FRANCESCHI, Piero

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 49 (1997)

FRANCESCHI, Piero

Ronald W. Lightbown

FRANCESCHI (Della Francesca), Piero (dei).- Nacque a Borgo San Sepolcro (oggi Sansepolcro), primogenito di Benedetto di Piero e di Romana, figlia di Pierino di Carlo da Monterchi.

Non si conosce con precisione la data della sua nascita. Il suo primo biografo, Vasari, dice che morì all'età di ottantasei anni, che attesterebbe la nascita attorno al 1406, ma Antonio Maria Graziani di San Sepolcro, che era nato nella casa contigua a quella del F., e il cui fratello aveva sposato la pronipote Isolante, pur conoscendo le Vite di Vasari, nel suo testo (1585 circa) dice che morì all'età di 80 anni: il che porterebbe a situare la data di nascita attorno al 1412.

Il cognome Della Francesca, contrariamente a quanto afferma Vasari, era già attestato con il nonno Piero nel 1390; alla fine del XV secolo diventò Dei Franceschi, e i discendenti per linea femminile ancora esistenti a Sansepolcro nel XX secolo portano il nome Marini Franceschi.

Pur provenendo da una abbiente famiglia di mercanti, il F. presumibilmente imparò a leggere e a scrivere e ricevette i primi insegnamenti di morale nella scuola di grammatica, gestita dal Comune di Borgo, mentre per il figlio di un mercante toscano sarebbe stato normale cominciare gli studi di aritmetica commerciale in una scuola d'abaco. Si può supporre che il F. acquisì nella stessa scuola di Borgo nozioni elementari di matematica e in particolare di geometria euclidea. Le origini della sua più approfondita conoscenza matematica derivano probabilmente dai rapporti del F. con Firenze o con le corti di Ferrara e Urbino.

È possibile che il F. pensasse in origine di fare il mercante, ma poi decise di diventare pittore. Le tradizioni della famiglia nel campo della mercatura furono proseguite con successo dai fratelli più giovani del F., Marco e Antonio. Secondo Vasari il F. iniziò a dipingere a quindici anni, ma non si conosce il nome del suo maestro. Nonostante ci siano tracce di influssi dell'arte romagnola, umbra e senese, lo stile predominante a Borgo durante la giovinezza del F. fu il tardogotico aretino, iniziato da Spinello e continuato da suo figlio Parri di Spinello. Recenti scoperte documentarie (Banker, 1990; Dabell, 1984) attestano che il F. lavorò nel 1432 e di nuovo nel 1436 con un socio, Antonio di Anghiari, che si stabilì a Borgo intorno al 1430. Antonio era in stretti rapporti con il padre del F., Benedetto, se nel 1431 (Dabell, 1984, pp. 85 s.) e nel 1432 quest'ultimo risulta creditore nei suoi confronti della somma di 56 fiorini per l'aiuto fornito fino al giugno 1432 in relazione alla pala di S. Francesco a Borgo (Banker, 1990). Poiché questa pala d'altare, commissionata nel 1430, fu sostituita solo cinque anni più tardi dalla nuova pala commissionata nel 1437 al Sassetta, si può presumere che Antonio fosse poco più che un mediocre artista. Il F. lavorò di nuovo per lui nel 1436, dipingendo a fresco sulle quattro porte della città di Borgo gli stemmi della chiesa, e sei stendardi con le stesse insegne che dovevano pendere dalle torri (Dabell, 1984, p. 88, doc. 11).

Il F. dovette presto capire che a San Sepolcro, dove gli incarichi erano pochi e i soldi scarseggiavano, non avrebbe mai fatto fortuna. Egli rimase sempre legato alla famiglia e alla città, ma a partire dal quarto decennio cercò e accettò incarichi al di fuori.

Borgo San Sepolcro era, per certi versi, un centro eccellente per un artista alla ricerca di incarichi: aveva infatti rapporti molto stretti con la vicina Arezzo, era legata a Perugia, dal 1371 al 1431 era stata sotto il dominio dei Malatesta di Rimini, inoltre nella città c'era una lunga tradizione di attività al servizio della corte e delle truppe dei Montefeltro di Urbino; la strada principale della città infine veniva da Arezzo e portava, attraverso Urbino, a Pesaro e nel cuore della Romagna e delle Marche. Pertanto, da un lato, la considerazione ottocentesca che il F. fosse fondatore della scuola umbra riflette una realtà storica, dall'altro l'apertura verso altre realtà culturali, dovuta alle lunghe e frequenti assenze, stimolò il suo eclettismo e gli consentì di entrare in contatto con le opere di artisti toscani, lombardi, veneti e fiamminghi, soprattutto Jan van Eyck e Rogier van der Weyden.

Secondo Vasari il F. iniziò la sua carriera alla corte di "Guid'Ubaldo vecchio", duca di Urbino; in realtà egli lavorò per Guidantonio, conte di Urbino dal 1404 al 1443, e padre del suo ultimo e più grande committente, Federico. Guidantonio ingrandì o ricostruì il palazzo di famiglia all'inizio del quarto decennio, e forse il F. vi fu chiamato come assistente alla decorazione. Di certo il F., dedicando a Guidubaldo il Liber de corporibus regularibus, scrive "mei in te, inclitamque prosapiam tuam antiqui amoris et perpetuae servitutis" (Mancini, 1909, p. 488); se egli avesse servito solamente Federico, padre di Guidubaldo, non si capisce perché avrebbe dovuto usare il termine "prosapia" invece di "pater".

Il F. era a Borgo nel maggio 1438, ma probabilmente a quella data stava già lavorando a Perugia in associazione con Domenico Veneziano.

Il primo documento che attesta l'attività del F. fuori Borgo è del 7 sett. 1439, quando si trovava a Firenze a lavorare con Domenico Veneziano agli affreschi della cappella maggiore di S. Egidio, chiesa dell'ospedale di S. Maria Nuova.

Gli affreschi di Domenico, eseguiti sulla parete ovest nel 1439 e poi di nuovo tra il giugno 1441 e il maggio 1442, raffiguravano l'Incontro di Gioacchino e Anna e la Nascita della Vergine. Domenico Veneziano iniziò inoltre uno Sposalizio della Vergine, di cui rimane una sinopia: non si sa se questa composizione avesse alcuna relazione con il distrutto Sposalizio della Vergine che il F. dipinse a S. Ciriaco, il duomo di Ancona.

Questo soggiorno a Firenze introdusse il F. all'arte umanistica del primo Rinascimento fiorentino e lo portò a sostituire l'imitazione dell'antico allo stile gotico nelle figure, nell'architettura e negli ornamenti; lo avvicinò inoltre alla prospettiva lineare o geometrica e all'arte di Masaccio.

L'importanza della famiglia del F. a Borgo è testimoniata dall'inserimento del suo nome nel 1442 nell'elenco dei 300 cittadini eleggibili nel Consiglio del Popolo di Borgo (Battisti, 1992, p. 609, doc. XXIII). L'11 giugno 1445 il F. ricevette l'incarico di dipingere la pala della Compagnia della Misericordia di Borgo per l'altare della propria chiesa, che serviva anche da cappella dell'attiguo ospedale, fondato dalla confraternita nel 1348. Il nonno del F., Piero, aveva lasciato 20 fiorini alla chiesa della Compagnia nel 1390 (Sansepolcro, Archivio storico, Archivio della Misericordia, 236, ff. 41v, 49v), suo padre Benedetto ne era stato camerlengo e gli archivi della Misericordia mostrano che i suoi discendenti mantennero a lungo uno stretto legame con la Compagnia. Questo spiega in parte perché il F. ricevette l'incarico, ma è anche chiaro che, non appena il suo talento fu evidente ai suoi concittadini, egli ricevette ogni incarico importante che la città potesse offrire. Il F., comunque, dette sempre la priorità ai committenti esterni, generalmente principi o importanti ecclesiastici: il che spiega i frequenti ritardi nell'esecuzione dei lavori di Borgo e le ripetute difficoltà nel completarli.

Il primo esempio è appunto il Polittico della Misericordia (Sansepolcro, Museo civico).

L'opera, per la cui realizzazione pagò la famiglia Pichi, una delle due famiglie che dominavano a Borgo, sostituì una pala di Ottaviano Nelli (Dabell, 1984). Il F. fu pagato 150 fiorini, ricevendo un anticipo di 50; la Compagnia si riservò il diritto di cambiare i santi durante il periodo contemplato per l'esecuzione della pala, che doveva essere di tre anni (Battisti, 1992, p. 609, doc. XXIV). Il F. probabilmente iniziò a lavorare nel 1446, ed eseguì le figure di due santi sul lato sinistro, S.Sebastiano e S.Giovanni Battista, il pannello della Crocefissione e i piccoli pannelli di S.Benedetto e dell'Arcangelo Gabriele, sopra i due santi, prima di sospendere l'esecuzione dell'opera, forse per un incarico fuori città. Da un documento del 14 genn. 1454 (ibid., p. 611, doc. XLI), risulta che due dei Pichi minacciarono il F. e suo padre di fargli perdere l'anticipo, a meno che il F. non fosse tornato a Borgo prima della quaresima a lavorare alla pala.

