cancelleria. Su questa base a partire all'incirca dal 1270 furono realizzate diverse redazioni, di cui in seguito fu comunque stampata solo la piccola raccolta in sei parti. Altro materiale fu trasferito in Turingia e in Sassonia dal protonotaro di Corradino, "Petrus de Prece" (Prezza); da lì raggiunse la Boemia e sotto Rodolfo d'Asburgo la cancelleria imperiale tedesca, che verso l'anno 1500 era ancora in possesso di testi originali di Pier della Vigna. Molti codici sono andati perduti, ma esistono tuttora circa centocinquanta manoscritti integri o frammentari ordinati e circa cinquanta non ordinati, come pure molte copie di singole lettere. Nel tardo Medioevo le lettere di P. sono servite come modello di stile in alcune cancellerie europee; all'epoca della Riforma e durante l'Illuminismo hanno fornito validi argomenti agli avversari della Chiesa secolarizzata e ai teorici dello stato moderno. Oggi queste lettere rappresentano ancora una fonte importante per la storia del XIII secolo. In Toscana, nel Trecento, sono state tradotte in volgare anche numerose lettere dell'imperatore Federico II (Grévin, 2002).

Nella cancelleria P. svolgeva un ruolo di spicco, come dimostra il frammento di registro di Federico II del 1239-1240. In questi sette mesi è citato in ottanta mandati come relatore incaricato di trasmettere gli ordini suoi e di Federico II ai registratori. Nell'ordinamento della cancelleria entrato in vigore nel novembre del 1243, P. e Taddeo da Sessa figurano come capi della cancelleria a cui sono subordinati i notai, e sono loro a decidere sulle petizioni da inoltrare all'imperatore. Già dalla metà di maggio del 1243 P. portava il titolo di "imperialis aule protonotarius et regni Sicilie logotheta" (Regesta Imperii, nrr. 3360, 3520): in questo ruolo era il superiore di tutti i notai e il custode dei sigilli dell'Impero e del Regnum Siciliae. Come logoteta (v. Logotheta) ‒ a quanto pare già dal 1239 ‒ doveva annunciare ai sudditi del Regnum i proclami dell'imperatore. Dal giugno del 1247 al gennaio del 1249 si assunse anche la responsabilità formale del contenuto dei documenti di Federico II: infatti, in questo periodo, nei diplomi si trova di nuovo, dopo molti anni, la data con la formula datum per manus in cui P. compare in qualità di datario.

Come giudice P. ebbe meno risalto: tra il 1224 e il 1246 portò spesso il titolo di "magne imperialis curie iudex", ma di rado prese parte alle sedute del tribunale. Ciò nonostante sembra aver occupato una posizione particolare fra i giudici di questo tribunale supremo: in un processo del novembre 1243 i colleghi si rivolsero a lui per conoscere la volontà dell'imperatore. Nel marzo del 1248, su ordine di Federico II, riesaminò una sentenza emessa dal giudice Filippo di Brundusio. E secondo il resoconto del cronista Francesco Pipino (lib. I, cap. 39), in un palazzo napoletano, probabilmente la sede della cancelleria (v. Napoli), si trovava una raffigurazione ‒ con le relative iscrizioni ‒ in cui l'imperatore indicava il giudice "Petrus" al popolo che gli chiedeva di amministrare la giustizia (Delle Donne, 2001). È controverso se P. abbia collaborato alla stesura delle Costituzioni per il Regno di Sicilia che Federico II promulgò a Melfi nel settembre 1231. Si può solo supporre che abbia fatto parte della commissione per il nuovo codice legislativo presieduta dal suo antico maestro e amico, l'arcivescovo Giacomo di Capua, tanto più che i giudici della Magna Curia nel 1230-1231 erano per lo più presenti alla corte imperiale. L'unico dato certo è che P. in anni successivi compose singole novelle alle Costituzioni (Die Konstitutionen, 1996, pp. 3-5) e che il suo allievo Nicola da Rocca lo elogiò definendolo "novus legifer" (ep. III, 45).

