COLLAZIO, Pietro Apollonio Massimo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 26 (1982)

COLLAZIO (Collatius, Collatinus), Pietro Apollonio Massimo

Roberto Ricciardi

Nacque a Novara nella prima metà del XV sec., probabilmente verso il 1430-1435.

La data della nascita non si può fissare con sicurezza. Considerando che nelle Epistole, composte verso il 1460, il C. chiede al pontefice Pio II di prendere le difese delle sue poesie "quamvis incomptis resonent... verbis" (Epist. VII, 47), dato che sono state scritte "tenero tempore" (ibid., 50), si può pensare che al momento di pubblicarle l'autore fosse in età giovanile, sulla trentina o poco più. Mentre tutti i suoi biografi sono concordi nel ritenere il C. originario di Novara, essendo egli designato costantemente nella titolazione delle sue opere come "presbyter Novariensis", il Vinay (p. 214) avanza l'ipotesi che il C. sia di origine meridionale, e lo mette in collegamento con l'umanista "siciliano" (calabrese) Matteo Collazio (Colacio) operante a Pavia nell'anno 1490. L'appellativo "Novariensis" indicherebbe semplicemente che il C. fu ordinato sacerdote a Novara e godette della cittadinanza di questa città. Ma in un atto del 29 ott. 1488 troviamo menzionato Andr(e)inus de Collatiis, maestro "artis et medicinae", figlio di mastro Alisius, un tempo professore di grammatica (Novara, Arch. notarile, rogiti not. G. A. Rosati). È legittima la congettura che costui fosse parente stretto del C., probabilmente un cugino o un nipote. Il Vinay, che nega l'origine novarese della famiglia, osserva che neanche per Andreino (che era ancor vivo nel 1521, anno in cui Lancino Corti gli dedicò un epigramma) abbiamo prove che fosse di Novara. Di sicuro possiamo dire che da un lato il C., dall'altro Andreino e suo padre Alisio avessero in comune preparazione letteraria e cultura umanistica, frutto di tradizione familiare, anche ammettendo che la loro collocazione sociale non fosse molto elevata. Un tentativo, nato da un abbaglio, di identificare con certezza il C. in un personaggio noto, fu compiuto dal Cotta (p. 245), che vide quasi in "Collatius" l'anagramma di "Cattaneus", cognome di una nobile famiglia di Novara. L'errore, accettato da molti biografi, fu confutato dal Tiraboschi (p. 212) e definitivamente dal Negroni (pp. 29-32). Secondo la moda umanistica, il C. latinizzò il suo cognome (che sarà stato Collazzi o Colazzi, con terminazione tipicamente lombarda) in "Collatius" o, per la suggestione liviana, "Collatinus". Il nome di battesimo era sicuramente Pietro, "Apollonius" un soprannome connesso con la sua attività poetica (come si ricava da un distico del poeta milanese Piattino Piatti, spesso citato dai biografi, pubblicato con le opere di questo a Milano nel 1502, ma di data certo più antica: Baillet, p. 14 n. 1), mentre dell'appellativo "Maximus" con cui è indicato nella didascalia delle Epistole non abbiamo altra attestazione. Dubbiosa che "Petrus Apollonius Collatius" e "P. Maximus Collatinus" siano la stessa persona è la Tosi (p. 15), la quale pensa che le epistole, scritte almeno venti anni prima delle altre opere del C., siano piuttosto da attribuirsi a un giovane poeta, che in seguito si sarebbe dedicato al mestiere delle armi (p. 18).

Il C. con ogni probabilità fu ordinato sacerdote dal vescovo di Novara, Bartolomeo Visconti (morto nel 1457), che per qualche tempo ebbe come suo segretario Enea Silvio Piccolomini, il futuro Pio II, con il quale poi partecipò al concilio di Basilea (1432). A quest'ultimo il C. dedicò il suo libro di epistole, anche se è soltanto un'ipotesi che i due si siano conosciuti, tenuto conto dei rapporti intrattenuti dal Piccolomini con l'ambiente novarese (Negroni, pp. 43 ss.). Sembra infatti più logico supporre che l'oscuro prete piemontese, volendo a suo modo contribuire allo spirito della crociata, promossa da Pio II contro i Turchi nel 1459, abbia dedicato il suo protrettico al capo della Cristianità.

Il libro delle Epistole, costituito da sette lettere poetiche in distici elegiaci, restò ignorato fino a che il Tiraboschi (1781) diede notizia di un codice di Savignano, appartenente a Giovanni Amaduzzi, che conteneva tale opera (p. 212). Su un apografo di tale ms. fu allestita nel 1877 a Novara un'edizione del testo latino, con traduzione italiana in terzine, a cura di S. Grosso, C. Negroni e C. M. Nay, il cui titolo è Epistolarum liber de exhortatione in Turcos ad Pium secundum Pontificem Maximum. La prima epistola è indirizzata al papa, la seconda all'imperatore Federico III, la terza al re di Francia Carlo VII, la quarta al delfino Luigi, la quinta al re Ferdinando di Napoli, la sesta a Francesco Sforza, la settima a tutti i cristiani. Come data di composizione si assumono facilmente gli anni tra il 1459 (Dieta di Mantova) e il 1460. Il C. scrive in uno stile decoroso e in una lingua corretta, anche se non sempre nel rispetto della prosodia, ma cade di frequente in amplificazioni retoriche e abusa dei luoghi comuni del genere esortatorio, che gli impediscono di levare una voce "sicura e spontanea" (Tosi, p. 15). Tutto il liber è inzeppato di reminescenze ovidiane e virgiliane.

