BALLERINI, Pietro

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 5 (1963)

BALLERINI, Pietro

Ovidio Capitani

Figlio di Giovan Battista, medico e professore di chirurgia, nacque a Verona il 7 sett. 1698. Compiuti i propri studi presso i gesuiti, nel 1722, dopo aver concluso il corso di teologia, veniva ordinato sacerdote: la morte del padre obbligò lui ed il fratello Girolamo a dedicarsi all'insegnamento. Così, nel clima di rinnovato entusiasmo per s. Agostino creato dal Noris (la ristampa dell'Historia pelagiana era del 1702), il B. pensò di avviare i suoi giovani allievi (tra i quali il Torelli, il Muselli, il conte Miniscalchi, il conte p. Emili) allo studio del dottore d'Ippona con un opuscolo Il metodo di S. Agostino negli studi, dedicato, in nome degli Accademici Apatisti, al marchese Scipione Maffei: era il 1724. Pochi anni dopo apparivano a cura di Girolamo e p. Ballerini gli Henrici Norisii Veronensis Opera Omnia, nunc primum collecta atque ordinata (Veronae 17291732), comprendenti una Historia donatistarum (Opera, IV, coll. 1-674), messa insieme dai due fratelli su appunti dello stesso Noris. Ma proprio certe affermazioni contenute nell'opuscoletto del '24 sul metodo di s. Agostino sollevarono delle accuse di "probabiliorismo" contro il B. che, pur educato alla scuola dei gesuiti, mostrava di preferire ancora, come guida del comportamento, il criterio della certezza morale e degli argomenti positivi espressi nella norma etica, avvicinandosi - come farà in seguito anche per la questione circa le usure - alla posizione dei domenicani.

Gli interventi del B. nella disputa tra probabilisti e probabilioristi non sono stati oggetto di indagine: si pensi che alla voce probabilisme del Dict. de Théol. cath., XIII, coll. 417-619, curata dal Deman, che è pur sempre un modello, nessuna menzione è fatta del Ballerini. Ciò forse è dovuto alla circostanza che le opere balleriniane, almeno in quella che potremmo chiamare la prima fase delle dispute probabiliste veronesi, comparvero tutte anonime. Senza neppur pensare di addentrarsi nell'analisi delle argomentazioni - che peraltro confermano una linea generale di rigorismo etico che troverà modo di esprimersi in tutte le opere del B. - sarà comunque opportuno dare notizia, almeno degli scritti "anonimi" balleriniani: Risposta alla lettera del P. Paolo Segneri della Compagnia di Gesù su la materia del probabile: ove si propongono li veri principi della teologia morale, Verona 1732, 2 ediz. 1735 (l'opera prendeva lo spunto dalla pubblicazione postuma delle Lettere del Segneri, fatta a Colonia nello stesso 1732, sotto il nome di Massimo degli Afflitti). Poiché a questa Risposta fece seguito la replica anonima d'un gesuita (Lettera di un teologo all'autore della Risposta alla lettera del P. Paolo Segneri..., Verona 1735) e sempre a Verona da un teologo della stessa Compagnia di Gesù furono dettate pubblicamente quattro dissertazioni contro la Risposta, il B. ritornò sulla questione con Epistolae quatuor theologomorales adversus dissertatorem Soc. Iesu seu Censure quatuor dissertationum quae dictatae fuerunt contra libellum italice inscriptum Risposta..., Veronae 1734. Si aggiungeva "italico sermone" una Confutatio Epistolae cuiusdam theologi adversus eandem responsionem, Veronae 1734. Nel 1736, finalmente, al Richelmio, probabile autore del Saggio di annotazioni sopra l'opera che ha per titolo: Confutazione della lettera di un teologo..., rispondeva con il Saggio della storia del probabilismo nella descrizione del cangiamento di sei insigni probabilisti in probabilioristi, Verona 1736 (per le attribuzioni, cfr. G. Melzi, Diz. di opere anonime e pseudonime di scrittori italiani, Milano 1-111, 1848-1859: 1, p. 362 [per le Epistolae quatuortheologo-morales, II, p. 458 [per la Risposta alla lettera del P. Paolo Segneri... ], III, p. 9 [per il Saggio della storia del probabilismo... ]). Nel periodo di intervallo tra il chiudersi della prima controversia sul probabilismo e probabiliorismo e l'aprirsi della disputa sull'usura con il Maffei vide la luce la prima, importante opera di edizione del B. e di suo fratello Girolamo: Sancti Zenonis episcopi Veronensis Sermones, Veronae 1739.

I Sermones - detti anche Tractatus - avevano conosciuto altre edizioni, prima di quella dei fratelli Ballerini (cfr. Dict. de Théol. Cath., XV,2, sub voce Zénon de Verone, col. 3689), ma l'acribia filologica dispiegata nella pubblicazione dei due dotti veronesi, la possibilità di avere una collazione dei testi editi con il testo del codice remense del sec. VIII, già di Incinaro e da quest'ultimo donato al monastero di S. Remigio - collazione effettuata per conto dei Ballerini dal Maffei, pressato di richieste dai due amici (cfr. S. Maffei, Epistolario,a cura di C. Garibotto, II, Milano 1955, a F. Muselli, aprile 1738, n. 734; A. Spagnolo, S. M. e il suo viaggio all'estero, Verona 1903, pp. 23 s.) e, del resto, pubblicamente ringraziato (cfr. Praefatio alla citata edizione dei Sermones, p. V) - l'esame di numerosi altri codici, tutti accuratamente descritti in una.decina di pagine di prefazione all'edizione (pp. VI-XVII) resero giustamente celebre l'edizione, che passò poi nella Patrologia latina del Migne, Vol. XI, Coll. 253-528. L'edizione era accompagnata da ampi prolegomeni, articolati in tre dissertazioni sull'autenticità e sulla cronologia dei Sermones, sulla dottrina contenutavi - particolarmente importante per il cristianesimo africano del sec. IV, rappresentando una fase preagostiniana della teologia occidentale (vi si riscontrano gli influssi di Tirtulliano, Cipriano e Lattanzio) - e sull'attività di questo vescovo veronese, sul quale s'era anche soffermata la curiosità erudita dello stesso Maffei e il cui vescovato restò definitivamente fissato agli anni 356-380 d. C. 1 Ballerini ritennero autentici novantatré sermoni, sedici lunghi (propriamente dei veri Tractatus) e settantasette brevi, schemi più che altro, di sermoni. I Ballerini non videro certamente tutti i codici dei Sermones: ma alla loro edizione poco ha aggiunto quella più recente del Giuliari (i ediz. 1883; 2 ediz. 1900): cfr. H. Januel, Commentationes philologicae in Zenonem Veronensem, Gaudentium Brixiensem, Petrum Chrysologum Ravennaten.sem, pars I-II, Ratisbonae 1905-1906; E. Lófstedt, Patristische Beitrdge, Uppsala 1910.

Già nel 1734, quando in seguito ad una predica del p. Campana, domenicano, che aveva preso di mira in modo particolare l'usura, nelle sue varie manifestazioni, s'era prodotto in Verona una certa agitazione negli ambienti degli operatori economici, il B. era intervenuto con una sua operetta Cautiones adhibendae defensoribus literarum cambii aliorumque eiusmodì contractuum qui in usurae suspicionem veniunt, Veronae 1734, schierandosi dalla parte del domenicano. Ma più grave disputa doveva affrontare col Maffei, cui per altro era legato da amicizia, se a più riprese (Epistolario, cit., II, a B. Pellegrini, 16 nov. 1736, n.681; a B. de Rubeis, 1738, n. 740; a B. de Rubeis, 31 genn. 1739, n. 767) il marchese aveva mostrato di interessarsi per il conferimento di una cattedra di storia ecclesiastica al B.: conferimento che non pare avesse luogo, dato che solo dalle lettere del Maffei si ha notizia di questa possibilità e di questa ambizione del Ballerini.