Tuttavia dal 1230 P. fu attivo soprattutto in missioni diplomatiche per l'imperatore, con il papato e le città lombarde come antagonisti. I pontefici erano impegnati in un conflitto quasi permanente con Federico II a causa della sua politica ecclesiastica nel Regno di Sicilia e appoggiavano la resistenza delle città dell'Italia settentrionale contro i tentativi dell'imperatore di assoggettarle al suo dominio, in quanto temevano l'accerchiamento dello Stato della Chiesa. Nel maggio-giugno 1230 P. fu coinvolto nelle trattative di pace a San Germano; in ottobre e in dicembre del 1232, in febbraio e in agosto del 1233, nel settembre 1235 e nell'aprile 1237 negoziò con papa Gregorio IX, in parte con l'arcivescovo Berardo di Palermo, il magister iustitiarius Enrico di Morra, il giudice Taddeo da Sessa e il Gran Maestro dell'Ordine teutonico Ermanno di Salza (v.). Sfortunatamente nel 1239 scomparvero due rappresentanti del partito della pace: sul fronte imperiale Ermanno di Salza, su quello pontificio il cardinale Tommaso di Capua (v.). Il deterioramento dei rapporti fra papa e imperatore culminò nella scomunica di Federico II nel marzo 1239 e nell'imprigionamento dei prelati che viaggiavano alla volta di Roma per recarsi al concilio nel maggio 1241. Dopo l'elezione di Innocenzo IV nel giugno 1243, Federico II cercò di normalizzare le relazioni con il papato: nel giugno, nel settembre e nel dicembre del 1243, e poi nel marzo e nel giugno del 1244, P. condusse le trattative alla Curia pontificia. Ciò nonostante nel luglio del 1245 si giunse alla deposizione dell'imperatore durante il I concilio di Lione. In questa circostanza l'imperatore si era fatto rappresentare in un primo tempo da Taddeo da Sessa, al quale si affiancò in seguito il cappellano di corte Gualtiero di Ocra. Solo il 20 luglio 1245, con tre giorni di ritardo, a Lione giunse un'altra ambasceria imperiale di cui faceva parte anche Pier della Vigna.

L'imperatore non aveva fiducia in lui? Oppure era considerato persona non grata dalla Curia pontificia? In settembre P. si recò in Francia per convincere re Luigi IX ad assumere almeno una posizione di neutralità o di mediazione. Egli svolse un ruolo anche nei rapporti di Federico II con le città italiane; pur avendo trattato in un'unica occasione con la Lega lombarda, nell'ottobre 1236, aveva visitato più volte le città fedeli all'imperatore. Quando nel marzo 1236 queste convocarono una dieta a Piacenza, P. le esortò a tenersi pronte per l'arrivo dell'imperatore. Nel giugno 1238 i veronesi giurarono una tregua di fronte a P.; nel marzo e nell'aprile del 1239 egli pronunciò a Padova ‒ in presenza dell'imperatore ‒ due discorsi politici di fronte alla popolazione. Nel febbraio 1240, in un'assemblea dei rappresentanti di numerose città a Foligno, fu di nuovo l'oratore dell'imperatore. L'acme della carriera diplomatica di P. coincise però con il suo soggiorno in Inghilterra nel febbraio-maggio del 1235. Il 22 febbraio, a Londra, P. concluse e registrò come procuratore il matrimonio fra l'imperatore e Isabella, sorella di re Enrico III d'Inghilterra. Per ringraziarlo, il sovrano inglese lo dichiarò suo vassallo assegnandogli una rendita annuale di 40 lire d'argento. Naturalmente P., in cambio, avrebbe rappresentato gli interessi dell'Inghilterra alla corte imperiale e scoraggiato un eventuale avvicinamento di Federico II alla Francia. P., così riccamente dotato, potrebbe essere definito, con parole attuali, il primo ministro dell'imperatore. Quest'ultimo, come tutti i regnanti medievali, governava affiancato da un consiglio, ma tra i consiliarii P. fu senz'altro per lungo tempo il più influente, ed è significativo che a Foggia, la residenza più importante di Federico II, egli possedesse una casa con giardino e vigna; apparteneva quindi a quel ristretto gruppo di alti funzionari e notai che formava la cerchia più fidata dei consiglieri.