Allo stesso tempo essi avevano completamente cambiato idea su uno dei santi da rappresentare, visto che i due santi sulla destra sono S.Giovanni Evangelista e S.Bernardino, che era stato canonizzato solo il 25 maggio 1450. S. Giovanni Battista è presente in quanto santo patrono e protettore dei Fiorentini, che furono signori di Borgo San Sepolcro dal 28 febbr. 1441; s. Giovanni Evangelista è presente poiché era santo patrono e protettore di Borgo dal 1340.

Il F. evidentemente completò l'Evangelista e Bernardino insieme con quelle della Vergine e di S.Francesco, con una certa fretta; la Madonna della Misericordia nel pannello centrale fu eseguita o nello stesso tempo o subito prima. Lo schema, composto da un ampio pannello centrale raffigurante una scena fiancheggiata da santi, fu ripreso dalla pala senese trecentesca con il Santo Sepolcro fiancheggiato e sormontato da santi, ora sull'altar maggiore del duomo di Borgo, probabilmente eseguita attorno al 1370 da Niccolò di Segna. Il F. dovette abbandonare di nuovo il Polittico della Misericordia quando era ormai completo, perché la predella fu terminata da un artista fiorentino della cerchia di Giovanni di Francesco per incarico di un altro donatore, una vedova raffigurata a destra del pannello centrale del seppellimento, mentre i pilastri laterali, ognuno con tre figurine di santi della Misericordia, furono dipinti ancora da un'altra mano. Da un documento del gennaio 1462 (ibid., pp. 224 s.), appare che l'opera, o comunque la parte commissionata al F., a quella data era stata completata, e nel 1463 la Crocefissione veniva copiata da un assistente e seguace del F., Lorentino d'Andrea, su una parete laterale della cappella Carbonati in S. Francesco ad Arezzo.

Smembrato nel XVII secolo, il Politticodella Misericordia è importante in quanto è il nostro unico documento dello stile iniziale del F. e del cambiamento verso una produzione più matura. Le parti dipinte intorno al 1446 rivelano la forte influenza di Masaccio nell'uso dello scorcio come elemento di espressività emotiva e nei contrasti di luce e di ombra, uniti allo studio del nudo classico. La Crocefissione, in particolare, deriva chiaramente da quella di Masaccio a Napoli, proveniente dalla pala di Pisa. Il realismo è più crudo e più duro di quello di Masaccio e, in forma mitigata, doveva rimanere una costante nella produzione successiva del Franceschi. Le figure di S.Sebastiano e del Battista sono più goffe nella positura, con un minore senso della profondità rispetto alle più tarde figure dell'Evangelista e di S.Bernardino sul lato destro. L'iscrizione sul cartiglio del Battista è eseguita ancora in caratteri gotici. Sembrerebbe che in quegli anni l'influenza dell'arte fiorentina del primo Rinascimento fosse stata assorbita ancora in maniera parziale. Da Domenico Veneziano il F. prese l'abitudine, che avrebbe mantenuto per tutta la carriera, a disegnare gli occhi a mandorla. La sua tendenza a rendere i capelli mediante piccole ciocche serpentinate derivava da una precoce vicinanza con il senese Taddeo di Bartolo, attivo a Perugia nel 1438. Il blu pervinca della veste dell'Arcangelo Gabriele dimostra inoltre che il F., abituato a usare più varietà di blu di qualsiasi altro artista del Quattrocento, doveva conoscere i blu usati dagli artisti fiamminghi. Il suo modo di colorare era sempre contrassegnato dall'originalità delle sfumature e dei contrasti, dalla ricercatezza delle tonalità, dall'unione del colore con il contorno e l'ombreggiatura per esprimere sostanza e apparenza.

Verso la fine della sua vita il F. avrebbe definito l'arte del colorare come "dare i colori commo nelle cose se dimostrano, chiari et oscuri secondo che i lumi li devariano" (De prospectiva pingendi, 1942, p. 63). Una tale concezione è intimamente collegata con la garbata enfasi data al realismo, secondo una combinazione di forme ideali e atteggiamenti drammatici derivati dai modelli viventi. Già intorno al 1446 le sue figure sono imponenti, e il S.Sebastiano unisce una precoce elaborazione di un tipo fisico rinascimentale a una realizzazione scultorea fiorentina di derivazione classica, ma gravata da un attento uso del realismo.

Per alcuni anni altre sue figure, tuttavia, mantennero una fondamentale flessibilità e sottigliezza gotica; i canoni di bellezza gotici informarono le figure femminili degli affreschi di Arezzo. Dal 1454 tutti questi elementi si fusero in uno stile che raggiunse un organico dominio della figura umana, vestita e nuda, e un forte senso del colore, con originali variazioni cromatiche nelle tinte preferite e nelle combinazioni di tonalità tipiche dell'arte toscana. Dal 1454, inoltre, il F. aveva sviluppato quella disinvolta capacità nella resa della profondità che fece sì che le sue pitture non avessero eguali per fusione di chiarezza di disegno e ariosità dello spazio. Le vesti degli uomini inginocchiati e delle donne della Madonna della Misericordia proseguono nei pannelli vicini per creare uno spazio unitario. Queste figure, data la presenza delle donne, vanno identificate con i membri della famiglia Pichi che commissionarono la pala dal momento che soltanto agli uomini era permesso di appartenere alla Misericordia.

La carriera del F. tra il 1446 circa e il 1464 può essere ricostruita attraverso le opere rimaste e le poche notizie riportate da Pacioli e da Vasari. Pacioli cita un soggiorno a Bologna senza nominare nessun lavoro o indicare alcuna data e, in assenza di qualsiasi documentazione nota negli archivi o nelle fonti bolognesi coeve, quest'affermazione non può essere confermata.

Più sicuro è il soggiorno del F. a Pesaro e ad Ancona, menzionato da Vasari dopo il precoce soggiorno a Urbino. La celebrata Flagellazione (Urbino, Galleria nazionale delle Marche) fu verosimilmente dipinta a Pesaro intorno al 1448-50, su commissione di Francesco Sforza, che può essere identificato nella principesca figura in blu sulla destra, per la somiglianza fisica con altri ritratti, perché blu era il colore della livrea degli Sforza e perché le rose sul muro del giardino erano una delle imprese del suo padre adottivo e suocero, Filippo Maria Visconti, duca di Milano.

Durante gli anni 1445-50 Pesaro era la base di Francesco, che aveva comprato la signoria della città da Galeazzo Malatesta nel 1445 e l'aveva data a suo fratello Alessandro. Il dipinto probabilmente fu trasferito a Urbino, dov'è documentato alla fine del XVI secolo, dopo che Pesaro nel 1521 era passata sotto il dominio di Francesco Maria I Della Rovere, duca di Urbino e il palazzo era divenuto la sua residenza principale. La sua esecuzione fuori Urbino spiega le varie interpretazioni non plausibili del dipinto date a partire dalla fine del XVI secolo, che variarono dall'iniziale contraddittoria identificazione del gruppo delle tre figure a destra con Guidantonio da Montefeltro e i suoi figli Oddantonio e Federico, alla romantica interpretazione ottocentesca delle figure con Oddantonio e due cattivi consiglieri. La scena, di fatto, presenta l'antica Gerusalemme: la costruzione con la sala aperta in primo piano a sinistra è stata convincentemente identificata (Aronberg Lavin, 1972) con il pretorio di Pilato e la torre a destra (Borgo, 1979) con la torre Antonia. Inoltre il grande palazzo dietro il pretorio può essere identificato con la casa di Erode, mentre il tribunale di Pilato con i due scalini bianchi e la pietra ovale degli accusati su cui è in piedi Cristo sono stati frequentemente menzionati nella letteratura di viaggio in Terrasanta di età medievale. Il F. evidentemente fece un paziente uso di una o più guide per pellegrini per dare autenticità storica alla sua ambientazione. Poiché la Flagellazione di Cristo ha luogo nel pretorio, le figure rappresentate sono grandi la metà di quelle del gruppo principale per indicare che questo è il tema del discorso del gruppo principale posto alla destra. L'iscrizione ora perduta - "convenerunt in unum" - una volta posta oltre questi tre, probabilmente sulla striscia bianca centrale del pavimento, deriva dal salmo 2 e la frase fu interpretata nel Medioevo come allusione alla persecuzione di Cristo da parte dei pagani, contro cui il suo popolo deve insorgere. Il costume della figura che esorta Francesco Sforza è quello di un bizantino di alto grado, accompagnato da un angelo, a testimonio dell'ispirazione divina della sua missione.