Dopo il 1460, è probabile che il C. attendesse da un lato alla sua professione ecclesiastica, dall'altro continuasse a comporre versi. Come spesso succede, a una produzione giovanile di tipo più personale, di tono più acceso, seguì una fase più matura, riflessa in un poema epico di 2.486 esametri in quattro libri, intitolato De eversione urbis Hierusalem, che fu pubblicato nel 1481a Milano da U. Scinzenzeler e L. Pachel, a proprie spese.

L'opera incontrò un ampio successo e fu ristampata in seguito a Parigi nel 1540 da Jean de Gaigny, che ignorando l'edizione del 1481 credette di esserne il primo editore, con il titolo De excidio Hierosolymitano. Nel 1575 il poema fu inserito da Margarin de la Bigne nel vol. VIII, pp. 750-767, della sua Bibliotheca patrum (ristampato nel 1677)L'edizione più importante fu tuttavia quella di Adriano Van der Burch (Anversa e Leida 1586), che presenta, oltre a un commento essenziale, anche notevoli miglioramenti del testo. Il de la Bigne pensava che il C. fosse un poeta cristiano dell'età carolingia, un tardo padre della Chiesa. Il primo ad accorgersi dell'errore e a collocare la sua fioritura nella seconda metà del secolo XV, facendone all'incirca un contemporaneo del Poliziano, fu il Voss (III, 1697, p. 254), seguito poi dai numerosi critici che si occuparono del C. e della sua opera. Il poema ha come fonte storica il Bellum Iudaicum di Giuseppe Flavio, e i suoi quattro libri corrispondono ai libri III-VI della fonte. L'azione procede rapidamente, eliminando gli elementi secondari e le digressioni meditative del modello, attenendosi nel taglio degli episodi e nella rappresentazione degli ambienti alle opere epiche di Virgilio e di Stazio. Tuttavia lo spirito che animava il Bellum dì Flavio è assente nel C.: egli presenta la distruzione di Gerusalemme come la conseguenza dell'ira divina, i suoi abitanti come barbari, impiega in modo indiscriminato il materiale mitologico tradizionale atteggiando la sua Vergine ora su Teti, ora su Venere o Giunone. Si tratta di un tentativo, puntellato di elette reminescenze del fraseggiare classico, ma anche aduggiato da molta retorica (Tosi, p. 27), di dar vita a una epopea cristiana, che, come rileva il Vinay (p. 221), rivela o uno studio di Virgilio e di Stazio unico nel '400 piemontese".

Mentre attendeva al poema epico, il C. veniva componendo altri carmi di contenuto sacro e profano. Queste poesie, che costituivano probabilmente l'intera produzione giovanile del C., furono pubblicate solo nel 1692 a Milano col titolo Heroicum carmen de duello Davidis et Goliae,elegiae et epigrammata: nunc primum in lucem prodeunt a cura del giureconsulto novarese Lazzaro Augusto Cotta, che si valse di un apografo magliabechiano (Mazzatinti, XII, p. 27). Oltre a un "heroicum carmen de duello Davidis et Goliae" per cui l'autore si attiene ai soliti modelli Virgilio e Stazio, la silloge, che è dedicata a Lorenzo de' Medici, comprende elegie ed epigrammi intessuti su vari temi, da quello bucolico al sentimentale, da quello funebre al mitologico all'ironico, in cui il C. dimostra una certa abilità "nella descrizione degli affetti" (Vallauri, p. 62). L'opera fu ristampata a Rudolstadt nel 1714 e a Tubinga nel 1762 con emendazioni. Nel 1492 fu pubblicato a Milano da Filippo Mantegazza, a spese del giureconsulto Paolo Rognoni di Taegio, il Libellus maiorum Fastorum, spiegato nel titolo stesso come "carmina sacra in praecipuas per annum festivitates aliisque occasionibus facta". L'opera è dedicata al card. di Aleria, Ardicino della Porta. Questo dimostra che il C. godeva di qualche stima sia nell'ambiente letterario milanese sia in quello di Curia. Un'avvertenza dell'editore informa il lettore che con quest'opera il poeta "hortatur se ipsum ut relictis saecularibus variisque carminibus divinas res aggrediatur ingeniumque et poeticae artis facultatem utiliori materia exerceat" (c. 2r), come dimostra l'interrogativo che nell'elegia seguente il C. rivolge a se stesso: "quid obfuturae instas materiae?" (c. 2v).

