Bembo, Pietro

Enciclopedia machiavelliana (2014)

Bembo, Pietro

Maurizio Tarantino

Nacque a Venezia nel 1470 e morì a Roma nel 1547. Un documento che provi la conoscenza reciproca tra B. e M. non è al momento noto: i due non sono mai nominati né in alcuna loro opera né all’interno dei rispettivi epistolari, e non c’è traccia di libri machiavelliani nella biblioteca di B. (Danzi 2005). Le vite dei due scrittori, più unite da opposizioni che da analogie, si incrociarono tuttavia spesso, in momenti per entrambi decisivi. Tanto poco si sa della giovinezza di M., quanto nota è invece quella del Bembo. Minore di appena un anno del fiorentino, B. nacque in una delle principali famiglie patrizie veneziane; il padre Bernardo fu più volte ambasciatore della Repubblica veneta e legato ai Medici da una fitta trama di rapporti personali. Il giovane B. seguì il padre nei suoi spostamenti politici (fu, tra l’altro, a Firenze, dal luglio 1478 al maggio 1480, troppo presto evidentemente per conoscere M.), ma la sua attenzione si rivolse, più che alla politica, agli studi, verso i quali aveva già cominciato a orientarsi grazie alla preziosa biblioteca della casa paterna, che ospitò nel 1491, tra gli altri, Poliziano, desideroso di collazionare un antico codice di Terenzio; sul suo esemplare Poliziano annotò: Petrus Bembus venetus patricius, Bernardi iurisconsulti et equitis filius, studiosus litterarum adulescens operam mihi suam in conferendo commodavit («Pietro Bembo, patrizio veneto, figlio del cavaliere e giureconsulto Bernardo, giovane studioso di lettere, mi aiutò per la collazione», Dionisotti 1966). Dal 1492 al 1494 B. risiedette per due anni a Messina, dove studiò greco con Costantino Lascaris; tornato a Venezia con un esemplare della grammatica greca dell’umanista bizantino, lo mise a disposizione di Aldo Manuzio, il quale da pochi mesi aveva aperto una tipografia nella contrada di Sant’Agostin. Meno di un anno dopo il sodalizio con il grande stampatore si consolidava con la pubblicazione della prima opera di B.: il De Aetna.

Giunto a Ferrara nel 1497 a seguito del padre per studiare filosofia con Niccolò Leoniceno, vi rimase più di due anni e lì

per la prima volta sperimentò l’ozio consentito da una corte principesca e cavalleresca: una società diversa da quella veneziana. Nella corte estense, e in quelle congiunte di Mantova e Urbino, diverso era in ispecie il rapporto fra la scuola umanistica e la letteratura volgare di moda (Dionisotti 1966).

La sperimentazione dell’ozio ‘cortigiano’ si legò quindi a quella di un uso ‘umanistico’ del volgare, anche per il tramite di feconde amicizie ferraresi: con Ercole Strozzi, futuro interlocutore delle Prose della volgar lingua, con Ludovico Ariosto e Antonio Tebaldeo, con Iacopo Sadoleto e Alberto Pio.

Due i risultati principali dell’avvicinamento al volgare: il concepimento e la stesura degli Asolani (editi la prima volta solo nel 1505, prima a Venezia da Aldo Manuzio, poi a Firenze presso i Giunti) e la cura delle celebri edizioni aldine del Canzoniere di Petrarca e della Commedia di Dante (uscite, rispettivamente, nel 1501 e nel 1502 con il titolo Le cose volgari di messer Francesco Petrarcha e Le terze rime di Dante). Intorno al dialogo e alle due curatele è possibile costruire un primo ‘incontro’ tra B. e Machiavelli.