Quando l'imperatore era in viaggio, P. ‒ almeno a partire dal 1236 ‒ si trovava il più delle volte in prossimità del suo sovrano. Possiamo ripercorrere abbastanza fedelmente il suo itinerario, poiché spesso viene menzionato nei documenti di Federico II come testimone o datario. E se pure P. non risiedeva a corte, sembra fosse regolarmente in contatto epistolare con l'imperatore che lo teneva informato sugli eventi più importanti. Quindi è verosimile quanto scriveva Innocenzo IV nel novembre 1251: "quondam magister Petrus de Vinea, cui tunc temporis tamquam prepotenti officiali quondam F. imperatoris non poterat sine gravi iactura resisti […] qui non solum erat terror humilium sed sublimium personarum" (M.G.H., Epistolae saeculi XIII e regestis pontificum Romanorum, a cura di C. Rodenberg, III, 1894, nr. 123, p. 104). L'influenza e il potere di P. sono messi in risalto anche nella Vita Gregorii IX (Le Liber Censuum de l'Église romaine, a cura di P. Fabre, II, Paris 1905, p. 28), e inoltre da Matteo Paris (M.G.H., Scriptores, XXVIII, a cura di F. Liebermann, 1888, p. 307) e da Guido Bonatti (Sarti-Fattorini, 1888, p. 144). Forse P. non fu un mero esecutore degli ordini dell'imperatore, ma tentò anche di condurre una politica personale, come suggeriscono molte lettere in cui si espresse su questioni politiche.

P. sfruttò il suo potere anche per favorire la propria famiglia e accumulare ingenti ricchezze. Un suo fratello, Tommaso, era chierico della chiesa di S. Pietro ad curtem a Salerno, una sorella di nome Granata compare ancora nel 1254 come dama facoltosa. Dei nipoti di P., Giovanni fu per un periodo notaio nella cancelleria imperiale, ma soprattutto decano della cattedrale di Capua e detentore di numerose altre prebende. Taffuro fu castellano dell'importante fortezza di Rocca Ianula sopra San Germano (Cassino). Due nipoti furono addirittura attivi nella Magna Curia, Angelo come notaio e Guglielmo come giudice. La ricchezza della famiglia "de Vinea" sicuramente era ereditaria solo in piccola parte, in quanto si fondava soprattutto sul potere e sull'abilità negli affari di Pier della Vigna. Numerosi documenti attestano la proprietà di case e terre soprattutto a Capua, ma anche nella Terra di Lavoro, in particolare ad Aversa, Caiazzo e San Germano. È già stata segnalata la sua proprietà a Foggia; la casa di Napoli è addirittura definita palatium: nell'ottobre 1254 vi risiedette papa Innocenzo IV, in seguito suo nipote, il cardinale Ottobono di S. Adriano, che forse ereditò il patrimonio di Pier della Vigna. Sembra inoltre che P. fosse venuto in possesso, in seguito a permuta o affitto, di numerose proprietà ecclesiastiche: furono coinvolti in questi affari la cattedrale di Capua, i conventi di Cava, Montecassino, Montevergine e S. Vincenzo al Volturno. Ancora, P. costrinse l'ospedale di Altopascio (Lucca) a una permuta di terreno per lui vantaggiosa, e si legge dell'acquisizione illegittima di un terreno a Caiazzo nel 1245.

I tratti poco gradevoli del carattere di P. non sminuiscono la sua importanza come letterato. Le lettere e i manifesti redatti al servizio di Federico II sono già stati menzionati. Il suo stile assai personale emerge nelle lettere private, in particolare nella corrispondenza intrattenuta con gli arcivescovi Giacomo di Capua e Berardo di Palermo, con il notaio Nicola da Rocca e molti altri personaggi che gravitavano nell'ambito della corte. Queste lettere non contengono tanto scambi di notizie quanto piuttosto un certamen o un duellum dictaminis. Ogni dictator cercava di superare il suo interlocutore nell'arte del linguaggio, faceva sfoggio della sua cultura, della sua conoscenza della Bibbia e della mitologia antica; tutti adoperavano termini rari, grecismi, ricorrevano a giochi di parole, alla prosa rimata e al cursus. Il linguaggio è spesso così artificioso da risultare a malapena comprensibile al lettore moderno, mentre il contenuto vero e proprio è quasi del tutto offuscato dalla ridondanza retorica. In alcuni testi, tuttavia, si riescono a identificare i temi ai quali P. e i suoi corrispondenti erano seriamente interessati: per esempio, in una lettera si dibatte se sia da preferire la nobilitas generis o l'animi probitas (Delle Donne, 1999), o ancora si tratta la questione di quale fiore meriti il primato, se la rosa o la violetta (Huillard-Bréholles, 1865, pp. 336-338). Tra i capolavori della retorica di P. si possono annoverare la poetica lettera d'amore a una dama (ibid., pp. 417-421), le lettere di condoglianze e il celebre panegirico dell'imperatore Federico II (ep. III, 44).

