BRAGADIN, Pietro

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 13 (1971)

BRAGADIN, Pietro (Piero)

Ugo Tucci

Figlio di Andrea di Giovanni e di Bianca di Zorzi Loredan, appartiene al ramo di San Severo della nobile famiglia veneziana. L'Alberi colloca la sua nascita intorno al 1460 (il 25 aprile, ha occasione di precisare lo stesso B., ma senza indicare l'anno), mentre le genealogie del Barbaro offrono la data del 1479, che parrebbe alquanto tarda rispetto a quella del matrimonio con Elena di Alvise Loredan, celebrato il 25 aprile del 1494.

Insieme con i fratelli Alvise e Gerolamo il B. rinunciò all'eredità paterna, la quale era gravata di un debito verso le Rason nuove di 12.000 ducati, e fu implicato nell'importazione da Alessandria e da Candia di una notevole quantità di pepe per conto del padre ma sotto falso nome. Probabilmente in dipendenza di questi fatti nel 1515 era ancora debitore allo Stato di almeno 1.000 ducati. Il 15 luglio 1498, per aver oltraggiato Nicolò Zorzi, ufficiale alle Rason nuove, si ebbe - insieme con Alvise e Gerolamo - la sospensione dai pubblici uffici per dieci anni. I fratelli furono assolti dal Consiglio dei dieci il 13 febbr. 1503, ma per non aver chiesto la grazia egli dovette aspettare fino al 19 aprile.

Il B. fu provveditore sopra Camere, ed esaurito l'ufficio fu scrutinato, ma non eletto, per varie magistrature, e ripetutamente - dal 1519 al 1522 - per quella di savio in Terraferma, alla quale teneva talmente che per ottenerla sollecitò voti in Senato. Colto dai censori, il 24 dic. 1518 ebbe una condanna al bando per due anni dal Maggior Consiglio e per tre dai pubblici uffici, dalla quale il Consiglio dei dieci lo assolse il 13 ott. 1519. Neldicembre 1522, per un solo voto, non riuscì nell'ambita carica.

Forse non gli giovò una questione della quale fu al centro nel 1515 per uno zaffiro da 128 carati appartenuto a Beatrice d'Aragona, vedova di Mattia Corvino. Il B., che ne era venuto in possesso in quanto, con ogni probabilità, trafficava in gioie, l'aveva dato in pegno a un ebreo, Anselmo "dal banco", in conseguenza di una perdita al gioco. Quando l'ambasciatore d'Ungheria manifestò il desiderio di riaverlo e per conto di lui la Signoria ne trattò l'acquisto presso Anselmo, il B. ne rivendicò la proprietà, spiegando d'averlo perduto al gioco della bassetta in casa di Giovanni Lando, vescovo di Candia, con Giacobbe figlio dell'usuraio, che egli accusò d'aver barato, connivente il padrone di casa. Il processo si trascinò a lungo in Quarantia Criminal e durante un'udienza emerse anche che il diamante era già stato venduto, dallo stesso B., a Giuliano de' Medici. La sentenza diede ragione al denunciante, il quale fu obbligato a restituire ad Anselmo il denaro avuto in prestito, col relativo interesse, mentre Giacobbe fu condannato in contumacia come baro.

L'11 ott. 1523 il B. fu tuttavia eletto bailo a Costantinopoli, al posto di Andrea Priuli, morto di peste e temporaneamente sostituito con Pietro Zeno, che si trovava sul posto in ambasciata speciale, ma ritardò alquanto la partenza adducendo il pretesto che non voleva assistere alle annunciate nozze di Ibrāhīm Pascià, potentissimo presso il sultano, senza presentargli un dono da parte della Repubblica. Nonostante l'opinione contraria del doge Gritti, molto esperto delle usanze di Costantinopoli per avervi dimorato vent'anni, il Consiglio dei dieci accondiscese segretamente al suo desiderio. Gli fu affidato anche un diamante richiesto dal sultano per un dono allo sposo, ceduto al prezzo di 25.000 ducati. Il B. s'imbarcò il 7 marzo 1524 sulla galera capitanata da Francesco Dandolo, il 14 era a Sebenico, il 25 aprile giungeva a Costantinopoli, accolto da salve d'artiglieria.

Nella "commissione" del 13 febbr. 1524 il Senato gli raccomandò in particolare d'adoperarsi per far cessare le scorrerie in Dalmazia. L'epicentro della politica internazionale era volto ad Occidente, mentre pace e amicizia ispiravano i rapporti veneziani con la Turchia, che era impegnata nell'impresa d'Egitto e preparava quella d'Ungheria. La peste teneva lontani da Pera i mercanti e anche la corte faceva lunghi soggiorni ad Adrianopoli. I dispacci che il B. spedisce a Venezia non sono perciò di gran momento: descrive minutamente le feste per le nozze di Ibrāhīm e quelle per il suo ritorno vittorioso dal Cairo e si dilunga volentieri sui discorsi, spesso accademici, tenuti con gli altri due visir, Aias e Mustafà.

Il B. è arguto osservatore e si compiace della battuta brillante, ma spesso si rivela ingenuo e impetuoso. Una sua lettera del 29 ott. 1524, in cui si rammaricava del mancato invio di formaggi dei quali il sultano era molto ghiotto, provocò l'ilarità del Senato e lo stesso doge - narra Marin Sanuto - "di tanto rider li veniva, si messe la sua mànega al viso". Anche un dispaccio del 22 ag. 1525 fu trovato lungo e ridicolo. Tuttavia egli seppe risolvere con molta abilità un incidente provocato da un Mistan reis, il quale si dichiarava testimone di un grave oltraggio alle insegne turche da parte del provveditore all'Armata.