Una conoscenza diretta degli Asolani da parte di M. non è da escludere: è stata per esempio notata una relazione oppositiva tra la concezione machiavelliana della humanitas e della feritas espressa nel Principe e nell’Asino, e la concezione di «ragione» e «senso» espressa da B. nel terzo libro degli Asolani (Sasso 1997, pp. 53-54); ed è pure possibile che nella dedica del Principe (scritta inizialmente, occorre ricordarlo, pensando a Giuliano de’ Medici, amicissimo di B. e futuro interlocutore nelle Prose della volgar lingua) la polemica machiavelliana contro i molti che «sogliono le loro cose descrivere e ornare» con «clausole ample» e «parole ampullose e magnifiche», fosse diretta proprio contro B., autore dell’ornatissimo incipit degli Asolani (Inglese 2006, pp. 84-85). Del prosimetro bembiano M. non poteva infine non conoscere la dedicataria: quella Lucrezia Borgia, incontrata da B. nel 1502 a Ferrara, dove aveva sposato in terze nozze Alfonso d’Este. La liaison ‘platonica’ di B. con Lucrezia avvenne nei medesimi anni in cui M. entrava in contatto, da tutt’altro punto di osservazione e con tutt’altri risultati, col padre Rodrigo (allora papa Alessandro VI) e soprattutto col fratello Cesare.

Un incontro di natura ben diversa è quello ipotizzabile tra M. e le stampe aldine di Dante e Petrarca.

Partitomi del bosco, io me ne vo ad una fonte, e di quivi in un mio uccellare. Ho un libro sotto, o Dante o Petrarca, o uno di questi poeti minori, come Tibullo, Ovidio e simili: leggo quelle loro amorose passioni, e quelli loro amori, ricordomi de’ mia: gòdomi un pezzo in questo pensiero.

Così scriveva M. a Francesco Vettori nella celebre lettera del 10 dicembre 1513. È quasi impossibile immaginare questa scena senza il ‘rivoluzionario’ formato tascabile introdotto da Aldo Manuzio pochi anni prima (formato utilizzato, oltre che per le edizioni di Dante e Petrarca, anche per quelle di Tibullo e Ovidio, uscite nel 1502). E mentre leggeva la Commedia e le Rime, il pensiero del lettore andava forse anche al loro curatore, divenuto da poco segretario di papa Leone X, capofamiglia di quei «signori Medici» dai quali M., nella medesima lettera, si augurava di essere ‘adoperato’, magari anche solo per «voltolare un sasso».

All’inizio del 1513 vi era stata la svolta che per entrambi avrebbe significato il rovesciamento del rapporto tra otia e negotia: cassato dall’incarico nel novembre dell’anno precedente, M. nel febbraio fu arrestato e torturato per la presunta partecipazione a una congiura antimedicea; venne liberato solo in marzo, probabilmente per l’intercessione di Giuliano de’ Medici, certamente per l’elezione del fratello Giovanni al trono papale col nome di Leone X. In quegli stessi primi mesi del 1513 B. si trovava a Urbino, dove era giunto nel 1506 accettando l’ospitalità dei duchi della città. Qui lo raggiunse l’atto di nomina del nuovo papa a segretario ai brevi, redattore cioè delle lettere pontificie di minor peso rispetto alle più solenni bolle. «L’ufficio, che finalmente gli apriva la via ai più alti gradi della carriera ecclesiastica, scarso margine lasciava di libertà all’uomo di lettere» (Dionisotti 1966). Non è da escludere che l’eco delle dignitose richieste machiavelliane alla famiglia dominante a Firenze e a Roma, indirizzate per il tramite dell’amico Francesco Vettori ambasciatore fiorentino presso la corte del papa, giungesse anche alle orecchie del neosegretario B.; certamente giunse a quelle del suo ‘superiore’ Pietro Ardinghelli (→), notaio di curia e segretario personale di Leone X. Ne resta traccia in una lettera del 1515 da lui indirizzata a Giuliano de’ Medici, allora signore di Firenze: interrogato «strettamente» dal papa sulle voci di un impiego dato da Giuliano a M., e rispostogli di non saperne nulla, Ardinghelli riporta a Giuliano le parole di Leone X: «scrivetegli per mia parte che io lo conforto a non si impacciare con Niccolò» (Ridolfi 1953, p. 254).