Le capacità di P. non si limitavano alla stesura di lettere; infatti egli tenne anche discorsi pubblici, i cui testi purtroppo non sono stati tramandati. Nel marzo 1236 parlò a Piacenza ispirandosi a Isaia IX, 2, nel marzo e nell'aprile del 1239 a Padova. Il secondo di-scorso prendeva le mosse da versi di Ovidio (Heroides, V, 7-8) e, secondo Rolandino da Padova (IV, cap. 10), in quell'occasione aveva parlato "fundatus multa litteratura divina et humana et poetarum".

I letterati medievali componevano spesso versi e poesie. Anche nel caso di P. sono stati tramandati due componimenti poetici ritmici in latino: una satira piuttosto lunga contro i prelati e i mendicanti (Huillard-Bréholles, 1865, pp. 402-417; Castets, 1888, pp. 438-452) e una poesia sui dodici mesi (Holder-Egger, 1892, pp. 502 s.; Monteverdi, 1931, pp. 271 s.). In molti versi e poesie di dimensioni più ridotte la paternità letteraria di P. è assai dubbia, ed è altrettanto controverso quali componimenti poetici in volgare della Scuola poetica siciliana (v.) siano di suo pugno.

P. senz'altro prese parte alle attività scientifiche della corte imperiale, non limitandosi a quelle giuridiche. Era in rapporti d'amicizia con il medico e filosofo Teodoro di Antiochia (v.) e con altri studiosi, e nelle sue lettere si trovano spesso osservazioni di contenuto filosofico e teologico. P. diede impulso anche all'Università di Napoli, e probabilmente nel 1224 formulò la lettera circolare per la fondazione della scuola di studi superiori. Durante una crisi dell'Università nel 1234 i magistri e gli allievi lo pregarono d'intercedere presso l'imperatore (Hampe, 1923). Fu coinvolto anche nella riorganizzazione dello Studium nel 1239, come testimoniano due lettere (epp. III, 12 e 13) e quattro mandati di Federico II da lui preparati come relatore (Il Registro della cancelleria, 2002, nrr. 156-159).

Nel gennaio 1249 P. è citato per l'ultima volta come datario in un documento rilasciato a Cremona dall'imperatore (Regesta Imperii, nr. 3759). Pur senza indicazioni cronologiche precise, ma evidentemente in febbraio, gli Annales ghibellini di Piacenza, solitamente ben informati, riferiscono che l'imperatore aveva cavalcato alla volta di Cremona e lì aveva fatto imprigionare "Petrum de Vinea eius proditorem", 'suo traditore'. E poiché il popolo cremonese (i "populares") intendeva ucciderlo, aveva disposto affinché fosse trasferito in catene a Borgo S. Donnino. Secondo gli stessi Annales l'imperatore in marzo si era spostato a Pisa passando da Pontremoli e aveva portato con sé P.; a San Miniato lo aveva fatto accecare, e fu qui che P. finì i suoi giorni (Annales Placentini Gibellini, a cura di G.H. Pertz, in M.G.H., Scriptores, XVIII, 1866, p. 498).

Questo è tutto ciò che sappiamo con certezza sulla caduta e la morte di P., tutte le altre notizie sono pure e semplici congetture. È possibile che si sia suicidato sbattendo con violenza la testa contro un muro o una colonna; ma potrebbe anche essere morto per le conseguenze dell'accecamento. E anche sulle cause della sua repentina sfortuna sono state avanzate molte ipotesi. L'imperatore e suo figlio Corrado IV lo chiamano sempre e soltanto "proditor". Nel Regno di Sicilia del XIII sec. il concetto di proditio era comunque molto ampio: poteva alludere a delitti di lesa maestà, ma anche ad altri crimini commessi contro il sovrano o contro lo stato. Federico II si espresse sulla colpa di P. in un'unica lettera indirizzata a suo genero, il conte Riccardo di Caserta, databile nella primavera del 1249 (Regesta Imperii, nr. 3764; Baethgen, 1955, pp. 44-47). Secondo la lettera P., per avidità, "ha trasformato il bastone della giustizia in un serpente" e così facendo ha portato l'Impero sull'orlo dell'abisso. A giudicare da altri accenni della lettera, P. aveva denunciato come nemici dello stato persone innocenti per poterne confiscare i beni, rendendosi colpevole di corruzione. Non siamo in grado di verificare queste accuse, ma dato che nel Regno governato da Federico la delazione e la corruzione prosperavano, anche P., che decideva di tutte le petizioni rivolte all'imperatore, poteva essersi arricchito grazie al denaro con cui si era lasciato corrompere.