La disputa con il Maffei a proposito dell'usura ebbe motivi complessi, che vanno cercati sia nell'atteggiamento, già esammato, del B., favorevole a posizioni rigoriste, in ambito di questioni morali sia nel clima di rivalità accademica, creatosi a Verona tra il Maffei, entusiasta quanto brillante e, talora, come nel caso in questione, alquanto superficiale indagatore dei più svariati aspetti dell'erudizione, sia nella situazione di piccole rivalità tra il vescovo di Verona ed il capitolo, gelosi delle proprie competenze e dei propri diritti.

L'occasione per il manifestarsi di questi contrasti latenti fu fornita dalla ristampa di un compendio del catechismo del Bellarmino: la Dottrina cristiana. Nella ristampa, e con il consenso del vescovo Giovanni Bragadin, soprattutto per intervento del B., erano state aggiunte delle postille particolarmente severe nei riguardi dell'usura: e con tali aggiunte, senza che se ne fosse previamente discusso con il capitolo, la ristampa apparve nel 1743. Il capitolo prese subito posizione (ii sett. 1743), deliberando di eleggere una commissione incaricata di cassare le aggiunte. Ma per l'intervento dello stesso governo veneto esso fu costretto a ritrattare le decisioni: la ristampa del catechismo aveva, del resto, avuto l'approvazione pontificia.

Nell'Informazione al Contarini (cfr. Simeoni, pp. 53 ss. dell'estr.) del 1746 il Maffei avrebbe dichiarato di essere intervenuto a favore dei sistemi amministrativi veneti, poiché nel 1743 era stato contratto, con alcuni banchieri genovesi, un prestito di 60.000 ducati al 4%. Uso che nelle Praelectiones apposte ad una nuova edizione di S. Antonino i fratelli Ballerini avevano decisamente condannato, sia nelle manifestazioni "eccessive", sia in quelle "moderate". Ma si trattò di difesa escogitata "a posteriori" dal Maffei, nel tentativo, per altro fallito, di ingraziarsi le autorità di Venezia, che avevano proibito la vendita e la diffusione del libro dello stesso Maffei Dell'impiego del denaro, 11, III, Verona 1744. Come poteva, infatti, il Maffei addurre a motivazione del suo trattato la volontà di dare una risposta alle Praelectiones dei Ballerini, dacché queste erano del 1740, tre anni prima, cioè, che venisse stipulato il prestito con i banchieri genovesi? Vero è che la pubblicazione della ristampa della Dottrina cristiana del Bellarmino aveva provocato, specie per le aggiunte in materia di usura, vivaci polemiche ("grave e popolar tumulto venne eccitato per certe cause e modi che non è qui d'uopo spiegare: ed in questo tumulto l'istruzione dell'usura principalmente venne attaccata" : così il B. ne La dottrina della Chiesa cattolica circa l'usura..., 1 ediz., Bologna 1744, p. 8; 2 ediz., ibid. 1747, p. 9). Il vescovo di Verona si sarebbe rivolto allo stesso Maffei per aver consiglio: ed il Maffei, forse anche perché impermalito per non essere stato consultato, come lo era stato il B., al momento della disputa sorta tra la diocesi veronese ed il patriarca di Aquileia, avrebbe dichiarato che gli ecclesiastici veronesi erano pigri nell'assolvimento delle loro funzioni, che assolvevano i malversatori della pubblica amministrazione e che "questo si doveva mettere nella Dottrina e non censurare chi dà al 3 o 4..." (cfr. L. Simeoni, p. i 1, n. 2 dell'estr.).

Sta di fatto, del resto, che scrivendo al Poleni il 14 maggio 1744 il Maffei affermava: "Io sono destinato a sagrificarmi per la verità e per il bene pubblico..." (Epistolario, II, n. 1004). A informarci dell'antefatto è lo stesso B., il quale pur non esitando, dalle prime battute, ad attaccare esplicitamente il Maffei, si mostra consapevole dei grandi meriti acquisiti dall'erudito concittadino, ma, pur non immemore dell'amicizia intercorsa, dichiara "non esservi amicizia che prevaler debba alla verità o a quel che si crede vero" (così il B. nell'Introduzione de La dottrina). Sul piano generale della trattazione dell'usura le argomentazioni del B. nonportano sostanzialmente alcun elemento nuovo: né per altro è questo che importa all'autore de La dottrina, che vuole, piuttosto, ribattere alcuni punti centrali della trattazione maffeiana, e cioè: l'asserita distinzione tra usura eccessiva ed usura modesta; l'identificazione dell'usura con la richiesta di un tasso di interesse, per un prestito, ai poveri; il dubbio sull'autenticità di un breve di Gregorio XIII a Guglielmo V il Religioso, duca di Baviera; l'adesione alle tesi di Nicola Broedersen, teologo giansenista, ritenuto dal Maffei cattolico. Il B. portò - facilitato in ciò dalla stessa argomentazione del Maffei - la discussione sul piano meramente teologico ed ebbe, naturalmente, buon giuoco: del resto egli si disponeva a scrivere sull'argomento sin dal 1732. Al Maffei, che interpretava canoni e decretali e tesi teologiche pensando alla pratica - e che quindi aveva fondamentalmente ragione nel notare attenuazioni e variazioni nelle disposizioni in materia usuraria - ma che aveva commesso l'errore di identificare con l'usura quei contratti leciti (o quasi leciti) che la casistica medievale e rinascimentale della Scolastica aveva pur previsto (ma non erano "usure lecite", come si esprimeva il Maffei, con evidente contraddizione), il B. obiettava non aver senso una distinzione tra usura smodata e minima (cap. II), esservi differenza tra usura e indennità (nei monti di pietà); ricadere l'usura nell'ambito dei peccati contro giustizia, non di quelli contro carità e non esservi quindi differenza tra il pretendere un "quid ultra sortem" da un povero o da un ricco. Il B. ribadiva inoltre la contrarietà dell'usura al settimo comandamento del Decalogo e negava che gli scolastici - come aveva affermato il Maffei - avessero per primi introdotto proibizioni e divieti (cap. IV), insistendo sull'assoluta identità di vedute e di opinioni degli scolastici e dei canonisti in fatto di usure (ma nomina s. Raimondo, s. Bonaventura, s. Tommaso, s. Antonino e tace di moltissimi altri). Al fondo dell'atteggiamento balleriniano era una posizione rigorista, che ben ricordava le tesi probabilioriste (se non addirittura di tuziorismo larvato) assunte dal B. nel corso della polemica a proposito delle lettere del p. Segneri, di cui si è già detto: e a questa intransigenza probabilmente è fatto implicitamente riferimento nella Vixpervenit di Benedetto XIV, emanata nel 1745, con la quale senza entrare direttamente nel merito della disputa si ribadiva la posizione di Roma, per cui esigere un interesse ipsius mutui ratione era peccato d'usura e, d'altra parte, era vietato tacciare senz'altro d'eretici coloro che ammettevano qualche forma di interesse in determinate circostanze.

Il giudizio salomonico non voleva, in realtà, essere favorevole né alla posizione maffeiana né a quella rigorista del B.: pure il Maffei lo interpretò come una vittoria personale ed in tal senso ne scrisse agli amici (cfr. L. Simeoni, p. 31, n. 3; S. Maffei, Epistolario, II, nn. 038-1043, dal 12 al 26 nov. 1745).