L'unica possibile spiegazione di questo dipinto è, perciò, quella già proposta da Witting (1898), che lo interpreta come una esortazione alla crociata contro i Turchi. La tavola può essere datata prima della caduta di Costantinopoli nel 1453, e comunque il legame con lo Sforza, la cui moglie e i figli lasciarono definitivamente Pesaro per Milano all'inizio del 1450, porta a datare il dipinto prima di quell'anno. Lo stile delle figure, come aveva visto Longhi che aveva datato il dipinto attorno al 1448, mentre appare evoluto rispetto alle prime figure del Politticodella Misericordia, rimanda al gruppo di dipinti che risalgono all'attività iniziale del F., comprendente il S.Girolamo di Berlino (Staatliche Museen), firmato e datato 1450, l'affresco di Rimini, firmato e datato 1451, e il S.Girolamo di Venezia (Gallerie dell'Accademia). Altri particolari che portano ad ascriverlo al periodo iniziale sono i caratteri dell'iscrizione, ancora soltanto semiumanistici, gli archi gotici della "scala Pilati", la scala a sinistra sullo sfondo (Aronberg Lavin, 1972), l'uso non corretto delle volute sui capitelli dei pilastri (Salmi, 1979) e il trattamento del broccato d'oro sulla pellanda blu. L'intera composizione è illuminata almeno da tre diversi fasci di luce, che creano contrasti di luci e ombre dal sottile effetto naturalistico, lontani ormai da Domenico Veneziano, e che culmineranno circa vent'anni dopo nelle belle ombre interne dell'Annunciazione di Perugia.

La committenza altolocata della Flagellazione è confermata dall'applicazione dei criteri di prospettiva lineare o geometrica, di evidente derivazione fiorentina, che ne fanno il primo documento di quella scientifica padronanza nella rappresentazione in prospettiva dei piani, delle forme architettoniche e delle figure, che sarebbe diventata la caratteristica principale dell'arte del Franceschi. Dietro a questo si nasconde un costante studio sulla corretta rappresentazione delle figure in scorcio che il F. stava per teorizzare attraverso l'applicazione di metodi matematici. Ma si devono sempre tener presenti nell'arte del F. gli elementi empirici e la sua sottomissione nell'applicazione della prospettiva, da un lato, all'enfasi narrativa e, dall'altro, alla necessità di chiarezza. Le figure sono misurate innanzi tutto in rapporto al significato narrativo della composizione, ma al tempo stesso secondo una rigida applicazione della prospettiva per cui l'altezza diminuisce rispetto al primo piano: così nella Flagellazione i personaggi sullo sfondo sono la metà dei tre in primo piano, in accordo con le regole fiorentine. Questo principio di misurazione delle figure è una delle regole applicate anche nel Battesimo e negli affreschi di Arezzo. La Flagellazione è il primo dipinto in cui il F. si dimostra pittore pienamente umanista. Ma tale era la sua versatilità che altri dipinti di questi anni, come il S.Girolamo di Berlino e il S.Girolamo di Venezia, mostrano una maggiore influenza dell'arte fiamminga nell'applicazione della prospettiva aerea, nella brusca riduzione delle rappresentazioni sullo sfondo per indicare la distanza, nella raffigurazione dei paesaggi riflessi nell'acqua. Gli espedienti prospettici italiani sono fusi con gli effetti fiamminghi: gli alberi diminuiscono progressivamente sullo sfondo, le nuvole sono dipinte in prospettiva, un accorgimento adottato per primo da Masolino da Panicale intorno al 1435. La prospettiva applicata al paesaggio è di per sé empirica e tale rimane nell'arte del F.: egli se ne servirà sempre per subordinare l'ambiente alle figure. Il S.Girolamo di Venezia, dipinto per il veneziano Girolamo di Agostino Amadi, di una delle famiglie preminenti di "gentiluomini popolari" della città, probabilmente intorno al 1452, appare più evoluto e naturalistico nel trattamento del paesaggio rispetto a quello di Berlino ed è influenzato dai dipinti devozionali fiamminghi.

Con l'unica eccezione del Battesimo, nessuna riproduzione di un vero paesaggio può essere identificata nei suoi dipinti. Il tentativo, fatto di frequente, di identificare Borgo San Sepolcro con i piccoli borghi, castelli o città presenti in alcuni dipinti, può essere confutata attraverso il confronto con una veduta di Borgo rappresentata in un dipinto votivo del 1523 (Sansepolcro, Museo civico) e con documenti d'archivio relativi alle sue mura e ad altre architetture. È comunque chiaro che il F. era estraneo alle convenzionali rappresentazioni pittoriche degli artisti veneti, che nelle raffigurazioni di Gerusalemme aggiungevano tocchi di esotismo orientaleggiante. Il F. prese invece come modello le città dell'Italia centrale. In questo realismo quotidiano egli seguì soltanto una pratica molto generalizzata ai suoi tempi, sia in Italia sia nel Nord. L'influenza fiamminga può inoltre aver ispirato il tipo di composizione del S.Girolamo di Venezia, in cui le figure sono poste in un primo piano rialzato mentre il paesaggio scende, e poi risale. Questo accorgimento, usato anche da Andrea Mantegna (si veda il S.Sebastiano di Vienna), ricorre nell'ultima opera del F., la Natività di Londra.

In questi anni il F. lavorò anche ad Ancona, dove doveva aver visto la collezione di antichità di Ciriaco d'Ancona. Per un committente anconetano il F. dipinse a fresco lo Sposalizio della Vergine, secondo Vasari opera "bellissima", nella cappella chiamata da Vasari di S. Giuseppe nella chiesa di S. Ciriaco, oggi identificabile con la cappella dei Caduti nella navata di sinistra.

L'affresco, datato 1454 dagli storici di Ancona del XVII e XVIII secolo, esisteva ancora nel 1583, ma fu probabilmente distrutto quando nel 1586-87 la cappella fu convertita in cappella del Sacramento e restaurata (Battisti, 1992). Il giuspatronato della cappella alla fine del XV secolo apparteneva alla famiglia Lucci, proveniente da Sanseverino Marche, ed è possibile che il suo committente fosse il giureconsulto Pietro Lucci.

Vasari (p. 491) collega l'attività del F. ad Ancona con il suo soggiorno a Pesaro, e annota che "andato a Pesaro e Ancona, in sul più bello del lavorare fu dal duca Borso chiamato a Ferrara, dove nel palazzo dipinse molte camere, che poi furono rovinate dal duca Ercole il vecchio per ridurre il palazzo alla moderna". Forse non tutti gli affreschi ferraresi furono distrutti durante il rifacimento del palazzo estense da parte di Ercole I nel 1479-80, dato che due pitture raffiguranti Scene di battaglia (Londra, National Gallery; Baltimora, Walters Art Gallery) eseguite da un artista ferrarese probabilmente intorno al 1540, sembrano essere le versioni manieriste di due scene (o di parte di esse) dipinte dal F. (Lauts, 1953).

Nel pannello di Londra una figura è stata identificata con il marchese Lionello d'Este, fratello di Borso, che morì il 1° ott. 1450; pertanto l'originale doveva essere stato dipinto prima di questa data e il F. doveva essere stato chiamato a Ferrara da Lionello, raffinato e sensibile mecenate, responsabile di una serie di importanti apparati decorativi nel palazzo estense e nelle "delizie" di Belriguardo e di Belfiore fuori Ferrara. Chiarificatrice a questo riguardo appare nella "vita" del F. la menzione che Vasari fa del pittore Galasso Galassi, il quale sarebbe divenuto pittore dopo aver visto in quale considerazione fosse tenuto il F. alla corte ferrarese: si sa infatti che Galassi lavorò per Lionello nel 1448.

Nella chiesa ferrarese di S. Agostino, un convento di suore agostiniane amato da Lionello, il F., secondo Vasari (p. 492), dipinse "una cappella… lavorata in fresco, ed anco quella è dalla umidità mal condotta". Le descrizioni della chiesa, consacrata nel 1440, fanno capire che l'incarico non riguardava gli affreschi di una cappella, ma una semplice pala affrescata sopra uno dei tre altari della chiesa. L'opera doveva essere già perduta a partire dal XVIII secolo, e ogni traccia rimasta dovette essere cancellata dalla demolizione del 1813.

La perdita degli affreschi del F. a Ferrara è ancor più grave perché tutti gli indizi tendono a suggerire che fu lì che il F. poté studiare la tecnica fiamminga, attraverso l'osservazione della Deposizione di Rogier van der Weyden, che Lionello possedeva già nel 1449, e di altri dipinti dello stesso pittore molto stimato a corte.

Il ritratto di Sigismondo Malatesta (Parigi, Louvre), eseguito dal F. probabilmente nel 1451, come l'affresco per il tempio Malatestiano, mostra un'evidente ripresa della tecnica di Rogier van der Weyden nell'emulazione dello scintillio della luce e del broccato d'oro, fino al punto di inventare un pigmento per imitare il giallo dei fiamminghi. A Ferrara il F. doveva essere diventato consapevole dell'importanza del ritratto come genere, dato che Lionello era un assiduo committente di ritratti, sia in pittura che su medaglie, genere portato alla più compiuta forma rinascimentale dal suo artista favorito, Pisanello. Sembra che il F. possedesse un esemplare della medaglia di Pisanello dell'imperatore bizantino Giovanni Paleologo, o forse un disegno di quella, poiché egli la copiò nella realizzazione della testa dell'imperatore Costantino nell'affresco di Arezzo con la Battaglia di Massenzio.