I Fasti con la loro prevalenza di carmi elegiaci sono l'espressione di un atteggiamento pio ed edificante che cerca di creare, in opposizione a quella ovidiana, una etiologia cristiana delle feste e delle ricorrenze religiose. Lo stile è fluido e l'imitazione virgiliana, anche se ovvia, contenuta: non sempre il C. rispetta la prosodia, ma i suoi versi sono sostanzialmente corretti. In complesso l'opera appare più fiacca rispetto all'Excidium e al Duellum, dovendo presentarsi esclusivamente in termini edificanti che tradiscono un'ispirazione freddamente convenzionale, come notava già lo Scaligero giudicando il poeta "frigidiusculus" (p. 307).

Dal fatto che i Fasti siano stati pubblicati dal Rognoni "ob singularem erga auctorem... benivolentiam" il Vinay (p. 226 n. 1) ricava che il C. deve essere morto a Novara tra il 1489 (quando Ardicino della Porta fu nominato cardinale) e il 1492. È più probabile, tenuto conto dell'elegia che gli rivolge Piattino Piatti, che il C. sia morto nei primi anni del 1500, all'incirca settantenne. Della sua tomba e di altri membri della sua famiglia non si ha alcuna traccia.

Oltre agli scritti di cui già si è parlato, del C. restano vari epigrammi editi e inediti: nel cod. fiorentino Magl. VII, 83, contenente la silloge pubblicata dal Cotta nel 1692, si trovano (f. 9) due epitaffi di Paolo II e Sisto IV che, come già notava il Fabricius (p. 257)mancano nell'ed. del Cotta; due epigrammi del C., esclusi dalle opere a stampa sopra citate, furono pubblicati da G. Penotti, Historia tripartita, Romae 1624, pp. 773 s.; altri epigrammi e due elegie a s. Bernardo e alla Maddalena si trovano nella Chronica canonici ordinis di G. Filippo da Novara, Cremonae 1535 (riportati anche dal Negroni, pp. 127-142); un carme del C. in lode dell'autore si legge inoltre in appendice (non numerata) a G. Vesconte, Rithimi [sic], [Mediolani] 1493.

Bibl.: G. C. Scaligero, Poetice, Parisiis 1561, p. 307; C. Barthius, Adversaria, Francofurti 1624, coll. 1163 ss.; J. Mabillon, Iter Italicum litterarium, Lutetiae 1687, p. 194; G. I. Vossius, De historicis Latinis, II, Amstelodami 1696, p. 252; III, ibid. 1697, p. 254; L. A. Cotta, Museo novarese, Milano 1701, pp. 245 ss.; P. Bayle, Dict. historique et critique, I, Rotterdam 1719, pp. 970 s.; A. Baillet, Jugemens des savans sur les principaux ouvrages des auteurs, IV, Amsterdam 1725, pp. 14 s.; I. A. Fabricius, Bibliotheca latina, I, Venetiis 1728, p. 257; I. A. Sassi, Historia literario-typographica Mediolanensis, Mediolani 1745, pp. CCXXXII, DIV, DXCII; F. S. Quadrio, Della storia e della ragione di ogni poesia, IV, Milano 1749, p. 665; G. Tiraboschi, Storia d. lett. ital., III, Milano 1833, p. 212; T. Vallauri, Storia della poesia in Piemonte, 1, Torino 1841, pp. 62, 93; J.-Ch. Brunet, Manuel du libraire, I, Paris 1860, col. 347; F. Spreafico, Illustraz. novarese,C. P. A., in Vessillo della libertà (Vercelli), 1860, nn. 49, 51; C. M. Nay-S. Grosso-C. Negroni, Di P. A. C. il libro delle epistole a Pio II, Novara 1877, pp. 5-10, 29-63; R. Renier, Gaspare Visconti, in Archivio storico lombardo, XIII (1886), pp. 818 s.; G. B. Finazzi, Notizie biogr., Novara 1890, pp. 37 s.; I. Tosi, L'opera di un umanista novarese, Novara 1907; A. Lizier, Le scuole di Novara e il Liceo-convitto, Novara 1908, p. 320; G. Vinay, L'umanesimo subalpino nel sec. XV, Torino 1935, pp. 214-228; V. Rossi, Il Quattrocento, Milano 1938, pp. 237, 274 n. 29; M. E. Cosenza, Dictionary of the Italian Humanists, II, Boston 1962, p. 1035; F. Cognasso, Storia di Novara, Novara 1971, p. 375; J. F. Michaud, Biographie universelle, VIII, pp. 585 s.; G. Mazzatinti, Invent. dei mss. d. Bibl. d'Italia, XII, p. 27; Gesamtkatalog der Wiegendrucke, VI, p. 748, nn. 7157 s.; P. O. Kristeller, Iter Italicum, I, p. 129; II, pp. 123, 335, 396.

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