Il Maffei aveva dedicato l'opera a Benedetto XIV nella speranza di averne l'appoggio; ma tale speranza risultò vana ed anzi, in seguito alle reazioni negative provocate in certi ambienti (specie di domenicani) dalla sua opera, egli si vide costretto, come si disse, a mantenere il silenzio sulla questione da parte delle autorità veneziane. Nel febbraio del 1745, per altro, usciva in Bologna l'opera balleriniana, cui il Maffei non poté rispondere, perché ancora una volta le autorità venete intervennero, obbligando sia il Maffei sia il B. a non continuare la controversia: in effetti il provvedimento riuscì di danno soprattutto al Maffei, cui era negata la possibilità di difendersi dalle accuse piuttosto gravi mossegli nella Dottrina della Chiesa cattolica. Il Maffei non si rassegnò e nell'Informazione a S. Contarini (pubblicata dal Simeoni, pp. 53 ss.), procuratore di S. Marco e provveditore di Terra Ferma, scritta verosimilmente nel 1746, tentava di scagionarsi e di ottenere la possibilità di rispondere agli attacchi balleriniani. Con quell'intolleranza, tipica nel Maffei, verso ogni critica rivolta alle proprie posizioni, egli arrivava a scrivere che in Verona "... i pochi preti autori [della ristampa della Dottrina bellarminianal sono per verità di pochissime lettere e quel ch'è di più D. Pietro Ballerini cominciò già a confessare, ma fu subito fatto desistere, né ha più confessato..." (cfr. Informazione al Contarini ed. Simeoni, p. 59), dimenticandosi delle professioni di stima fatte nei riguardi del B., per iscritto, soltanto pochi anni prima. In un punto il Maffei coglieva nel segno, quando avvicinava le posizioni morali del B. a quelle gianseniste, ricordando il favorevole commento alla ristampa della Dottrina del Bellarmino che era apparso nel foglie giansenista Les Nouvelles ecclésiastiques del 25 dic. 1745; in tale commento, di un corrispondente da Roma, il Maffei era stato schernito ed il B. lodato. Né le cose andarono meglio per il Maffei quando, grazie all'intervento del Tamburini, ottenne che venisse stampata nel 1746 a Roma (a sue spese) la seconda edizione de Dell'impiego del denaro, premettendovi la Vix pervenit: il governo veneto, cui il Maffei non aveva comunicato in alcun modo che il suo libro stava per uscire nuovamente - e con l'implicito consenso papale - reagì imponendo al marchese di ritirarsi nella sua villa nei pressi di Cavalcaselle e ordinando nel contempo la confisca del libro.

Ma vera e propria Summa della questione sull'usura con esplorazione di un materiale vastissimo (Antico e Nuovo Testamento, canoni conciliari, scritti di Anastasio, Ilario, Basilio, Gregorio di Nissa, Ambrogio, Girolamo, Agostino, Giovanni Crisostomo, Cassiodoro, Giovanni Damasceno, Benedetto Levita, Balsamone, Zenone di Verona, Tommaso d'Aquino, Bonaventura di Bagnoreggio e numerosissimi altri), conosciuto direttamente per la lettura larghissima degli scrittori ecclesiastici e frutto della preparazione delle edizioni delle Summae di s. Antonino di Firenze e di s. Raimondo di Pefiafort (la prima stampata a Verona nel 1740, la seconda sempre a Verona nel 1744), risultarono essere i De iure divino et naturali circa usurani libri sex, Bononiae 1747, cui si aggiunsero le Vindiciae iuris divini ac naturalis circa usuram quae veluti liber septimus haberi possunt adversus opus novissime editum De usuris licitis et illicitis Nicolai Broedersen (l'opera del Broedersen era apparsa nel 1743: ma a quella data il De iure divino era già elaborato, come ci avverte lo stesso B. nella prefazione della sua opera). Concludeva, infine, la Summa balleriniana un'appendice di tre opuscoli "in materie [sic] usurarum" : sui monti di pietà e sui contratti commerciali, con particolare attenzione al cosiddetto triplice contratto, come si vedrà.

Ovviamente impossibile seguire analiticamente il B. nei sei libri del De iure; basterà indicare gli argomenti affrontati nel trattato: liber primus, de mutuo unde usura nascitur: liber secundus, de usura quoad ius divinuni in genere; liber tertius, de usurae iniustitia divino jure declarata; liber quartus, de usura ture divino vetita, etiamsi a divitibus aut a negotiatoribus exacta; liber quintus, de iure naturali circa usuram; liber sextus, obiectiones contra naturale ius refelluntur. La trattazione era condotta in una prospettiva che, di fatto, finì col dare all'opera un respiro di gran lunga maggiore di quello della polemica dotta, ma troppo legata ad un'occasione precisa.

Il De iure - per esplicita dichiarazione del B. nella prefazione - a differenza delle Praelectiones,premesse all'edizione di s. Antonino, si doveva proporre lo scopo di respingere le argomentazioni dei calvinisti (e di tutti coloro che apertamente o in modo latente ne dipendevano) circa la liceità di certi interessi. Tali argomentazioni, ricorda il B., nelle recenti controversie sull'usura avevano trovato attenta considerazione anche da parte dei cattolici (l'allusione al Maffei ed ai principi esposti ne La dottrina della Chiesa... è trasparente): "Id autem ut facerem, citius quam cogitaram illud in causa fuit, quoá excitata nuperrime de usuris controversia cum aliquot hereticorum libri lecti essent a nonnullis catholicis, gravia visa sunt, quae illi attulerunt ut pro vulgari et scholastico praeiudicio traducerent quod pro catholico dogmate universim habetur et creditur (cfr. De iure divino..., cit. praefatio, par. 10). Ma anche a scorrere le pagine dell'opera balleriniana ci si accorge che l'esposizione abbraccia tutta la dottrina relativa alla questione, soprattutto in riferimento agli scrittori che avevano riaffrontato il problema della liceità delle usure dopo il concilio di Vienne (1311): Calvino, Molina, Saumaise, il p. E. Maignanus di Colonia, il p. Le Coreur, esponenti del clero gallicano e giansenisti, molti dei quali, conosciuti attraverso la lettura di trattati anonimi' tutti scrupolosamente elencati dal B. nelle pagine della prefazione, vengono passati in rapida rassegna, per non lasciare nell'equivoco i futuri lettori di opere "sospette". Il nucleo dell'argomentazione balleriniana consiste, sostanzialmente anche per il De iure,nella riduzione all'assurdo delle posizioni avversarie (che si compendiano nella distinzione, già refutata nel Maffei, tra usura smodata e moderata, tra interesse esatto ai ricchi e ai poveri, tra ambito di colpa contro la giustizia e contro la carità) mediante un esame minuzioso dei passi scritturali, patristici, canonistici e teologici invocati dalle parti in causa.

Nell'assenza di un'opera dedicata al B. (il Le Bras, art. Usure, in Dict. de Théol. cath., XV, 2, coll. 2377 s., in un rapidissimo cenno della Vix pervenit, parla del Maffei, ma non ritiene di dover fare la più piccola menzione del B. !) è difficile stabilire sino a qual punto la posizione balleriniana avesse motivi di originalità - per altro poco probabili, nell'ambito di un argomento così ampiamente discusso -, ma rimane certo che il De iure costituisce lo sforzo più completo di organizzare sistematicamente una materia vastissima che fosse stato compiuto in Italia sino ad allora.

In questa sistemazione si avverte particolarmente la rigida posizione del B. nei riguardi degli atteggiamenti lassisti contemporanei o di poco antecedenti. Netta l'opposizione all'interpretazione degli argomenti invocati dalla Sacra Congregazione di Propaganda Fide circa la tolleranza degli usi, in materia di prestito, praticati dai Cinesi cristiani. La Congregazione era stata richiesta di un parere dai missionari gesuiti in Cina a proposito della legittimità dell'interesse del 30% richiesto anche dai cattolici cinesi in vista della possibilità di una fuga del debitore o di una notevole dilazione nella restituzione o della necessità di un appello all'autorità giudiziaria. La risposta della Congregazione di Propaganda, nel ribadire che il prestito in quanto tale non poteva implicare il riconoscimento di un interesse, ammetteva tuttavia che, in vista di un pericolo imminente e probabile "come nei casi proposti", era da tollerare una forma di interesse proporzionato al rischio effettivo. La risposta, che aveva avuto l'autorevole approvazione del pontefice Innocenzo X, parve autorizzare un titolo di credito per il rischio.

Il B. obietta a questa interpretazione che il rischio in quanto tale non ha mai ricevuto nessun riconoscimento ad una remunerazione, al di fuori dei casi di effettivo danno subito in rapporto al prestito: "Quod enim debitor tardet in solvendo morae damna idest lucrum cessans apud Sinenses, uti fertur, commune atque certissimum; quod autem necessarium sit coram iudice repetere difficilis exactionis expensas significat, inter quas illa apud Sinenses peculiaris, quod iudices illi plerunque iniqui caussam non facile expediunt nec adiudicant nisi iis qui maiorem pecuniae sibi persolvunt: quod damnum iudicio repeti nequit ut ex litteris p. Eugenii Pilloti episcopi in partibus Chian Chen hac super re scriptis die 8 Iunii an. 1739 accepi... Notandum porro in quaestione nullam fieri mentionern periculi probabilis nec definiri quod probabile sit". Il B., nel distinguere l'interpretazione lassista del decreto della Congregazione dai casi contemplati sin dal Medioevo di lucrum cessans e di damnum emergens, trovava modo di riaffermare la sua ostilità alle conseguenze in campo etico-economico del probabilismo (cfr. per il passo citato,e per la discussione sul pericolo probabile De iure..., pp. 281-283, 1, VI, c. 3,par. 28-30).