A Ferrara, sotto Lionello, il F. si trovò in una delle corti umanistiche modello del primo Rinascimento, alla cui influenza si può attribuire la rapida evoluzione del suo stile dopo il 1446. A Ferrara il F. dovette incontrare inoltre i fratelli Lorenzo e Cristoforo Canozi da Lendinara, i più importanti intarsiatori della seconda metà del XV secolo. Con Lorenzo, in particolare, il F. strinse un'intima amicizia ("caro quanto fratello": Pacioli, De divina proportione, 1509, f. 23r). Essi furono probabilmente accomunati dal reciproco interesse per gli studi di prospettiva, sui quali Lorenzo scrisse un trattato, nel 1509 ancora nelle mani di Pacioli e poi andato perduto. Poco convincenti sono i tentativi di Longhi di attribuire al F. i disegni delle figure negli ultimi lavori realizzati dai fratelli Lendinara.

Le uniche altre opere sopravvissute di questo periodo sono quelle di Rimini, i cui signori, i Malatesta, avevano governato a Borgo fino al 1431, e a Borgo erano rimasti legati per molti versi. Il F. entrò in contatto con loro probabilmente tramite Iacopo degli Anastagi, un giureconsulto appartenente a una delle principali famiglie di Borgo, segretario di Sigismondo Malatesta e uno dei suoi consiglieri più influenti. Uno dei lavori del F. per Rimini fu il ritratto di Sigismondo; l'altro fu l'affresco per la cappella delle reliquie nel tempio Malatestiano, che mostra Sigismondo, accompagnato da due levrieri, uno bianco e uno nero, inginocchiato in preghiera in una imponente sala davanti al suo santo patrono, s. Sigismondo, re di Borgogna.

A destra, nella parete della sala è inserita una veduta incorniciata da un oculo del grande castello "Sismundum Ariminense", di proprietà di Sigismondo Malatesta, con la data 1446 del suo completamento. Si tratta evidentemente di un affresco votivo, probabilmente eseguito come adempimento di un voto legato al completamento del castello e alla costruzione nel 1447 della cappella di S. Sigismondo, di cui la cappella della reliquie è un'aggiunta. Nonostante il suo stato di avanzato degrado, il perfetto ordinamento geometrico e la raffinatezza suggestiva di questo affresco suscitano ancora ammirazione. Un'iscrizione sottostante reca i nomi di s. Sigismondo, di Sigismondo Malatesta e dello stesso F., con la data 1451, tutta in caratteri lapidari romani, come quella nella cornice tonda del castello, secondo un uso di cui Rimini dovette essere uno dei centri di diffusione. La scena, che si svolge in una regale stanza delle udienze, è racchiusa entro una cornice che fa da proscenio, acutamente creata per suggerire le proiezioni laterali dello spazio dietro la cornice su tutti e due i lati. Il fondo della parete è scandito da pilastri piuttosto goffi da cui pendono festoni: questo schema, copiato probabilmente da un sarcofago antico, richiama nella concezione e nel colore l'arte di Squarcione e della sua scuola, suggerendo che il F. doveva aver visitato Padova per apprendere tali innovazioni. Probabilmente a Padova il F. imparò a fare i modelli in terracotta per le sue figure, pratica ricordata da Vasari: l'uso di questi modelli scultorei può derivare dall'abitudine di utilizzare cartoni preparatori su tutti e due i versi come negli affreschi di Arezzo e di Monterchi.

Si può forse collegare a questo periodo la Madonna nella collezione Contini-Bonacossi, attribuita al F. da Longhi, databile intorno al 1448.

Secondo Vasari, il F. fu chiamato da Ferrara, dove stava lavorando per il fratello di Lionello, Borso d'Este, da papa Niccolò V ma tale affermazione viene smentita dalla scoperta di documenti (Zippel, 1919) secondo cui il F. fu chiamato nel 1458 a Roma per affrescare una "camera" per il neoeletto Pio II, tanto più che, per errore, egli chiama il collaboratore del F. Bramantino (Bartolomeo Suardi), le cui date (1460-1536) escludono qualsiasi possibile collaborazione fra i due. Nella "vita" di Raffaello, infine, Vasari attesta che il F. e "Bramantino" lavorarono nelle stanze che diventarono successivamente le stanze di Raffaello, e la lista di ritratti rappresentati secondo lui negli affreschi di "Bramantino" contiene personaggi collegati all'ambiente bolognese, con cui non aveva alcun rapporto Pio II, mentre erano figure di rilievo per Niccolò V. Il punto è importante perché la conoscenza della scultura antica dimostrata dal F. nel Battesimo e negli affreschi di Arezzo poteva derivare soltanto da un soggiorno romano.

Il Battesimo, una delle più belle opere conservate del F., è documentato per la prima volta nel 1629 nella chiesa parrocchiale di S. Giovanni d'Afra a San Sepolcro, come pannello centrale di una pala d'altare, in cui le altre parti erano state dipinte da Matteo di Giovanni, la cui famiglia era originaria di Borgo, a causa dei ritardi del Franceschi. Dato che la pala non fu mai collocata sull'altar maggiore della chiesa di S. Giovanni d'Afra, essa non fu evidentemente dipinta per quella chiesa, ma vi venne trasferita, probabilmente dalla pieve di Borgo.

L'iconografia dell'intera pala enfatizza l'istituzione del Battesimo come rito sacramentale d'iniziazione della Chiesa cattolica, e questo tema viene rinforzato dal gruppo dei tre angeli a sinistra, uno dei quali, un arcangelo, spiega ai due giovani angeli la natura del nuovo sacramento. Cristo è in piedi sul letto del fiume Giordano, le cui acque si sono ritirate. Sul retro quattro ebrei, vestiti con costumi bizantini, guardano attoniti la discesa dello Spirito Santo. Per le affinità stilistiche con gli affreschi di Arezzo il Battesimo dovrebbe essere datato all'inizio del sesto decennio del Quattrocento, piuttosto che alla fine del quinto, come pensava Longhi, forse per via dell'influenza di Masolino, giustamente da lui notata nelle figure.

Probabilmente nel 1453 o nel 1454 il F. si unì a Domenico Veneziano, attivo ad Arezzo, come attestano i documenti, nel 1450, per affrescare il soffitto della nuova sacrestia di Loreto, una costruzione probabilmente collegata alla fondazione del tesoro nel 1450. Vasari asserisce che i due artisti abbandonarono il lavoro per paura della peste, e che il F., lasciata Loreto, iniziò gli affreschi della Leggenda della vera Croce nella cappella maggiore di S. Francesco ad Arezzo.

Questi erano stati originariamente commissionati da Baccio di Maso Bacci (morto nel 1417), un ricco "speziere" e mercante di Arezzo, come attestano i testamenti del 1411 e 1416 (Borsook, 1980, pp. 92-98), che lasciavano l'impegno di pagare i lavori in parti uguali ai tre figli Tommaso, Girolamo e Francesco. Soltanto nel settembre 1447, tuttavia, a detta di Francesco gli affreschi erano stati commissionati: l'artista scelto era il fiorentino Bicci di Lorenzo. Bicci dipinse il Giudizio finale sopra l'arco di entrata, i Quattro evangelisti sulle volte del soffitto, la Discesa dello Spirito Santo sopra la finestra, e due dei quattro Padri della Chiesa nella parte sottostante l'arco di entrata, prima di ammalarsi, a quanto dice Vasari, e ritornare a Firenze. Il programma degli affreschi doveva già essere stato deciso dal 1447, data l'estensione del lavoro: il tema principale è la salvezza dell'uomo attraverso la croce, forse con qualche incitamento alla crociata contro i Turchi. È probabile che i francescani del convento con una considerevole conoscenza dei fatti biblici e storici avessero pensato alla cappella maggiore della grande chiesa francescana di S. Croce a Firenze dove Agnolo Gaddi aveva realizzato gli affreschi con la Leggenda della Croce. Tuttavia, il F. dovette guardare anche al più piccolo ciclo della Leggenda affrescato da Masolino nella chiesa di S. Agostino a Empoli.