Se anche cronisti contemporanei come Matteo Paris o Salimbene de Adam dichiararono che P. aveva avuto contatti proditori con il papa, le loro affermazioni potrebbero contenere un fondo di verità. Infatti, se i cardinali nel 1242, dopo la battaglia del Giglio, chiesero a P. di impegnarsi presso l'imperatore affinché fossero liberati i loro confratelli imprigionati, devono aver supposto che il Capuano volesse avere con la Chiesa un rapporto migliore rispetto al suo sovrano (Regesta Imperii, nr. 7380).

In questo contesto andrebbe citato anche un passo della corrispondenza di Bono di Lucca, professore di grammatica a Bologna: in questa lettera il cardinale e legato Ranieri di Viterbo chiede a P. di abbandonare l'imperatore deposto e di tornare in seno alla Chiesa (Gaudenzi, 1895, pp. 168 s.). La lettera non è senz'altro un esercizio stilistico: infatti nella forma e nei contenuti corrisponde esattamente ad altri scritti di questo cardinale, il quale dal 6 aprile 1246 fu legato per il Regno di Sicilia, e forse era in possesso di informazioni secondo cui P. poteva essere pronto a tradire. È estremamente interessante anche una lettera, purtroppo non databile, indirizzata da P. al re Enrico III d'Inghilterra, in cui lo pregava di concedergli il diritto di cittadinanza inglese (Huillard-Bréholles, 1865, p. 303). Progettava forse di fuggire in Inghilterra? La maggior parte delle fonti più tarde sono comunque inclini ad avvalorare l'innocenza di P., un atteggiamento che può dipendere da diverse ragioni. Non si poteva concepire che un altissimo dignitario avesse tradito il suo sovrano dopo quasi trent'anni di fedele servizio e si preferiva imputare la sua caduta a intrighi di corte. Inoltre per i cronisti ostili all'imperatore, come Salimbene de Adam, la caduta del logoteta era una nuova gradita dimostrazione della malvagità di Federico II. Simili fonti devono aver anche ispirato i celebri versi di Dante (Inf. XIII, 46-108) in cui P. nella selva dei suicidi protesta la sua innocenza e addossa la colpa della sua disgrazia all'invidia dei cortigiani. Invece il più illustre commentatore della Divina Commedia del XIV sec., Benvenuto da Imola, torna a spiegare la caduta di P. con la sua proditio.

A prescindere da tali questioni irrisolte, sia per gli amici che per i nemici resta intatta la fama di P. come dictator, come maestro nell'arte di scrivere lettere e manifesti magnifici. Enrico d'Isernia lo definisce "egregium dictatorem et totius lingue latine iubar" (J. Emler, Regesta diplomatica nec non epistolaria Bohemiae et Moraviae, II, Pragae 1882, nr. 2610, p. 1140); Jaco-po d'Acqui lo chiama "pulcherrimus dictator" (Chronicon imaginis mundi, a cura di G. Avogadro, in Monumenta Historiae Patriae, Scriptores, III, Augustae Taurinorum 1848, col. 1577); Francesco Pipino scrive di lui: "dictandi arte et iuris civilis peritia effloruit, ut fere nulli sui temporis in eisdem facultatibus esset secundus" (Chronicon, lib. I, cap. 39, in R.I.S., IX, 1726, coll. 659 s.). E anche due pubblicisti tedeschi del tardo Medioevo, Dietrich von Nieheim e Thomas Ebendorfer, lodano l'eleganza del suo stile. La fama di P. era così grande che in seguito gli sono state attribuite opere sicuramente non sue: la raccolta Flores dictaminum ‒ modelli di discorsi riuniti sotto il titolo di Arenge super diversis negotiis ‒, la Notitia seculi di Alexander von Roes, le Lettere del diavolo indirizzate ai prelati secolarizzati, l'opera satirica Evangelium secundum marcam auri et argenti e la Vita sancti Albani.

fonti e bibliografia

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(traduzione di Maria Paola Arena)

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