Poiché il rischio possibile non basta a giustificare un interesse preventivamente calcolato, il periculum facti non è un titolo aggiuntivo di credito: nemmeno un ladro è tenuto a restituire più di quanto ha rubato. Del resto, il periculum facti è invocato soltanto perché chi presta lo fa con lo scopo di ottenere un profitto: il che assimila il prestatore all'usuraio.

Strettamente connesso con la valutazione del rischio nelle transazioni commerciali appare anche l'atteggiamento del B. a proposito del cosiddetto triplice contratto, oggetto di controversie da parecchi anni. Le radici della discussione erano remote e connesse con le polemiche medievali relative alla liceità del patto di societas: patto mai compiutamente definito, in termini di liceità etica, per le implicanze che comportava circa la divisione dei rischi, la compartecipazione agli utili e, massime,il desiderio, da parte del fornitore dei capitali, di vedere coperto ogni rischio, almeno sul "principale", in qualsiasi circostanza. Alla fine del Quattrocento, come nota il Noonan (pp. 1515): "... All the great problems posed by the acceptance of the societas for the usury theory liave remained unanswered' largely unconsidered...". Il che è soprattutto vero per quanto concerneva l'identificazione o meno della partecipazione con il prestito. Ove infatti la partecipazione fosse stata identificata al prestito, nessuna forma di compenso, oltre alla restituzione della somma resa disponibile, poteva essere presa in considerazione: pena il cadere nella consueta casistica antiusuraria. Ma se la partecipazione non veniva senz'altro assimilata al prestito, v'era una diversa possibilità di interpretazione a seconda che si ponesse l'attenzione al fatto della proprietà del capitale o al rischio implicito nella partecipazione stessa. Con l'andare del tempo, nella trattastica etico-economica - e già nella Summa Angelica de casibus conscientiae di Angelo da Clavasio - cominciò ad affacciarsi l'idea dell'applicabilità di forme assicurative nei contratti di societas: e si avviò in tal modo la discussione sul "triplice contratto", oggetto di discussioni complesse a partire dal sec. XVI. In una societas, chi forniva il capitale, poteva, contemporaneamente alla entrata in compartecipazione, assicurare il proprio denaro ad un tasso determinato e rìnunziare, previamente, con il suo socio, ad una parte dell'eventuale beneficio, ricavabile dalla societas. In terzo luogo, egli riduceva il tasso del suo probabile guadagno ad una quota modesta, ma fissa. Cosi, ad esempio: chi partecipava alla societas con 100 libre, assicurava con lo stesso socio il suo capitale al 4 % accontehtandosi di ridurre nella stessa misura la sua eventuale parte di guadagno; poi predeterminava quest'ultima in una cifra verosimilmente inferiore al guadagno previsto, ma comunque certamente da lui esigibile, quale che fosse stato l'esito della societas stessa. Ogni elemento di rischio veniva così a cadere da parte del capitalista che trovava un investimento sicuro del suo denaro ad un tasso d'interesse fisso. Era un caso classico di usura palliata.

Ciononostante, le scuole di Tubinga e di Ingolstadt e due dei loro rappresentanti più qualificati, Gabriele Biel e Giovanni Eck (quest'ultimo nel Tractatus de contractu de quinque de centum,s critto probabilmente nel 1515), difesero il triplice contratto; il cardinal Caetano stesso, pur definendo il contratto come "leonino", finì con l'ammettere che, ove esso fosse consuetudinario, poteva essere tollerato per la ragione che è preferibile l'usura manifesta a quella palliata. In posizioni opposte la questione trovò i due famosi teologi e canonisti spagnoli, il domenicano Domenico Soto, nettamente sfavorevole all'operazione, e l'Azplicueta, il "Navarro", professore a Salamanca, come il suo avversario, ma successivamente all'università di Coimbra. Nel 1586, l'anno stesso in cui moriva il Navarro, Sisto V interveniva a sanzionare, con il peso dell'autorità papale, la condanna già emessa dal Soto, suo consigliere: era la bolla Detestabilis avaritia. Pure la reazione degli ambienti gesuitici spagnoli (Molina), delle Fiandre (Lessio) ed ibero-romani (de Lugo) fu ancora favorevole, sia pure come a male necessario, al triplice contratto. Il Lessio poteva addirittura giustificare come lecito il contratto, per la considerazione che, di un guadagno probabile del 10%-12% in una transazione commerciale, il capitalista, dedotto il tasso di assicurazione del 4-6 % sì accontentava di un guadagno modesto. Dove è interessante la constatazione che non tanto le argomentazioni teoretiche - che rimasero a un dipresso nelle linee dottrinali fissate dalla speculazione dei sec. XV e XVI (e per un'esposizione sistematica si rimanda al Noonan, pp. 202-229) - quanto l'osservazione acuta e un po'spregiudicata della realtà economica di paesi in cui l'essor mercantile era stato particolarmente vivace in quei secoli aveva permesso, se non sempre persuasivamente sul piano teorico, il superamento di fatto delle restrizioni imposte all'epoca classica della Scolastica medievale. A questo punto si verificò l'impennata rigorista del B. e si deve notare che egli vide con chiarezza il punto in cui il triplice contratto si configurava manifestamente come un patto usurario.

Prescindendo infatti dalla valutazione del profitto, il B. rileva che la difficoltà maggiore del triplice contratto risiede nella pseudoassicurazione: essa in realtà è un prezzo per il prestito, perché di fatto il capitalista non appare disposto ad entrare in società con il mercante se non a patto di avere il capitale assicurato. Ora la sicurezza d'avere il capitale garantito contro ogni evenienza snatura la societas, facendone un prestito: pretendere di avere, oltre l'assicurazione dei capitale, anche una parte del profitto è come pretendere di avere un compenso per un prestito: il che è usura. Si aggiunga che nel calcolare il prezzo dell'assicurazione, teoricamente versato dal capitalista (che però lo riscatta dal socio), quel prezzo è fissato in una aliquota relativamente bassa, onde lasciare un margine di utile netto più consistente, margine sul quale lo stesso capitalista avanza precise richieste. Così ad esempio se in una societas il guadagno prevedibile può aggirarsi sul 10%, il tasso di assicurazione sul 4%, il margine netto risulta del 6%. "Accontentandosi" del solo 4% di profitto - meno cioè dì quanto soleva accadere nei normali patti di societas,senza assicurazione dei capitale - il capitalista riduce di fatto il profitto del mercante al 2%: e così la norma tradizionale che voleva divisi i profitti nella misura del 50% al capitale e 50% al lavoro viene infranta.

Per procurarsi il capitale necessario - ove si obiettasse che i capitalisti ad altre condizioni non sarebbero disposti a fornire il liquido necessario all'operazione commerciale - i mercanti potrebbero vendere a pronti e immediatamente ricomprare a credito la merce: in questo caso essi si potrebbero rivolgere a possessori di capitali aventi diritto a un titolo di lucrum cessans, giustificandosi così la dìfferenza tra il prezzo a pronti ed il prezzo con pagamento dilazionato. Il B. ripeteva l'atteggiamento del Soto e, in genere, dei moralisti medievali, respingendo ogni idea di compenso per il mero uso del denaro.