La fonte principale dei cicli fu sempre direttamente o indirettamente la Leggenda della Croce secondo la narrazione di Iacopo da Varazze nella Legenda aurea. Tuttavia nel programma di Arezzo la narrazione presenta una maggiore accuratezza storica nell'episodio della Battaglia di Costantino e nella scena con la Battaglia di Cosroe. Lo schema degli affreschi rivela che il programma fu stabilito dai frati francescani del convento, dato che furono pensati in sequenza tipologica e non cronologica. La parete di sinistra comincia in alto con gli Adamiti: nella scena si vede il legno della croce che viene piantato perché cominci la redenzione del genere umano dopo la caduta. Sulla parete opposta è collocata l'Esaltazione della Croce da parte dell'imperatore Eraclio. Sotto gli Adamiti, la Rivelazione della vera Croce alla regina di Saba e l'Incontro con Salomone sono messi in opposizione alla Invenzione e verifica della vera Croce da parte della imperatrice Elena. Sotto la regina di Saba si trova l'affresco della Battaglia di Costantino e Massenzio, in opposizione, sulla parete di fronte, alla Battaglia ed esecuzione di Cosroe. Sulla parete di fondo, nello scomparto più alto sono raffigurati due profeti, Daniele a sinistra e Isaia a destra, che indicano l'affresco degli Adamiti e profetizzano l'avvento della redenzione. Sotto, a destra, il Sollevamento della Croce mostra il vano tentativo di Salomone di evitare la caduta del regno dei Giudei, mentre in basso a sinistra l'ebreo viene tirato su da un pozzo, dentro cui lo ha gettato Elena, da un messaggero imperiale, dopo aver accondisceso a rivelare dove si trova la Croce. Più in basso a destra c'è la famosa scena notturna con il Sogno di Costantino, in cui un angelo appare a Costantino e gli mostra la Croce con la promessa "In hoc signo vinces". Sulla parete opposta si trova l'Annunciazione, una scena non collegata con la Leggenda della vera Croce. La sua presenza, come quella del profeta Daniele, si deve probabilmente ricondurre a un culto tradizionale del convento dai tempi del suo primo custode, il beato Benedetto Sinigardi (1190-1282). Il F. raffigurò inoltre due padri della chiesa, S.Ambrogio e S.Agostino, per completare i tondi nel sottarco, dipinse due teste di angeli per completare i pilastri della volta, come aveva fatto a sinistra Bicci, e tre santi sui pilastri dell'arco trionfale. Di questi sopravvivono soltanto S.Luigi di Tolosa e S.Pietro martire a sinistra, e l'Arcangelo Michele a destra. Al di sopra dei santi il F. raffigurò un Cupido rinascimentale sulla sinistra e forse anche uno sulla destra, quasi certamente con finalità puramente decorative, come l'elegante vaso dipinto sopra i santi con cui decorò gli strombi delle finestre sullo sfondo, decorazione di cui resta soltanto un S.Bernardino sulla sinistra.

Tutto quello che si sa della data di esecuzione di questi affreschi è che essi furono probabilmente iniziati dopo la morte di Bicci di Lorenzo nel maggio 1452 e sono ricordati come conclusi il 20 dic. 1466 nel contratto stipulato dal F. per un nuovo stendardo per la Confraternita dell'Annunziata di Arezzo. Le opinioni sulla data di esecuzione degli affreschi variano in questi anni tra 1452-66 circa, 1460-66 circa, dopo il ritorno del F. da Roma, e la parentesi del 1454-58 circa che è la più probabile se posta in rapporto con l'analisi stilistica e la tipologia dei costumi. Le figure seguono ancora canoni fisici fortemente goticheggianti, le donne soprattutto sono raffigurate secondo un gusto prettamente cortese, mentre i più vicini confronti per i costumi usati si trovano nei pannelli della predella del polittico dipinto nel 1456 per l'altare di S. Maria delle Grazie, ad Arezzo, da Neri di Bicci. È stato notato inoltre che un pannello di predella dipinto da Giovanni di Francesco (morto nel 1459), ora nella Casa Buonarroti a Firenze, sembra riflettere la conoscenza della Battaglia di Cosroe che, data la sua posizione nel riquadro più basso, deve essere stata dipinta verso la fine del ciclo. Anche Vasari accenna a una datazione generica dei dipinti del F. "intorno agli anni 1458" (p. 500). Il F. doveva già aver ricevuto l'incarico per la realizzazione degli affreschi nell'autunno 1454, dato che il contratto per il Polittico di S. Agostino a Borgo, stipulato il 4 ottobre di quell'anno, prevedeva otto anni per il completamento: un tempo così lungo si può spiegare soltanto con un incarico precedente di estrema importanza, che doveva essere rappresentato dagli affreschi di Arezzo.

La cappella maggiore di S. Francesco è alta e buia, e il F. usò molto bianco e blu e una determinata quantità d'oro per ovviare a questo problema. Egli separò la parete con una maestosa cornice rinascimentale che simulava la pietra, al di sopra di uno zoccolo in finto marmo colorato. Nei grandi registri così creati, le figure sono poste in primo piano, per una migliore visibilità, e si muovono contro grandi distese di cielo. Nel secondo scomparto con la regina di Saba e l'imperatrice Elena, vuoti e pieni sono abilmente contrapposti, mentre nel riquadro inferiore la carica della cavalleria della battaglia di Costantino si contrappone alla mischia corpo a corpo della battaglia di Cosroe. L'influenza delle statue antiche viste a Roma è particolarmente evidente nei nudi ideali degli Adamiti, mentre le antiche battaglie raffigurate sui sarcofagi ispirano la composizione della Battaglia di Cosroe. Nell'uso dei costumi il F. mescola vestiti contemporanei ad antiche armature e abiti bizantini. Si nota una evidente cura nel rappresentare le figure in prospettiva diminuendo la grandezza rispetto al primo piano, come già nella Flagellazione. L'avversione del F. per le azioni rapide e forzate, già notata nella Flagellazione, è di nuovo visibile negli affreschi di Arezzo, dove le figure e i gruppi sono realizzati con nobile naturalismo, ma sospesi nell'azione. La luce giunge dalla direzione dell'unica fonte, la finestra della parete di fondo, come prescritto dalla tradizione, ma il F. ha cercato uno speciale effetto di luce divina e innaturale nella oscurità della notte del Sogno di Costantino, raggiungendo un tale grado di realismo poetico che fece sì che Vasari guardasse a lui come un precursore dell'arte del Rinascimento.

Un'abile utilizzazione della tecnica dello spolvero permise al F. di lasciare zone con figure già tracciate che furono realizzate da aiuti; uno di questi è stato identificato da Longhi con Giovanni da Piamonte. L'intuizione di Longhi è stata recentemente confermata dalla scoperta di S. Lazzeri di un graffito di Giovanni sullo zoccolo degli affreschi che documenta un intervento, probabilmente di restauro, nel 1486-87 (Centauro, 1990, p. 113). L'intervento degli altri aiuti del F., come Lorentino d'Andrea, è più che altro congetturabile. Giovanni eseguì Daniele, il Supplizio dell'ebreo e il S.Ambrogio sul lato sinistro; inoltre l'intervento degli aiuti è evidente nella Battaglia di Cosroe. Negli affreschi il F. usò abilmente sia la tecnica a fresco sia quella a secco, e si servì di solventi oleosi per temperare i colori in modo da ottenere una maggiore brillantezza. Queste innovazioni hanno causato importanti perdite come quella delle foglie dell'albero centrale nella scena degli Adamiti.

Alla fine di settembre nel 1458, poco dopo l'elezione di Pio II, il F. fu chiamato a Roma, probabilmente per intervento del prelato e architetto Francesco del Borgo, suo concittadino e studioso di matematica, per affrescare una "camera" in Vaticano per il nuovo papa. Le impalcature per questa decorazione risultavano erette intorno alla metà di ottobre; e il F. veniva pagato 150 fiorini di Camera per parte del suo lavoro. Un documento attesta che furono usati 8.000 "panelli d'oro" per la decorazione; la stanza fu probabilmente ridecorata per un altro papa durante il XV o XVI secolo (Zippel, 1919). L'unica opera rimasta a Roma che possa essere associata al F. è il soffitto della cappella di S. Michele arcangelo, a S. Maria Maggiore, decorata per il cardinale Guillaume d'Estouteville, arciprete della basilica. Di questa decorazione rimane solamente il S.Luca quasi per intero, sebbene con molte lacune che rendono difficile stabilire se sia autografo. Gli affreschi delle pareti furono successivamente completati da Benozzo Gozzoli, cosa che fa pensare che il F. lasciò improvvisamente Roma, come attesta Vasari, a causa della morte della madre, avvenuta il 6 nov. 1459 (Battisti, 1992, p. 613, doc. LXIX).

L'attività del F. nel sesto decennio include probabilmente l'affresco assai danneggiato con la Madonna del Parto, dipinto come pala d'altare per la chiesa di S. Maria a Momentana, fuori le mura di Monterchi, paese d'origine della famiglia della madre.

Quest'opera è stata sentimentalmente associata con la morte della madre del F., ma è più probabile che sia stata eseguita per incoraggiare la devozione religiosa tra le donne di Monterchi. Il dipinto raffigura la Vergine incinta rappresentata come regina dei cieli, rivelata sotto un baldacchino che viene aperto da due angeli disegnati da un cartone invertito. Questa tradizionale immagine devozionale è presentata dal F. con vivo naturalismo ma anche con una grazia nella resa che ne ha fatto una della sue opere più popolari.

È stata riconosciuta una vicinanza stilistica tra gli affreschi di Arezzo e la celebre Resurrezione, l'opera più famosa eseguita dal F. a Borgo, molto ammirata da Vasari.