Egli restava molte volte tagliato fuori da Venezia. Nel gennaio 1526 si lamentava d'essere già da tre mesi senza lettere della Signoria. Anche la notizia della battaglia di Pavia gli era pervenuta ufficialmente quando a Costantinopoli la conoscevano tutti (e non sappiamo quale peso si debba dare a ciò che egli scrive sull'offerta di aiuti militari e in denaro che Ibráhim Pascià gli fece quando egli gliela partecipò).

Il 30 ott. 1525 fu eletto suo successore Pietro Zeno (scelto segnatamente per il favore di cui godeva presso Ibrāhīm), il quale arrivò a Costantinopoli il 15 marzo 1526. Per tornare in patria il B. s'imbarcò il 25 aprile sulla galera di Francesco Dandolo, ma prima della partenza ebbe numerose divergenze con lo Zeno, al quale non voleva neppure consegnare l'ufficio. Arrivato a Venezia il 4 giugno, navigando da Rovigno su una semplice barca da pilota, si dovette giustificare contro un'accusa dello Zeno d'aver preteso indebitamente denaro pubblico (già durante la carica era stato costretto a difendersi dal sospetto di essersi appropriato dei 7.000 ducati del tributo dovuto ai Turchi, che egli aveva invece dilazionato al massimo, secondo le istruzioni ricevute dal predecessore), ma lo fece con tanta disinvoltura e brio che i senatori risero a lungo sull'incauto accusatore.

Il 6 giugno 1526, vestito di damasco cremisino, il B. lesse in Collegio la relazione sulla sua missione a Costantinopoli, della quale ci è rimasto un ampio sommario a opera di Marin Sanuto, con un'appendice di aneddoti sul sofì di Persia, sul sultano e sui suoi ambigui legami col visir favorito, destinata espressamente al diarista. La stessa relazione ufficiale riserva larga parte ai ritratti di Solimano e dei tre visir, nonché degli altri maggiori dignitari della Porta, ma accenna anche alla situazione finanziaria dell'impero, alla flotta ai cantieri navali, all'esercito.

Nel settembre 1526 il B. venne scrutinato come ambasciatore al sultano, ma non fu eletto. Assunse invece, due mesi dopo, la funzione di consigliere "di là dal Canal", e come tale partecipò attivamente, fino al 1º ag. 1527, quando cessò dalla carica, alle sedute dei massimi consessi della Signoria, qualche volta in veste di vicedoge. Successivamente fu scrutinato per diverse magistrature, ma solo nel gennaio 1530 entrò nel Consiglio dei dieci e il 31 dicembre dello stesso anno fu chiamato a far parte del Collegio dei quindici incaricato di dirimere le vertenze in materia di acque fra Verona, Padova e Vicenza. Dal 7 ott. 1532 al 24 sett. 1533 fu provveditore alle Biade, e con questi poteri il 2 luglio trattò un acquisto di centomila staia di frumenti.

Il B. non abbandonò più Venezia, dove lo vediamo assiduo a cerimonie religiose e civili, a ricevimenti, a banchetti, anche come compagno di Calza. Doveva godere di un'ottima posizione economica, se ebbe modo di vantarsene in Senato e se fu accettato fra i garanti del banco di Maffio Bernardo (1529). Infatti non aveva mai cessato di praticare la mercatura e anche all'epoca del suo bailaggio aveva concluso ottimi affari nei traffici del Mar Nero. A suo figlio, rimasto a Venezia, in una lettera dell'8 apr. 1525 egli raccomandava: "De uno ducato fàne doi, si tu pòi..., che ne senti benefitio et honor, et io contento". È la testimonianza, come osserva F. Braudel, di un capitalismo senza rimorsi, di una capacità di cogliere le ottime occasioni che il mondo mediterraneo sapeva offrire ancora in questa prima metà del sec. XVI.

Il B. fu nel collegio degli elettori del doge Pietro Lando, nel gennaio 1539. Ebbe un figlio, Giovan Francesco, che fu savio agli Ordini e al quale sopravvisse sette anni. Morì nel 1550.

Fonti eBibl.: Arch. di Stato di Venezia, Avogaria de Comun,Cronaca matrimoni, reg. 107/2, c. 24r; Ibid., Secreta,Archivi propri,Costantinopoli, b. 2 (nota di spese del bailaggio, dal 28 maggio 1525, e copiario di quarantacinque dispacci al Senato e al Consiglio dei dieci, dal 25 maggio 1524 al dicembre 1525); Ibid., Senato Secreta, reg. 50, cc. 65v, 65; Ibid., Miscell. Gregolin, b. 12 bis; Ibid., M. Barbaro, Arbori de' patritiiveneti, I, p. 149; M. Sanuto, Diarii, I, IV-V, X, XIII, XIX, XXI, XXIII, XXVI, XXVIII-LVIII, Venezia 1879-1905, ad Indices;P. E. Alberi, Le relazioni degli ambasciatori veneti al Senato durante il sec. XVI, s. 3, III, Firenze 1855, pp. 99-112; T. Bertelé, Il palazzo degli ambasciatori di Venezia a Costantinopoli..., Bologna 1932, pp. 38, 45-46, 66, 69, 74, 77; F. Braudel, La vita econ. di Venezia nel sec. XVI, in La civiltà venez. del Rinascimento, Firenze 1958, p. 90; Id., Réalités économiques et prises de conscience: quelques témoignages sur le XVIe siècle, in Annales, XIV (1959), pp. 732 s.; F. Lucchetta, L'"Affare Zen", in Levante nel primo Cinquecento, in Studi veneziani, X (1968), pp. 111 s., 207 ss.

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