Ma l'occasione di un viaggio "diplomatico" a Roma, nel 1748, avrebbe permesso al B. e a suo fratello di compiere il lavoro per cui maggiormente essi rimasero celebri: l'edizione delle opere di s. Leone Magno, L'occasione si presentò in seguito al desiderio di papa Benedetto XIV di risolvere l'annosa controversia per il patriarcato di Aquileia, che da tempo costituiva un motivo d'attrito tra la Repubblica e l'Austria, con conseguenti diffìcoltà per Roma, che non poteva risolversi a favorire una decisione che fosse nettamente positiva per una delle parti in causa. Così quando, pacificatasi l'Europa ad Aquisgrana, Benedetto XIV, tra un patriarca d'Aquileia, che risiedeva però ad Udine e di nomina veneziana, un arcidiacono di fiducia imperiale, che provvedeva, dai tempi di Ferdinando II (1628) al disbrigo dei correnti affari ecclesiastici, ed il nunzio a Vienna che esercitava le funzioni arcivescovili, sembrò accettare, almeno parziálmente, una proposta di Maria Teresa, di istituire una diocesi separata per i territori già del patriarcato, ma soggetti all'Austria, con la nomina, quale vescovo in partibus, di un vicario apostolico, il B. già da un anno si trovava a Roma al seguito dell'ambasciatore veneto Foscarini in qualità di corisultore canonistico.

Difficile dire se nell'offerta che venne fatta al B. di preparare una nuova edizione delle Opere di Leone Magno, da sostituire a quella del Quesnel, sia da ravvisarsi in Benedetto XIV una mossa per attirare verso un atteggiamento meno intransigente il B., certamente non insensibile verso una impresa monumentale, in cui sembrava fossero venute meno le forze dei padri Bandiera e Cacciari, già incaricati di sostituire il Leone Magno quesnelliano, al tempo di Clemente XII.

Da una lettera, citata in gran parte dal Facchinì (p. 48, n. 9), si apprende che il B. respinse da sé la possibile accusa di aver atteso all'opera in concorrenza col padre Cacciari: "... non vorrei che si credesse aver, io voluta fare tal'edizione supponendo che si facesse dal p. Cacciari; mentre mi fu ordinata sull'asserzione che questo Padre non la farebbe, come in presenza del Papa protestò a me medesimo il p. Bandiera, il quale sotto il pontificato passato era stato incaricato di fare tal'edizione assieme col detto p. Cacciari...". E ciò può essere creduto; ma nulla toglie al fatto che il B. intraprese il lavoro con entusiasmo: l'entusiasmo dell'erudito, appunto, che gli faceva scrivere nella citata lettera: "... Io sono ricorso alfìne, e per le novità scoperte, e nuovi documenti rìtrovati da pubblicare... Di conseguenza non perdo per tutto questo il coraggio" (il I vol. dell'edizione del Cacciari era uscito, nonostante le precedenti rinunzie, nel 1753).

Il B. esitò poco ad accettare l'incarico: e se dobbiamo credere a quanto è scritto nella prefazione all'Opera omnia di Leone Magno ("In hoc labore totum id temporis quo alter e nobis [cioè Pietro] Romae versatus est, idest annum integrum cum dimidio inter codices indesinenter consumpsit") il soggiorno romano fu interamente speso per curare l'edizione leonina. All'impresa, per altro, Benedetto XIV diede un aiuto decisivo, consentendo al B. di esaminare in casa propria tutti i codici vaticanì contenenti le opere di Leone Magno; a questi codici si aggiunsero quelli delle altre biblioteche romane, della Capitolare di Verona, dove era rimasto a lavorare il fratello Girolamo, e di biblioteche italiane ed europee.

Il lavoro erudito dei Ballerini risultò alla fine degno di giustificata stima, anche se, come si è detto, nel 1753 uscì il primo volume dell'edizione Cacciari, della cui imminente stampa a Roma s'era doluto il B. con Benedetto XIV sin dal 1751: ed il papa aveva risposto di avergli commessa l'opera "non avendo noi concetto dell'Autore [cioè del Cacciari]", la cui indagine, per altro, oggetto di verifiche da parte della stessa autorità pontificia, si era rivelata "assolutamente buona". Ma nello stesso 1753 usciva il primo dei tre volumi dell'edizione balleriniana, arricchita, rispetto a quella del Cacciari, delle prefazioni, note e osservazioni già fatte dal Quesnel e a loro volta sottoposte a critica. Gli altri volumi seguirono tra il 1755 ed il 1757, stampati a Venezia. Già in data 17 ag. 1752 il B. poteva scrivere al papa che l'edizione del primo volume era pronta e che "il secondo tomo comprenderà le opere dal Quesnello attribuite a S. Leone e quelle da lui pur inserite di S. Ilario Arelatense, tutte riconosciute con buoni codici e illustrate..." (citata da T. Facchini, p. 49, in Arch. Segreto Vaticano, PrinCipi, 240, f. 74; ma v. anche ff. 68-81).

Specie nell'edizione dell'epistolario leonino l'opera dei Ballerini risultò di gran lunga superiore a quella del Quesnel e a quella del Cacciari: l'utilizzazione del codice di S. Emmerano (ora Clm., sec. IX, 14540), conosciuto in trascrizione per l'interessamento di padre Antonino Veichtner O. p. (cfr, specialmente C. Silva Tarouca, Nuovi studi sulle antiche lettere dei papi..., in Gregorianum, XII 1193 Il, pp. 3-56), la sistemazione delle lettere in una serie ordinata cronologicamente, la scrupolosità degli editori nel registrare un grandissimo numero di varianti fecero sì che sino ai giorni nostri il lavoro balleriniano conservasse una innegabile validità scientifica. All'errore "per difetto" del Quesnel - che aveva visto, rispetto ai Ballerini, un numero modesto di codici- fece riscontro un errore "per eccesso" degli eruditi veronesi, che si limitarono sostanzialmente a riprodurre, molto spesso, il testo "vulgato" (che era quello del Quesnel), con la segnalazione di tutte le varianti. Un criterio che certamente non fece dell'edizione balleriniana un'edizione critica, ma costituì una sorta di immensa raccolta di materiale, apprezzabile ed utile anche per i moderni editori (v. i giudizi del Silva Tarouca, art. cit., e in Beitráge zur Oberlieferungsgeschichte der Papstbriefe des IV., V. und VI. Jahrhunderts, in Zeitschrift für kath. Theologie,XLIII [1919, pp. 467-481, ma spec. 476-478, ed anche S. Leonis Magni Epistulae contra Eutychis Haeresim, in Pont. Universitas Gregoriana, Textus et Documenta, series theologica, XV, Romae 1934). Peraltro, proprio quella circostanza che al B. pareva la più felice per la buona riuscita della sua edizione - la possibilità, cioè, di avere a completa disposizione i codici contenenti le opere di Leone esistenti a Roma - doveva rappresentare il limite più grave all'edizione balleriniana. I codici romani- ma non scritti in ambiente romano, spesse volte - sono infatti tutti assai tardi (secc. XII-XV), apografi a loro volta di codici tardi: e la mancanza di criterio sicuro di edizione fece sì che lezioni ottime e pessime trovassero egualmente diritto di cittadinanza nella pubblicazione. Degna di particolare menzione è la prefazione al titolo III dell'edizione balleriniana che rappresenta un vero e proprio trattato di storia dei diritto canonico pregrazianco: Disquisitiones de antiquis collectionibus et collectoribus canonum, trattazione rimasta insuperata sino all'opera del Maassen, Geschichte der Quellen und der Literatur des canoni. schen Rechts im Abendlande bis zum Ausgang des Mittelalters, I (ed unico volume), Graz 1870. Le Disquisitiones comprendono tre parti, una dedicata alle antiche collezioni greche, un'altra alle antiche collezioni latine (sino alla Dionisiana), una terza alle collezioni posteriori e derivate dalla Dionisiana, con una attenta analisi delle Pseudo-isidoriane, indicate senz'altro come apocrife, ispirate - come del resto ha confermato la successiva ricerca storiografica - essenzialmente dal tentativo di tutela dei diritti vescovili. Il B. anticipava addirittura la tesi di molti studiosi cattolici secondo la quale, dal punto di vista della dottrina, gli apocrifi pseudo-isidoriani non aggiungevano gran che alle posizioni della Chiesa romana. Deduzione che al B. premeva particolarmente in un'opera che doveva ribattere le posizioni quesnelliane, di acceso gallicanesimo, spesso frutto di forzature o di fraintendimenti. L'opera balleriniana (accolta nell'edizione del Aügne, Patr. Lat., voll. LIVLVI) valse agli autori le più ampie lodi da parte del papa: "Il cardinale Tamburini ci disse che di grazia leggessimo quanto hanno scritto sopra le antiche Collezioni de, Canoni, anteriori a quella di Graziano. L'abbiamo letto e non abbiamo parole che bastino per lodare la grande intrapresa, così felicemente e con tanti fondamenti esposta e che renderà immortali gli autori appresso gli uomini che pregiano le materie ecclesiastiche, che ne gustano l'importanza e l'interesse della S. Sede" (lettera di Benedetto XIV in data 31 dic. 1757, tra i mss. balleriniani della Comunale di Verona, busta 28, citata da T. Facchini, p. 50, n. 16). E' pure indubbio che nell'indurre lo stesso Benedetto XIV a proclamare Leone Magno "Dottore della Chiesa" (costituzione Militantis Ecclesiae del 13 ott. 1754) debba aver contribuito la pubblicazione - sia pur parziale, allora - dell'Opera omnia leoniana per le fatiche dei Ballerini.