Fu commissionata dai Conservatori, i più alti magistrati di Borgo, per decorare la sala delle udienze nel palazzo conosciuto come "residenza" (ora parte del Museo civico), concessa dai Fiorentini nel 1456 assieme all'aula magna per le riunioni pubbliche dei conservatori e dei due consigli, il Consiglio dei dodici e il Consiglio del Popolo. L'aula magna era pronta per questi incontri dal 21 maggio 1458 e la sala delle udienze doveva essere stata completata attorno alla stessa data.

Si sa che parte della nuova decorazione della residenza fece seguito a una concessione di altre onorificenze civiche da parte dei Fiorentini nel 1467, ma uno studio approfondito dei documenti relativi fa ritenere improbabile che il F. abbia dipinto la Resurrezione a una data così tarda. La Resurrezione era l'insegna ufficiale di Borgo, adottata per ricordare la fondazione della città avvenuta per custodire le reliquie del Santo Sepolcro; sfortunatamente, il sentimento che intendeva ispirare è andato perduto con l'iscrizione sottostante, di cui rimangono soltanto due incomplete parole latine. L'opera, racchiusa in una maestosa cornice architettonica che simula un tabernacolo, è dipinta di sotto in su prospetticamente, dal momento che era evidentemente posta in alto sulla parete probabilmente al di sopra di una panca con una spalliera. Più tardi fu trasferita con la sua originaria base di mattoni su una nuova parete di pietra. L'eloquenza miracolosa della figura di Cristo, al tempo stesso divino e umano, avvolto nel vittorioso mantello rosso che indossa anche nella pala senese della Badia (Isaia, 63, 1-6), la magistrale resa del gruppo dei soldati dormienti e il prospettico arretramento del paesaggio sono fusi in una composizione di singolare e movimentata grandezza.

Per un privilegio statutario stabilito nell'ottobre 1460, a Ludovico Acciaiuoli, il capitano fiorentino di Borgo, fu concesso il titolo di gonfaloniere, di cui era stato privato nel 1441. Come segno di gratitudine per la rinnovata dignità la città incaricò il F., che era stato eletto nel Consiglio dei dodici buonuomini per il periodo di novembre-dicembre 1460, di dipingere un affresco con S.Ludovico di Tolosa (Sansepolcro, Museo civico), presumibilmente in quanto santo patrono dell'Acciaiuoli. L'affresco fu eseguito dentro un tabernacolo in una stanza del palazzo del Capitano (il moderno palazzo pretorio) insieme con un'iscrizione commemorativa distrutta quando nel 1846 l'affresco fu staccato e trasferito nel palazzo del Comune. L'iscrizione, perduta durante questo episodio, era stata fortunatamente trascritta nel 1835 da F. Gherardi Dragomanni. L'opera presenta molte somiglianze stilistiche con il S.Agostino di Lisbona (Museu nacional de arte antiga) in cui sono ugualmente evidenti le tecniche fiamminghe nella resa del broccato dorato. Quest'ultimo è uno dei quattro pannelli che facevano parte del polittico della chiesa di S. Agostino a Borgo (ora S. Chiara) commissionato al F. il 24 ott. 1454 da un donatore laico, Angelo di Giovanni di Simone, dai frati eremiti agostiniani del convento e dai due membri dell'Opera eletti annualmente dalla città per la manutenzione e l'abbellimento della chiesa.

Gli altri pannelli rappresentano S.Michele (Londra, National Gallery), presente in quanto santo patrono di Angelo, S.Giovanni Evangelista (New York, Frick Collection), in qualità di santo patrono di Borgo, e S.Nicola da Tolentino (Milano, Museo Poldi Pezzoli), allora unico santo dei frati eremiti agostiniani, canonizzato nel 1446. Il polittico fu completato soltanto nel 1469 (Banker, 1987).

Una innovazione è la sostituzione del tradizionale fondo d'oro con un parapetto classicheggiante collocato contro lo sfondo blu del cielo, certamente frutto dell'influenza fiorentina.

Il polittico fu smembrato tra il 1555, quando gli agostiniani si trasferirono nella vecchia pieve di Borgo, e la fine del XVII secolo. Sono stati fatti tentativi poco convincenti di associare a questo polittico una Crocefissione (New York, Frick Collection), probabilmente un pannello di predella di una pala precedente, i pannelli di S. Monica e di un Beato agostiniano (New York, Frick Collection) e quello di S. Apollonia (Washington, National Gallery). Questi tre pannelli con i santi sono per la prima volta documentati in casa Marini-Franceschi nel XIX secolo, insieme con un S. Nicola di Bari (non più rintracciato già dal 1900 circa) evidentemente proveniente dallo stesso insieme: costituivano probabilmente sportelli di armadi portareliquie in S. Agostino. Tutti questi pannelli hanno un fondo dorato, ma possono essere datati intorno al 1470, sulla base del costume di S. Apollonia.

Vasari dice che la realizzazione degli affreschi a S. Francesco fece sì che il F. ad Arezzo fosse in seguito "sempre amato e riverito". Egli attesta che il F. lavorò molto ad Arezzo e nelle vicinanze; tali incarichi dovrebbero risalire al settimo decennio, inclusa l'unica opera rimasta, un affresco di S.Maria Maddalena nel duomo di Arezzo, plausibilmente datata da Longhi intorno al 1468, sulla base di rapporti stilistici con la S.Apollonia di Washington.

Nessun documento è rimasto ad attestare l'incarico affidato al F. di eseguire la pala dipinta per la chiesa del convento di S. Antonio a Perugia (ora Perugia, Galleria nazionale dell'Umbria), probabilmente da porre intorno al 1469.

Sono state fatte varie ipotesi circa la storia della pala e la paternità dei suoi vari elementi. Per alcuni studiosi essa originariamente era composta soltanto di una parte centrale e della prima predella, mentre l'Annunciazione sulla cimasa e la seconda predella sarebbero aggiunte posteriori. Il problema è complicato dalle vicende del polittico, che fu smembrato nel 1810, e riassemblato alla fine del XIX secolo: il pannello centrale della prima predella è andato perduto. La pala comprende una parte principale con la Madonna col Bambino in trono fiancheggiata da S.Antonio da Padova e S.Giovanni Battista a sinistra, e S.Francesco e S.Elisabetta d'Ungheria a destra, in una composizione in cui si combinano abilmente enfasi devozionale e profondità spaziale. La prima predella ha tondi con le figure di S.Chiara e S.Agata (quest'ultima molto vicina alla S.Apollonia di Washington); la seconda presenta i pannelli con il Miracolo di s. Antonio da Padova, la Stigmatizzazione di s. Francesco e un Miracolo di s. Elisabetta d'Ungheria. Probabilmente il polittico fu concepito come una entità e riflette le preoccupazioni spirituali delle suore di S. Antonio, conosciute come le poverelle di Foligno, e dei loro padri spirituali, i francescani osservanti del convento di Monteripido. Così il disegno architettonico della bella Annunciazione, attraverso cui la Vergine è solo per metà visibile a Gabriele, è teso a enfatizzare l'isolamento del convento. I quattro santi e la Madonna della fascia centrale e i pannelli della seconda predella tradiscono in modo più o meno evidente la mano degli allievi. Dev'essere stato intorno a questo periodo che Luca Signorelli, il cui affresco giovanile con l'Annunciazione (ora Arezzo, S. Francesco) mostra una conoscenza dell'Annunciazione di Perugia, fu allievo del Franceschi.

Almeno a partire dall'inizio del 1465, il F. fu chiamato dalla più importante delle corti di Marche, Romagna e Umbria, quella di Federico da Montefeltro a Urbino, come testimoniano Pacioli, che lo definisce "assiduo familiare" della corte di Urbino, la già citata dedica del F. del suo Libellus de corporibus regularibus al figlio di Federico, il duca Guidubaldo, e un epigramma dell'umanista veronese Giovanni Andrea Ferrabò, composto intorno al 1465-66, che elogia un ritratto di Federico dipinto dal F. (Cinquini, P. della Francesca a Urbino e i ritratti degli Uffizi, in L'Arte, XI [1906], p. 56). All'inizio del 1469 il F. era a Urbino per considerare se accettare l'incarico di completare il polittico della Confraternita del Corpus Domini, prima allogato a fra Carnevale e poi iniziato e lasciato incompleto da Paolo Uccello. Il F. non accettò l'incarico e la pala fu completata da Giusto di Gand.

Realizzò invece a olio il dittico con i ritratti di Federico e di sua moglie, Battista Sforza (Firenze, Uffizi).