Deve passare un’altra decina di anni prima che maturi la possibilità di un interessamento (forse reciproco) di M. per Bembo. Il primo, ormai dedito alle lettere e alle Istorie (e, come vedremo, anche alle discussioni linguistiche), torna a godere qualche favore da parte dei Medici; il secondo, quasi mai impiegato dal papa per affari d’importanza, rinuncia, soprattutto dopo la morte del suo protettore Giuliano, alle ambizioni politiche e riprende l’opera interrotta dieci anni prima, che porta a compimento e pubblica a Venezia, nel settembre del 1525, col titolo di Prose della volgar lingua. In quello stesso mese M. è, per la prima volta nella sua vita, a Venezia. Vi era stato inviato dai consoli dell’Arte della lana e da quelli per i commerci con il Levante, con una lettera credenziale del 19 agosto, per ottenere giustizia dal governo veneziano riguardo al furto subito da tre mercanti fiorentini. M. si occupò certamente della minuta faccenda (Gilbert 1969, pp. 395-98); ma è molto probabile che si attardasse a Venezia per tutt’altri motivi: ne fanno testimonianza le parole scritte da Filippo de’ Nerli in una lettera inviata a M. il 6 settembre: «Attendete a spedirvi, perché qui è gran romore tra questi mercanti che voi attendiate, a spese loro, a trattenere litterati» (Ridolfi 1953, p. 570).

Con i «litterati» veneziani M. si era senz’altro intrattenuto per parlare della rappresentazione della Mandragola da svolgersi nel prossimo carnevale, dopo il successo della recita di tre anni prima. Ma, in quello stesso mese di settembre, il più celebre dei «litterati» veneziani, B., era spesso in città ad allestire le ultime correzioni per la pubblicazione delle sue Prose (l’opera peraltro era già compiuta e fu offerta a papa Clemente VII, già cardinale Giulio de’ Medici, nell’ottobre del 1524). M. ripartì da Venezia il 16 settembre; la stampa delle Prose cominciò a essere diffusa probabilmente solo negli ultimi giorni del mese. Non è però da escludere un incontro tra i due, ormai entrambi più presi dalla letteratura che dagli affari politici, come pure la possibilità che M. leggesse il dialogo bembiano (o almeno ne sentisse parlare) in anteprima a Venezia (Chiappelli 1974, pp. 39-58) o, come altri ha ipotizzato (Dionisotti 1980, p. 316), ancor prima a Roma.

Intorno al possibile incontro veneziano con B. e alla possibile lettura machiavelliana delle Prose ruota gran parte delle più recenti discussioni su attribuzione e datazione del Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua. L’opuscolo, come è noto, fu trascritto nel 1577 da Giuliano de’ Ricci, nipote di M., e ritenuto, sulla base di una testimonianza del figlio Bernardo, opera «indubitabilmente» machiavelliana.

Attribuito ormai quasi universalmente a M., il Dialogo è stato variamente datato in un arco di tempo collocato tra il 1514 e il 1526. Sia i sostenitori della datazione bassa (autunno 1525) sia i molti sostenitori di datazioni diverse, fondano le proprie tesi sul rapporto del Dialogo machiavelliano con le Prose del Bembo. Il primo a mettere in relazione il Dialogo con le Prose fu Santorre Debenedetti, che notò quanto fosse poco verosimile che M., in una data anteriore alla pubblicazione delle Prose, affermasse la primogenitura provenzale nella poesia in rima (Debenedetti 1911, pp. 166-67). La relazione fu poi messa in luce da Cecil Grayson, che impiegò l’argomento per disconoscere l’attribuzione del Dialogo a M. (Grayson 1971, pp. 16-17); e infine fu analizzata da Fredi Chiappelli, che ipotizzò addirittura, come accennato, una dipendenza diretta tra la lettura veneziana delle Prose e la composizione del Dialogo (Chiappelli 1974, pp. 39-58), seguito in ciò da Roberto Ridolfi (1975, pp. 74-75) e, parzialmente, da Carlo Dionisotti (1980, p. 316) e altri. Un rapporto, quello tra le due opere, che è stato incentrato ora sulla presenza nel Dialogo di echi derivanti da una lettura delle Prose (Chiappelli 1974); ora, viceversa, sulla presenza nelle Prose di elementi polemici indirizzati all’autore del Dialogo, composto, secondo questa tesi, prima del 1520 e quindi anteriormente alle Prose (Sorella 1990, pp. 150 e segg.); ora sull’ipotesi di rimaneggiamenti posteriori, non dovuti alla penna di M., tendenti a far inclinare il Dialogo verso «una sorta di bembismo estremizzato» antidantesco (Inglese 1980, p. 289); ora, infine, sulla possibilità che la decisione di non pubblicare il Dialogo venisse presa da M. in seguito alla lettura delle Prose (Castellani Pollidori 1978, pp. 166-67). Un riferimento indiretto, ma quasi certo, se non alle Prose, al loro autore, è comunque presente nel Dialogo: nel punto in cui M. riconosce tra i suoi contemporanei «assai ferraresi, napoletani, vicentini e vinitiani che scrivono bene e hanno ingegni attissimi allo scrivere»: dove è difficile non pensare ad Ariosto, Iacopo Sannazaro, Gian Giorgio Trissino e, appunto, a Bembo.