Delle impressioni romane del B. è testimonianza il carteggio - purtroppo inedito - con il fratello Girolamo, come le relazioni di amicizia, verosimilmente testimoniate dalle lettere che si trovano alla Comunale di Verona, con il Ruggieri, il Garampi, il Mamachi, l'Orsi, il Bianchini.Nel 1756 il B. venne incaricato dal Senato veneto di difendere il buon diritto della Repubblica nei riguardi dell'Austria a proposito dei confini del lago di Garda e pubblicò la Risposta alla deduzione austriaca sopra i confini del lago di Garda; nel 1763 preparava una Institutio ordinandorum ad uso dei futuri sacerdoti, dando alla luce, nel 1765 a Verona l'ultima grande opera di edizione: Ratherii episcopi Veronensis Opera.

Se per mole fu diversa e inferiore, l'edizione dell'Opera omnia di Raterio da Verona non fu da meno del Leone Magno per impegno filologico: ed i risultati ancor più validi' a segno che - eccezion fatta per le lettere (cfr. adesso, Die Briefe des Bischofs Rathers von Verona, a cura di F. Weigle, in Mon. Germ. Hist. Die Briefe der deutschen Kaìserzeit, Weimar 1949) - essa, passata nel Migne Tatr. Lat.,vol. CXXXVI), è tuttora considerata pregevole, specie per l'apparato critico di cui i fratelli Ballerini la dotarono. Oltre ai prolegomeni di carattere generale, prernessi alle opere di Raterio, e comprendenti una ottima biografia, una discussione sulle opere, la loro autenticità e il loro contenuto, nonché una notizia delle precedenti edizioni (tutte parziali), i Ballerini premisero alle singole opere rateriane dei cappelli informativi e nelle note si preoccuparono di illuminare il senso, spesso oscuro, del periodare del grande vescovo veronese, facendone la costruzione grammaticale (cfr. per una valutazione complessiva dell'edizione balieriniana il citato saggio del Weigle, oltre a quanto detto da E. Amann, in Dict. d'Hist. et de Géogr. Ecclés., XIII, 2, coll. 1679-1688). Anche per questa edizione non si analizzeranno diffusamente i criteri dei Ballerini: basterà qualche cenno sulle lettere e su di un opuscolo già attribuito a Raterio, poi a Ratramno (ma dai Ballerini restituito a Pascasio Radberto) testimoniato in un codice di Lobbes, oggi perduto (e vedine indicazioni anche nella edizione mabilloniana del Liber pascasiano, confluita in Migne, Patr. Lat., CXX).

A scorrere l'elenco dei mss. che il Weigle (pp. 2-8) indica e che sono serviti alla sua edizione delle lettere ci si accorge che i Ballerini avevano tenuti presenti ben cinque dei codici più importanti contenenti lettere rateriane (per altro difficilmente reperibili in serie numerose, nei codici): il che permise loro di pubblicare ben 22 su 33 lettere che costituiscono oggi il corpus epistolare del vescovo veronese: e possiamo anche aggiungere che si tratta per lo più di quelle importanti. La stessa lettera a Patrico (ed. Ballerini, pars II, coll. 521-524; ed. Weigle, pp. 66-69), che il Geiselmann ha negato a Raterio (cfr. Kritische Beitráge zur frühmittelalterlichen Eucharistielehre, in Theologische Quartalschrift, CVI [19251, pp. 52-66; Id., Die Eucharistièlehre der Vorscholastik' Paderborn 1926, pp. 259-262), pare debba attribuirsi effettivamente a Raterio (cfr. F. Weigle, Die Briefe Rathers von Verona,in Deutsches Archiv, I [19371, p. 174 ss.): il problema, semmai, può restare aperto perché detta lettera apparteneva al codice laubiense summenzionato ed oggi perduto (cfr. Weigle, Die Briefe..., p. 175).

Ad un'opera che ribattesse le tesi gallicane il B. aveva pensato sin dal 1743, come appare testimoniato da una lettera (riferita dal Facchini, p. 53) indirizzata a Benedetto XIV: "Io intanto lavoro dietro ad una voluminosa opera che procurerà di mettere in chiaro la vera natura del primato pontificio giurisdizionale, il qual si concede bensì da ogni cattolico, ma dai Francesì poi si riduce praticamente a poco o a nulla quando debbano sussistere i loro celebri articoli [le dichiarazioni dei 1682]. Da più e più anni ho sempre avuto in mira e preparati materiali per un tal lavoro, e da trattarsi in un modo diverso dall'usato, il quale se da Dio sarà benedetto, come ne lo prego, sarà forse di profitto". Ma arrivò l'esortazione a tralasciare il lavoro sul primato e ad attendere piuttosto alla trattazione della questione sull'usura, "... essendo una materia circa l'usura assai nuova in Italia; almeno in Teorica se non è in prattica...", come scriveva al B. il p. Luigi M. Lucini, poi cardinale prete del titolo di S. Sisto (cfr. Facchini, p. 54).

Quando finalmente il B. poté attendere al suo disegno, la materia aveva ancora un interesse attuale, poiché soltanto nel 1763 era apparsa l'opera dello Hontheim, Iustini Febronii... de statu ecclesiae deque legitima potestate romani pontificis liber singularis. L'indole sistematica del B. si manifestò anche in questa occasione, poiché egli non si limitò a rispondere al Febronio, ma volle riprendere il suo disegno originale di confutazione del gallicanesimo, sui cui principi si fondava buona parte dello stesso febronianismo. Ciò spiega sia l'assenza di un prevalente riferimento all'Hontheim nel De vi ac ratione primatus - prima delle opere dedicate dal B. nell'ultimo periodo della sua vita all'argomento - sia perché egli articolasse la sua trattazione, prima affrontando i problemi relativi al primato, poi quelli circa l'infallibilità pontificia ed i rapporti tra papa e concilio, oggetto specifico del De potestate ecclesiastica; contro il Febronio era specificamente diretto il saggio Vindiciae primatus et auctoritatis pontificiae; mentre un altro lavoro riprendeva le argomentazioni già svolte nel De vi ac ratione a proposito della infallibilità pontificia. Il De vi ac ratione primatus romanorum pontificum apparve nel 1766; il De potestate ecclesiastica summorum pontificum nel 1768: ma fu sequestrato per ordine delle autorità veneziane.

Il provvedimento, che colpì dolorosamente il B. - ed in tal senso ne scriveva monsignor Onorati nunzio apostolico al segretario di Stato (cfr. Facchini, p. 40) -, aggravò le sue condizioni. Morì il 28 marzo 1769 e venne sepolto nella chiesa parrocchiale di S. Donato alla Colomba. Soppressa la parrocchia da Napoleone, nel 1805, e distrutta la chiesa, della sepoltura del B. non si seppe più nulla.