Sul verso di ciascun ritratto è dipinto un Trionfo relativo a Federico e Battista, raffigurati seduti ognuno su un carro. Sul carro trionfale di Federico le quattro Virtù cardinali siedono in un ordine probabilmente ispirato dal capitolo De quadruplici virtutum specie et eorum distributione nel libro V del De re militari di Roberto Valturio (Iohannes ex Verona 1472, pp. 55-60), mentre la Fortuna tiene una corona di alloro sulla sua testa. Sul carro di Battista siedono davanti la Carità e la Fede, mentre lei è affiancata da due figure che probabilmente rappresentano la Castità e la Pudicizia. Una strofa saffica, sul modello oraziano, composta da umanisti di corte, è iscritta sotto ciascun trionfo. Entrambe le composizioni tessono le lodi di chi siede sul carro, ma quella per Battista è scritta al passato e non ci sono dubbi, come arguito da Gilbert (1941), che il Trionfo fu dipinto dopo la prematura morte di Battista il 7 luglio 1472, in ricordo del profondo legame coniugale con Federico. Una data intorno al 1472-73 è confermata anche dallo stile, dato che l'accorgimento di porre le figure ritratte contro un paesaggio sembra derivare da un'invenzione di Hans Memling di Bruges, databile non prima del 1466. I paesaggi sia del recto che del verso dei pannelli sono dipinti con sottile resa della consistenza atmosferica, sempre secondo i dettami della pittura fiamminga.

Per Federico il F. dipinse un'altra opera molto discussa, la pala del convento degli osservanti, S. Donato, poi S. Bernardino, fuori le mura di Urbino (ora Milano, Pinacoteca di Brera), conosciuta come Pala Montefeltro.

Il progetto della chiesa è opera di Francesco di Giorgio con cui il F. dovette consultarsi per stabilire il formato della pala, verticale oblunga, forma assai rara a questa data nelle Marche, ma adatta all'abside a nicchia.

La pala fu probabilmente iniziata dal F. con l'idea che la chiesa venisse eretta subito, e la sua condizione di non finito va forse spiegata con un ritardo nella costruzione della chiesa, che non fu cominciata fin dopo la morte di Federico nel 1482. La pala del F. a quella data era più o meno nello stato attuale, perché la figura della Vergine fu copiata da Lorentino d'Arezzo nel suo polittico (Arezzo, Museo), firmato e datato 1482. Le mani di Federico furono successivamente completate da un altro artista. La pala fu certamente concepita come pala funeraria e mostra Federico in ginocchio in preghiera per l'intercessione della Vergine e dei suoi santi patroni presso la corte del cielo, davanti al trono del giudizio. La composizione presenta la Vergine affiancata da angeli e santi, come nella sala delle udienze di una corte principesca, raffigurata quale basilica classica, con un'abile prospettiva di sotto in su. Un'assurda leggenda del XVII secolo (documentata per la prima volta nelle memorie del convento del 1703), ancora di attualità identificava la Vergine con un ritratto di Battista e il Bambino con Guidubaldo, e interpretava il dipinto come un'offerta votiva per la nascita di quest'ultimo il 24 genn. 1472. Battista non è raffigurata nel dipinto perché S. Bernardino non era il suo luogo di sepoltura: per suo desiderio lei era stata sepolta nel cimitero comune delle suore di S. Chiara. Il famoso uovo sospeso sopra la testa della Vergine non ha niente a che vedere con l'Immacolata Concezione, ma esprime, attraverso un familiare simbolo pasquale, la speranza di Federico per una felice resurrezione.

Non sono del F. le quattro Vedute ideali di città (Urbino, Galleria nazionale delle Marche; Baltimora, Walters Art Gallery; Berlino, Kunstgewerbemuseum e Staatliche Museen) che provengono da Urbino, sebbene riflettano l'influenza del pittore sugli altri artisti coevi.

L'unica altra opera del F. che si è conservata, connessa direttamente o indirettamente con la corte dei Montefeltro, è la Madonna di Senigallia (Urbino, Galleria nazionale dell'Umbria), commissionata forse da Federico, come regalo per la figlia Giovanna, quando si sposò a Roma nell'ottobre 1478 con Giovanni Della Rovere, prefetto dell'Urbe e signore di Senigallia, o intorno al 1480, forse dai coniugi stessi quando si istallarono nella Signoria di Senigallia.

L'iconografia della Vergine affiancata da due angeli in un'ambientazione domestica è chiaramente intesa a invocare la sua protezione su una casa. Il dipinto contiene, nel fascio di luce che passa attraverso una finestra aperta con particelle di polvere sospese, un sottile accorgimento proprio dell'arte fiamminga, che dà al motivo naturalistico la doppia valenza poetica e scientifica. La Madonna pervenne agli osservanti del convento di S. Maria delle Grazie verosimilmente non prima del 1630 circa.

Tutto ciò che sopravvive dell'ultima attività del F. è collegato a Borgo. Egli comunque affittò un alloggio il 22 apr. 1482 (Battisti, 1992, p. 622, doc. CLXXXIX) per un anno a Rimini per un motivo tuttora sconosciuto. La sua famiglia si era andata sempre più stabilizzando sotto il profilo sia economico sia sociale, tanto che il F. cominciò la ricostruzione della casa di famiglia, tuttora esistente. Soltanto l'ala descritta dai documenti alla fine del XV secolo come "casa nova", che formava la fronte della casa, fu completata: la facciata, molto modificata nel XV secolo, e l'interno indicano che il F. fu molto influenzato da Laurana e dallo stile architettonico del palazzo ducale di Urbino. Pacioli lo definisce "monarca a li di nostri della pictura e architectura" (De divina proportione, f. 33r) e Salmi (1945) era incline ad attribuire al F. un ruolo importante nella concezione del palazzo ducale. Tuttavia, l'unica altra architettura che può essere attribuita a lui senza esitazione è il seminterrato della residenza di Borgo, che fu convertito sotto la sua supervisione in un magazzino dal febbraio 1474. È possibile che anche la porta rinascimentale della stessa costruzione e la loggia davanti (andata distrutta), erette nel 1458, siano state fatte su suo disegno.

La "casa nova" fu probabilmente costruita dal F. dopo la morte del padre nel 1464, quando egli diventò capofamiglia. La "sala" dei suoi appartamenti al primo piano della nuova ala fu affrescata da lui; della decorazione rimane soltanto un frammento con il Giovane Ercole, in piedi (Boston, Isabella Stewart Gardner Museum). L'opera va datata all'inizio o alla metà dell'ottavo decennio.

Gli ultimi lavori del F. sono la Madonna col Bambino, raffigurata in maestà, fiancheggiata da quattro angeli, nella corte del paradiso, probabilmente eseguita per Cristoforo Gherardi, gonfaloniere di Borgo nel 1500 (Williamstown, MA, Sterling and Francine Clark Art Institute).

La sua prospettiva, come quella della Madonna di Senigallia, è di sotto in su, il che suggerisce che il F. progettò le due pitture per essere guardate da devoti inginocchiati. Se così fosse, questa sarebbe una delle "prospettive e secreti dell'arte [che] sono agli intelligenti grate" che Saba da Castiglione (Ricordi…, Venezia 1554, n. CIX) loda nelle sue pitture.

L'ultima opera, la Natività di Londra (National Gallery), il F. la dipinse per la sua famiglia, presso cui rimase fino al XIX secolo. Poiché è ricordata dapprima nella camera di madonna Laudomia, la vedova del nipote, Francesco, fu forse dipinta per la coppia, che si sposò nel luglio 1481 (Battisti, 1992, p. 622, doc. CXXXV), come dono di matrimonio dopo il ritorno del F. da Rimini, presumibilmente nel 1483.

Questa data coincide perfettamente con l'arrivo a Firenze del Trittico Portinari (Firenze, Uffizi) di Hugo van der Goes, la cui influenza è molto visibile in questo dipinto. La composizione in generale sembra evocare invece quella di un'altra opera fiorentina, l'affresco della Natività dipinto nel 1460-62 da Alessio Baldovinetti per il chiostrino dei Voti dell'Annunziata. Il famoso dipinto del F., in cui la Vergine adora il Bambino, mentre gli angeli suonano e i pastori raccontano a Giuseppe la loro visione, è il risultato finale della sua arte, in cui originalità di colori, invenzione poetica e sobrio realismo sono magicamente fusi insieme.

In quegli stessi anni sono inoltre documentate a Borgo alcune opere perdute, tra cui la decorazione a fresco della cappella della Compagnia della Madonna nella Badia, eseguita nel 1474 per 200 lire (40 fiorini) e un affresco dipinto sul muro tra la chiesa e l'ospedale della Misericordia, commissionato e completato tra il 13 maggio e il 31 dic. 1478 (Battisti, 1992, p. 620, doc. CLVI), per 87 lire e 10 soldi. Il F. dipinse anche a fresco la facciata di S. Agostino, e gli affreschi dei due santi (Cosma e Damiano) ricordati da Vasari "nel pieve… dentro alla porta del mezzo" di San Sepolcro, che furono in realtà dipinti nella badia e non nella pieve. Un piccolo ritratto del F., di proprietà di Giuseppe Marini Franceschi dal 1824, fu variamente considerato nel XIX secolo un autoritratto autografo oppure una copia: ora è andato perduto, cosicché non può essere stabilito se esiste un rapporto con il ritratto inciso che illustra la "vita" del F. scritta da Vasari nell'edizione del 1568. Il ritratto dipinto o quello inciso dovrebbero essere la fonte che consentì l'esecuzione del ritratto del F. a tutt'altezza (Sansepolcro, Museo civico), eseguito intorno al 1630: esso mostra il F. nelle vesti o di cancelliere di Borgo o di un priore della Confraternita di S. Bartolomeo, la confraternita più importante della città, con i libri che simboleggiano i suoi scritti.