L’indizio più consistente dell’interesse machiavelliano per le questioni linguistiche e, allo stesso tempo, il riferimento più esplicito alle Prose della volgar lingua e al loro autore, non si trova però in uno scritto di M.: nel 1556 usciva a Firenze il dialogo In difesa della lingua fiorentina, et di Dante, una sorta di ‘manifesto antibembesco’ dei letterati fiorentini.

L’autore era Carlo Lenzoni, autorevole esponente e console dell’Accademia fiorentina, morto nel 1551 senza aver potuto portare a termine il suo libro più importante, che fu completato sulla base degli appunti lasciati dall’autore e stampato dal Torrentino per le cure di Pierfrancesco Giambullari e Cosimo Bartoli. Alle pagine 26-27 Lenzoni riportava un ragionamento avuto da M. con un Messer Maffio Veniziano, presente e narrante Giovambattista Gelli, quando furono pubblicate le Prose del Bembo:

Nel più bel del ragionamento – racconta il Gelli ‒ parendo forse al Machiavello che astutamente gli fusse stato rotto il filo del parlare, così vivo et così pronto, come egli era di sua natura […] disse: “Ditemi di grazia Magnifico Messer Maffio: se qual si voglia più litterato Fiorentino che ci sia, havesse imparato a parlar veniziano in Firenze, in Roma, in Napoli, o simili altri luoghi, dagli scritti de’ vostri poeti et prosatori […] et […] vi scrivesse di diverse materie […] non conoscereste voi che egli userebbe molte parole et modi di dire fuora dell’uso et proprietà naturale della vostra città?” “conosceremolo certamente” rispose quel gentilhuomo, […] “et come ridereste voi poi” soggiunse il Machiavello, “se egli divenisse tanto ardito, che egli riprendesse i modi vostri del parlare o dello scrivere, et volesse darvene precetti, e […] volesse ancor giudicare chi di voi habbia parlato, o parli, più venizianamente et meglio; ridereste certo sopra ogni piacevol modo […] ancora che questo Fiorentino dicesse nelle sue regole molte et molte cose notabili et buone. Perché e’ sarebbe forza (non potendo più l’arte che la natura) che egli, non essendo stato lungo tempo in Venezia a questo fine, et non havendo voluto esser prima paziente scolare che prosontuoso maestro […] vi mettesse di quelle parole, di que’ modi di parlare, di quelle superstizioni et falsi giudizi finalmente, che vi farebbono al tutto fare lo effetto detto (Castellani Pollidori 1978, p. 38).

Bibliografia: S. Debenedetti, Gli studi provenzali in Italia nel Cinquecento, Torino 1911; R. Ridolfi, Vita di Niccolò Machiavelli, Firenze 1953, 19787; C. Dionisotti, Bembo Pietro, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 8° vol., Roma 1966, ad vocem; F. Gilbert, Machiavelli e Venezia, «Lettere italiane», 1969, 4, pp. 389-98; C. Grayson, Machiavelli e Dante. Per la data e l’attribuzione del Dialogo intorno alla lingua, «Studi e problemi di critica testuale», 1971, 2, pp. 5-28; F. Chiappelli, Machiavelli e la “Lingua Fiorentina”, Bologna 1974; R. Ridolfi, Ultime postille machiavelliane, «La bibliofilia», 1975, 77, pp. 65-76; O. Castellani Pollidori, Niccolò Machiavelli e il Dialogo intorno alla nostra lingua, Firenze 1978; C. Dionisotti, Machiavellerie, Torino 1980; G. Inglese, Machiavelli nel Dialogo, «La cultura», 1980, 18, pp. 283-97; A. Sorella, Magia, lingua e commedia nel Machiavelli, Firenze 1990; G. Sasso, Machiavelli e gli antichi e altri saggi, 4° vol., Milano-Napoli 1997; M. Danzi, La biblioteca del cardinal Pietro Bembo, Genève 2005; G. Inglese, Per Machiavelli: l’arte dello stato, la cognizione delle storie, Roma 2006.

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