Il trattato De vi ac ratione primatus romanorum poirtificum, Veronae 1766, si compone di una Praefatio di quindici capitoli (suddivisi in paragrafi) e di un'Appendix', al primo paragrafo del cap. XI, sul significato dell'esistenza di santi, nel periodo dello scisma acaciano, in rapporto all'affermazione della unità di fede dei cristiani nel pontefice romano. Ad ogni capitolo, sino al XIII incluso, corrispondono delle proposizioni: seguono un capitolo XIV "Adversariorum catholicorum testimonia, quibus utriusque unitatis cum Romana sede necessitatem professi sunt" ed un XV "Corollariuni" dei precedenti e particolarmente importante perché affronta il problema dell'infallibilità pontificia, prendendo in esame anche i casi di quei papi che la tradizione "anticattolica" - ma in realtà si trattava di una interpretazione storiografica viva, molte volte' nel seno stesso della cultura e della tradizione cattolica - vedeva come imputabili di eresia.

Di là da questi dati esterni, è possibile riconoscere, nel trattato, una divisione implicita in due parti: una propriamente dogmatica, attenta a definire i termini esatti del "primato" - non solo di ordine, ma anche e soprattutto di giurisdizione e cosiffatto sin dal momento della trasmissione dei poteri petrini ai successori del principe degli Apostoli (capp. I-II-III) -' il carattere divino dell'istituzione stessa del primato, il suo valore in relazione al problema dell'unità della fede dei Cristiani - unità di fede, più importante dell'"unitas caritatis", "qua omnia Ecclesiae membra inter se se... debent copulari" (propositio, X, p. 45) -, e una seconda, storicoesegetica, che è propriamente un'escussione di testimonianze scritturali, patristiche, canonistiche e teologiche in favore delle premesse dogmatiche, precedentemente esposte. In questa seconda parte il B. ha modo di riversare e dispiegare la sua erudizione e di denunziarne, per altro, i limiti sia quantitativi - la produzione degli scrittori ecclesiastici dei secc. XI, XII e XIII èricordata appena in qualche singolo caso - sia, quanto più conta, culturali. Se Matteo, XVI, xviii: "Tu es Petrus...", ha ovviamente una trattazione ampia e trova conferma in Luca, XXII, XXXII, e in Giovanni, XXI, XV; se gli apologeti, da Ireneo a Cipriano, da Tertulliano a Gregorio Nazianzeno, i padri, da Ambrogio a Damaso, da Girolamo ad Agostino (citatissimo, per l'immediatezza di riferimento che l'assidua lettura giovanile, mai intermessa, suggeriva) hanno larga menzione; se Leone Magno ha un paragrafo a sé - chi più dell'editore del grande papa poteva sfruttare per la sua tesi l'assertore più tenace del primato romano alla fine dell'età antica? -' in sole sei pagine trovano posto i "testimonia" di Gregorio Magno e di Gregorio II, di Beda, di Adriano I, di Alcuino, di Niccolò I e di Incmaro di Reims. Singolarmente, il nome di un Gregorio VII non appare mai citato.

Ricca la documentazione tratta dagli "adversarii" tra i quali il B. elenca Gerson, il Cusano e, prima di essi, nel tempo, Giovanni d :Parigi; particolare menzione è fatta delle Dichiarazioni del clero gallicano, della Defensio declarationis conventus cleri gallicani del Bossuet e di Pietro de Marca. Si tratta di testimonianze invocate a mostrare l'incongruenza della posizione gallicana che, non respingendo il concetto di primato giurisdizionale del vescovo di Roma, lo condizionava all'assenso dell'episcopato: ma la raccolta stessa delle testimonianze avverse è prova, come è stato fatto osservare, oltre che di costume scientifico e di probità morale, di una vivacità di interessi che non portava a escludere quel tanto o poco di verità (s'intende dal punto di vista dell'autore) che potesse essere contenuto nelle posìzioni della parte avversa (cfr. Y. M. Congar, Conclusion, in Le Concile et les Conciles, Gembloux 1960, p. 303). L'ecclesiologia gallicana era stata un tentativo di fare un'ecclesiologia della Chiesa come comunione: e se in seno ad essa l'idea del primato - quale si era andata configurando nel corso dei secoli - non poteva essere accolta, lo sforzo del B. - "Iouable effort pour insérer la doctrine de la primauté papale dans une ecclésiologie de communion" (cfr. Y. M. Congar, De la communion des Eglises à une ecclésiologie de l'Eglise universelle, in L'épiscopat et l'Eglise universelle, Paris 1962, p. 259) - era destinato a fallire, o al più a riportare la discussione nei termini inconciliabili di primato sulla Chiesa e primato nella Chiesa, ove si pensi almeno all'interpretazione che di primato e di infallibilità pontifici doveva essere data alle conclusioni del Concilio vaticano I. Che per effetto delle dottrine del B. possa essere stato introdotto nello Schema de Ecclesi. a dello stesso concilio il principio della "communio" (cfr. Congar, Conclusion..., p. 305, n. 34; Id., Sainte Eglise, Paris 1963, p. 40) potrà anche essere: ma certamente non con intenzionafità innovatrici, dacché rimane accertato che nei rispetti del Vaticano I il pensiero del B. - insieme con quello dell'Orsi e del Bianchi - doveva fornire la base più larga agli atteggiamenti ultramontani (in senso "francese"): cfr. Y. M. Congar, L'Ecclésiologie de la Révolution franCaise au Concile du Vatican, sous le signe de l'affirmation de l'autorité, in L'Ecclésiologie au XIX, siècle, Paris 1960, pp. 915. Con una larghezza di erudizione che non pare si possa rintracciare nella successiva storiografia ecclesiastica cattolica italiana, il B., al fondo, si mostrava un conservatore rigido.

Sostanzialmente con la riaffermazione più completa della superiorità del papa sul concilio il B. concludeva nel De potestate ecclesiastica: la stessa teoria conciliare veniva collocata nel tempo come sorta soltanto nel periodo dello Scisma d'Occidente, non sorretta dalla validità di alcun concilio ecumenico (ché tale il B. non riteneva potesse considerarsi il concilio di Pisa del 1409 né quello di Costanza del 1408-18) e non rispondente ai bisogni della Chiesa in caso di riforma morale. Soltanto in caso di "eresia esterna" del pontefice il concilio risulterebbe superiore; ma non più superiore al papa, perché questi non sarebbe più tale. A differenza del Torquemada e del Gaetano (cfr. Facchinì, p. 128), l'opera dei concilio non è vista dal B. come necessaria nemmeno nel caso di eresia esterna del pontefice, poiché la dichiarazione di eresia - che si dovrebbe fare - può essere fatta da chiunque e non implica giurisdizione. Di fatto, una impostazione simile dei problemi derivanti dal caso di eresia del papa porterebbe alla paralisi della Chiesa: ma al B. premeva non ammettere in alcun modo una forma di giurisdizione suprema del Concilio.