Secondo Graziani il F. negli ultimi anni rimase a Borgo, dove fu eletto consigliere ripetutamente dal 1° luglio 1477 (fu riconfermato il 28 ottobre, rieletto il 1° sett. 1478, il 20 giugno 1479, il 1° genn. 1480, il 25 giugno 1480, il 1° luglio 1480), mantenne la carica di priore della Confraternita di S. Bartolomeo, una delle più importanti onorificenze di Borgo, dal 20 luglio 1480 al 1482, e l'8 ott. 1480 fu uno dei "ragionieri" scelti per controllare le finanze della città (Battisti, 1992, p. 621, n. CLXXV). Quest'ultimo incarico testimonia le sue doti nel campo dell'aritmetica pratica, ampiamente documentate nel suo Libro d'abaco, talvolta datato 1450 circa, ma probabilmente composto durante questi anni, e scritto per un membro della famiglia Pichi, verosimilmente Paolo di Meo, che sposò la nipote del F., Romana, il 3 dic. 1480 (ibid., p. 631).

Del trattato si conservano a Firenze due copie, l'originale del F. (Biblioteca Laurenziana, Codd. Ashb. 280, pubblicato da G. Arrighi, Pisa 1970) e una versione della fine del XV secolo, abbreviata e modificata da un'altra mano (Firenze, Biblioteca nazionale, Conventi soppressi, A.6.2606). Il trattato riguarda i problemi di aritmetica commerciale avanzata, presi dalla vita commerciale di Borgo e riflette l'attitudine commerciale e matematica che il F. doveva aver ereditato dalla sua famiglia.

Precedente a questo doveva essere stata la più importante opera matematica del F., il De prospectiva pingendi.

È il primo trattato pratico che si sia conservato sulla prospettiva lineare o geometrica del Rinascimento, e preservò la fama del F. fra i teorici della prospettiva e i matematici dopo che la sua fama come pittore cominciò a diminuire. Il F. fu probabilmente stimolato a comporre questo trattato dall'influenza della corte di Urbino, poiché negli ultimi anni, come attesta Vespasiano da Bisticci, Federico da Montefeltro si dedicò agli studi matematici sotto la guida di Paolo di Middelburg. Nella sua dedica a Guidubaldo da Montefeltro del più tardo Libellus de quinque corporibus regularibus, il F. gli ricorda che negli anni precedenti aveva presentato una copia del De prospectiva alla biblioteca di Urbino. L'opera è illustrata da diagrammi, a cui il F. si riferisce nel testo: lo stesso accade nel Libro d'abaco e nel Libellus, cosicché tutti e tre dovettero essere composti prima che il F. diventasse cieco, per una malattia che lo colse nell'estrema vecchiaia, secondo Graziani. Per tutti e tre gli scritti è possibile considerare una datazione fra il 1480 e il 1490, dal momento che nel luglio 1487 il F. era ancora in grado di vedere, tanto da scrivere di suo pugno una postilla al testamento (Battisti, 1992, p. 624, doc. CCX). Il Libellus dovrebbe datarsi tra il 1483 e il 1490, più probabilmente attorno al 1488-90, poiché è dedicato a Guidubaldo, che diventò duca di Urbino nel settembre 1482, all'età di dieci anni. Il Trattato d'abaco appartiene alla fiorente tradizione toscana dei trattati di aritmetica iniziata da Leonardo Fibonacci da Pisa, intorno al 1200. A differenza di questi non è un trattato elementare, ma presume una certa conoscenza delle fondamentali operazioni di aritmetica, e aggiunge più sezioni teoriche di algebra e geometria. Il De prospectiva pingendi fu scritto in italiano (quello che sembra essere il manoscritto autografo del F. è conservato a Parma, Bibl. Palatina, cod. Parm. 1576 ed è stato edito criticamente da C. Winterberg, Strassburg 1899, e da G. Nicco Fasola, Firenze 1942) e fu tradotto in latino da maestro Matteo Cioni, concittadino del F. e frate osservante, descritto da Pacioli come "el famoso oratore: poeta: e rhetorico: greco e latino suo assiduo consotio: e similmente conterraneo" (la versione latina ancora inedita è conservata a Milano, Bibl. Ambrosiana, Mss., C 307 inf.). La versione in latino doveva essere indirizzata a matematici dotti, interessati alla teoria della prospettiva come studio matematico, mentre quella in italiano era sicuramente indirizzata agli artisti, probabilmente delle Marche e dell'Umbria, più che della Toscana, dove non ne sopravvive alcuna copia. Per il F. e per i suoi contemporanei la prospettiva lineare o geometrica era una grande scoperta del loro tempo. Il libro I dimostra come progettare in prospettiva il piano d'appoggio su cui il pittore deve porre le sue figure in prospettiva, e formula, apparentemente per la prima volta, il limite tra la proporzione relativa e la distanza relativa delle cose rappresentate come la distanza tra l'occhio e l'immagine piana e la distanza tra il piano e la cosa vista. Il II libro tratta dell'elevazione sul piano di figure solide in prospettiva, come masse cubiche, stipiti, colonne. Il III libro riguarda la forma complessa o irregolare, la testa umana, i motivi architettonici, ad esempio nelle volte cassettonate con motivi a rosette, come nella pala di Brera. Attraverso Pacioli il De prospectiva fu noto a Leonardo da Vinci, e fu usato da vere autorità nel campo della prospettiva del XVI secolo come Daniele Barbaro. Il trattato è una rigida guida pratica alla soluzione dei problemi della prospettiva. La forma del De prospectiva risentì senza dubbio degli Elementa di Euclide, che il F., se si deve credere a Vasari, aveva studiato fin dalla prima giovinezza, e che probabilmente possedeva nella versione corrente in latino di Giovanni Campano. Il Libellus de quinque corporibus regularibus, conosciuto solo nella versione latina (conservata presso la Biblioteca apostolica Vaticana, Urb lat. 632, e pubblicata da G. Mancini in Memorie dell'Accademia dei Lincei, classe di scienze morali, s. 5, XIV [1909], pp. 446-480), deve essere stato scritto dopo il Libro d'abaco, poiché risolve correttamente una serie di problemi erroneamente risolti nel trattato. Il Libellus riguarda i cinque poliedri della geometria platonica e offre un nuovo metodo aritmetico per la soluzione dei problemi connessi con i cinque corpi regolari iscritti in una sfera. Alcuni problemi del F. sono problemi da architetto; ed è stato dato troppo poco peso alla ricostruzione della mentalità e della cultura del F. in rapporto con il suo studio di Vitruvio, di cui il F. copiò per esteso nella dedica del Libellus la prefazione al III libro del De architectura. Dopo la morte del F. i suoi lavori furono molto lodati e utilizzati, senza indicare la fonte, da Luca Pacioli, che incorporò nella sua Summa del 1494 intere sezioni del Trattatod'abaco e nel De divina proportione (1509) la maggior parte del Libellus. Questo spinse il Vasari nel 1550 ad accusarlo di plagio.

Le ultime menzioni del F. sono negli archivi della città nel gennaio e febbraio 1491 (Polcri, 1988, p. 48) prima dell'ottobre 1492 quando morì a Borgo San Sepolcro, dove venne seppellito nella tomba di famiglia nella cappella di S. Leonardo nel chiostro della badia (Battisti, 1992, p. 627, doc. CCXXVII).

Secondo Graziani (1585), dopo essere stato colpito dalla cecità non abbandonò l'attività intellettuale, ma occupò gran parte del suo tempo ascoltando un lettore e poi meditando su ciò che aveva udito e dettando a un amanuense. I suoi libri, i disegni e i suoi beni furono valutati dopo la sua morte più di 200 ducati. Nel 1556 un certo Marco di Longaro, che nel 1508 aveva avuto rapporti con Pacioli, ricordava che da ragazzo aveva portato il F. cieco in giro per Borgo.

Non rimangono disegni del F. a eccezione dei diagrammi che illustrano i suoi trattati, sebbene egli senz'altro fece e tenne disegni secondo l'abitudine dei pittori del tempo. Un disegno a spolvero di un soldato nudo nel Boymans Museum di Rotterdam (N. 1.280V) è collegato al Franceschi. La sua importanza come il più grande matematico tra i pittori e precursore dello stile del tardo Rinascimento fu pienamente riconosciuta da Vasari. Con il tempo i suoi dipinti furono negletti, soprattutto dal momento che Borgo San Sepolcro, Arezzo e Urbino furono tagliate fuori dal percorso del "Grand Tour", e la sua reputazione si ravvivò soltanto a partire dal quarto-quinto decennio dell'Ottocento.

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