Contro le argomentazioni del De vi ac ratione si levò in polemica un personaggio ecclesiastico rimasto anonimo, autore di Osservazioni sopra il libro del Signor Abate Ballerini di Verona: De vi et ratione..., rinvenuto, come ci informa il Facchini, tra le carte manoscritte balleriniane della Comunale di Verona, busta 19 (cfr. Facchini, pp. 15 e 131). Per la verità il Facchini sostiene di essere riuscito a individuare l'autore delle Osservazioni,ma di non volerne svelare il nome "per quel senso di delicatezza dovuto anche Isic] ai morti e per non gettare inutilmente qualche ombra su di un nome insigne..." (p. 132): e così per gli antistorici pudori del Facchini un pezzo importante del complesso mosaico costituito dalla produzione balleriniana viene a perdere tutto il suo rilievo, a testimoniare, se pur ce n'era bisogno, la necessità di un completo e intelligente riesame di tutta la figura del Ballerini. Il Facchini ha tuttavia il merito di aver esposto le linee delle Osservazioni anonime, ispirate a una vivace polemica contro il sistema probabiliorìstico balleriniano. A distanza di anni veniva così riproposto il tema centrale di un'opera balleriniana che costituì il contributo personale dell'erudito sacerdote veronese alla seconda polemica sul probabilismo e probabiliorismo svoltasi a Verona tra il 1743 ed il 1745, in seguito alla pubblicazione de Della storia del probabilismo e del rigorismo dissertazioni teologiche, morali, critiche (Lucca 1743) del domenicano padre Daniele Concina, incline a tesi rigoriste. Il B., preso allora dalla disputa sull'usura, non intervenne, ma nel 1756 pubblicò anonima una Moraliuni actionum Regula in opinabilibus seu quaestio de opinione probabili, Venetiis 1756 (cfr. Melzi, II, p. 211), con 2 appendici, contenenti una confutaZione del "novum systema probabifisticum" e degli errori dei "pithanophili" (da 7reL', 5co e q,' ?,og = letteralmente amico del persuadere, probabilista), diretta anche contro il saggio anonimo Probabilismus methodo mathematica demonstratus auctore patre pithanophilo, Lugduni 1747. L'intervento balleriniano non rappresentò un elemento di novità nella disputa - come riconobbe lo stesso autore - ma costituì un'utile rassegna critica delle varie dottrine dibattute in quegli anni sulla questione divenuta "de personis potius quam de re ipsa contentio" (Moralium...,p. 5). Ora l'Anonimo rimetteva in causa la tesi balleriniana della validità del sistema al di sopra di fatti e autorità in contrasto con singoli punti del sistema stesso: una tesi che il B. aveva difeso sin dai tempi dell'opuscoletto su s. Agostino. L'Anonimo, pur ammettendo il primato, contestava l'infallibilità intesa in senso assoluto, esistente "né intensive extensive in un punto indivisibile" (cit. da Facchini, p. 141), e frutto piuttosto del consenso del corpo della Chiesa, con una netta rivalutazione della figura del vescovo. Tesi come si vede impregnate di gallicanesimo e che però l'Anonimo condivideva insieme con altra persona, da lui menzionata quale "buon padrone e amico" (Facchini, p. 145, n. 23) e della quale vengono riferiti numerosi pareri intorno alla questione. Il B. preparò una risposta, rimasta manoscritta sino al 1829, l'Apologia dell'infallibilità pontificia, in cui riprendeva le tesi del De vi ac rati. one, respingendo la validità dell'infallibilità per gradi sostenuta dall'Anonimo, come correttivo dell'infallibilità personale difesa dal B. e consistente nell'ammettere un certo grado di infallibilità, oltre che nel papa, nei vescovi e nei concili.

Ricchissimo ed in gran parte da esplorare il materiale manoscritto del B. giacente presso la Biblioteca comunale di Verona: il contenuto di esso è elencato in una Appendice alla notizia biografica del Federici (p. 119), comprendente ben 39 numeri, tra i quali, oltre ai manoscritti di opere che videro poi la luce, è da segnalare una revisione critica della Verona illustrata del Maffei, postillata e corretta dal B., forse espressione di un non mai intermesso risentimento verso l'erudito marchese, autore di un'opera alla quale il B. poteva, per gli studi fatti, sentirsi egualmente, se non di più, preparato. Oltre infatti agli studi su s. Zenone, il B. aveva avuto modo di occuparsi di storia veronese in occasione delle discussioni tra il capitolo ed il vescovo, che egli difese in più circostanze come nel De privilegiis et exemptione capituli cathedralis Veronensis dissertatio cum animadversionibus in libellum novissime editum et italice inscriptum - Notizie spettanti al capitolo di Verona, Venetiis 1754, nella Lettera ad un amico sopra il privilegio di Ratoldo vescovo di Verona a favore dei canonici della medesima città, Verona 1754, e nella Conferma della falsità di tre documenti pubblicati nell'Ughelli a favore del capitolo di Verona, Verona 1754. E un capitolo di storia veronese era stata, negli anni giovanili, l'edizione delle opere dei vescovo G. Matteo Giberti: I. Matthaeus Giberti Opera Omnia,Veronae 1733, fatta, anch'essa, in collaborazione con il fratello Girolamo. Dopo la prima edizione, i Ballerini trovarono altro materiale relativo al Giberti, che non poté tuttavia essere utilizzato per una seconda edizione dell'Opera Omnia gibertiana, che non fu mai approntata: quel materiale, raccolto da A. Fontana, si trova nella biblioteca del seminario di Verona (cfr. A. Grazioli, G. M. Giberti, Verona 1955, p. 13, n. 3).

Da quanto si è tentato di indicare, con le incompletezze e gli squilibri che la situazione oggettiva degli studi e del materiale documentario sui Ballerini e su Pietro in particolar modo rendono pressocché inevitabili, riacquista attualità l'esigenza avvertita da A. Momigliano (Secondo contributo alla storia degli studi classici, Roma 1960, p. 258) di trovare una definizione per i due eruditi: storia ecclesiastica o edizione dei testi costituiscono un prevalente centro di interesse per i Ballerini? Al Momigliano è parso di vedere detto interesse nel secondo aspetto dell'attività: la quale però, considerata nella sua multiforme complessità, rimane testimonianza di un impegno di studio dal respiro più ampio di quello che solitamente muove la curiosità veramente antiquaria di tanti eruditi sei-settecenteschi.

All'ombra del maggior fratello e tutta intimamente connessa con la sua opera,si svolge la vita di Gerolamo Ballerini, nato a Verona il 29 genn. 1702, collaboratore nell'edizione del Noris, di s. Zenone, di Leone Magno, di Raterio di Verona, dell'Opera omnia del Giberti. Gerolamo, in particolare, diede un contributo importante alla pubblicazione del Museum musellianum, relativo alla raccolta di medaglie del museo Muselli di Verona. Ma la vera personalità di questo erudito - i cui meriti dovrebbero essere stati non troppo inferiori a quelli di Pietro, anche se non avvivati dalla passione per la filologia e per la storia ecclesiastica che si ritrovava nel maggior Ballerini - potrà soltanto essere messa in luce dall'esame delle carte Ballerini giacenti alla Comunale di Verona: constatazione, del resto, valida anche per Pietro. Gerolamo morì il 28 apr. 1781.

Fonti e Bibl.: Del B. e di suo fratello Girolamo poco sembra essersi interessata la moderna storiografia, che pur tanto spazio ha dedicato al Muratori, al Maffei, al Bacchini, al Bandini e a tanti altri eruditi italiani del '700: cfr. infatti le voci dedicate al B. nell'Encicl. Italiana, V, 987, nell'Encicl. Cattolica, II, col. 751, nel Dict. d'Hist. et de Géogr. Ecclés., VI, coll. 399-401. Più indicativa dell'importanza dei personaggi la voce del Kirchenlexicon, I, coll. 1895-1898. Di gran lunga più ricche e complete sono le notizie contenute in G. Mazzuchelli, Gli Scrittori d'Italia, II, 1, Brescia 1758, pp. 179-185; L. Federici, Elogi istorici dei più illustri ecclesiastici veronesi, III, Verona 1819, Dp. 76 ss. Uniche monografie recenti sono quelle di T. Facchini, Il papato principio di unità e p. B. di Verona, Padova 1950, e di Candido da Remanzacco, Vita e opere di p. B., in Studia Patavina, IX (1962), pp. 452-492: trattasi comunque di studi limitati ad una parte dell'attività del B., quella di difensore del primato romano (specie il B. autore del De vi ac ratione e del De potestate ecclesiastica), attività che viene presentata con utili notizie tratte anche dal materiale inedito conservato alla Comunale di Verona (29 buste di mss. balleriniani si trovano presso quella Biblioteca), in parte anche usato da L. Simeoni, La polemica per l'impiego del denaro, in Studi Maffeiani, Torino 1900, per quanto concerne la disputa con il Maffei: ma la prospettiva dei lavori del Facchini e di Candido da Remanzacco è piuttosto apologetica. Pur se anch'essa limitata ad un aspetto dell'attività dei B., l'opera complessiva di J. Noonan, The Scholastic analysis of usury, Cambridge (Mass.) 1957, pp. 225 s., 244-246, 266, 287-289, 307 s., è particolarmente importante.

Il problema del B. rimane così in gran parte intatto e tale rischia di restare, sino a quando non verrà sistematicamente esplorato tutto quel materiale che illuminerà - pensiamo al carteggio - appieno i motivi di gusto dell'erudizione e di dotta controversia a livello europeo, come di piccole rivalità accademiche locali, di ambienti ristretti, come infine di connessione tra attività erudita e implicazione della medesima in settori politicodiplomatici, che è dato di rintracciare nella vastissima produzione balleriniana.

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