CANDIANO, Pietro

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 17 (1974)

CANDIANO, Pietro

Margherita Giuliana Bertolini

Doge di Venezia, secondo di questo nome, figlio di Pietro (I), il doge caduto combattendo contro gli Slavi della Narenta il 18 sett. 887 (tale parentela, messa in dubbio dal Cessi in alcuni suoi studi è documentariamente attestata nella promissio dei Capodistriani del 14 genn. 932), succedette nel dogado ad Orso Partecipazio, ritiratosi nel monastero di S. Felice nell'isola di Ammiana (diocesi di Torcello), intorno al 931. Alla luce dell'energica politica condotta dal secondo dei Candiano per tutelare gli interessi veneziani nell'alto Adriatico, ed ampliarne anzi le possibilità di espansione - politica che contrasta nettamente con quella condotta a Venezia nel precedente ventennio - appare assai probabile l'ipotesi, formulata dal Cessi, che l'abbandono del dogado da parte di Orso Partecipazio sia stato un fatto assai meno volontario di quanto il cronista veneziano vuoi lasciare intendere ("Ursus dux... iam senex effectus, terrena... parvipendens coenobitalem habitum... devote suscipiens, ... vitam finivit": Cronaca... diacono Giovanni, p. 132), e sia stata conseguenza di un'imposizione, non da tutti tuttavia condivisa a Venezia: le diffidenze ed i timori nutriti nei confronti della possibile politica interna del nuovo doge, che si possono scorgere nelle parole del medesimo cronista, ne sono chiaro indizio (Pietro Candiano "ducatum suscipiens, nihilominus sui decessoris exemplo subditum sibi populum tractare conatus est": ibid., pp. 132 s.).

È assai probabile che una diversa visione del modo di risolvere il problema degli interessi veneziani nell'alto Adriatico, ed in particolare delle sue posizioni nella penisola istriana, dividesse il vecchio dal nuovo doge. Era questa penisola di vitale importanza per i traffici dei lagunari non solo dal punto di vista strategico (era infatti la prima tappa di appoggio per la navigazione verso il Mezzogiorno ed il Levante), ma anche per ragioni economiche, essendo Venezia il centro collettore e ridistributore nel mondo mediterraneo dei prodotti che l'Istria offriva o che in Istria potevano affluire dal mondo germanico e slavo (schiavi, legname, ferro; come risulta dalle attestazioni documentarie del commercio di questi prodotti in documenti del giugno 960 e del luglio 971 relativi al dogato di Pietro [IV] Candiano). In essa dovevano essersi create condizioni per il verificarsi di attriti con i Veneziani in seguito all'ampliamento dei diritti e privilegi a questi concessi negli ultimi decenni dai re italici, all'atto del rinnovamento del tradizionale pactum chedall'età carolino-lotariana regolava i rapporti tra il Regnum e Venezia. Diritti e privilegi che se da una parte dovevano aver facilitato l'insediamento veneziano ed il crescere della sua influenza economico-commerciale, dall'altra dovevano aver contribuito a far nascere avversioni da parte di chi da queste concessioni era stato menomato (l'ammissione del doge all'esercizio della "districtio" sui propri sudditi dimoranti nel Regnum, e l'estensione, della procedura sacramentale ed arbitrale alle azioni promosse dal doge in materia patrimoniale compaiono per la prima volta nella rinnovazione fatta da Guido re nell'891, ed in quelle dei successivi re Rodolfo [2 febbr. 924] ed Ugo [26 febbr. 927]; il pagamento del censo a ricognizione del pactum escludeva la percezione di qualsiasi altro contributo a diverso titolo: vedi Cessi, Pacta, pp. 263 ss., e Politica, pp. 192 s., 199 s.). Particolari condizioni politiche generali, come la debolezza del governo centrale del Regnum in questi anni in Italia, ben difficilmente in grado di far rispettare gli impegni presi, dovevano spingere le ambizioni dei signori locali all'azione, nell'intento di recuperare quanto era stato loro sottratto.

In questo quadro va inserita l'attività del marchese del Friuli-Istria, Wintero, iniziatasi probabilmente negli ultimi anni del dogado di Orso Partecipazio, che il vecchio doge non poteva o non sapeva affrontare (Cessi, Venezia ducale, I, p. 311), e che si doveva concretare poi in una serie di violenze contro uomini e cose veneziane in Istria. L'inasprimento dei balzelli, il sequestro dei crediti dei sudditi lagunari, la cattura e la spoliazione delle navi veneziane, l'usurpazione dei beni pubblici veneziani (del ducato, del patriarcato di Grado, dei vescovati lagunari), specie nella zona di Pola (vedi la promissio Wintherii de rebus Istriensibus, 12 marzo 933), portarono la crisi dei rapporti veneto-istriani ad un vero e proprio punto di rottura.

Di fronte a questa difficile situazione, l'azione del C. fu energica. Impose ai cittadini di Capodistria, l'emporio allora forse più importante della penisola, ove era personalmente sbarcato, la formulazione di una promissio (è questo il primo atto in cui egli compare) il 14 genn. 932: con essa i Capodistriani s'impegnarono a "salvare et defensare" il popolo di Venezia da qualsiasi violenza, a rendere giustizia per le cause pendenti con i Veneziani per i loro affari, a far omaggio ogni anno, finché fosse vissuto il doge, di cento anfore di vino honoris causa, a riconoscimento di gratitudine per la protezione che i Capodistriani avevano ricevuto da Venezia "omnibus vestris temporibus et usque ad presens", e per il fatto di aver potuto commerciare nel territorio del ducato senza subire angherie.

Questo atto, che alcuni studiosi vedono come la causa dell'apertura della crisi veneto-istriana (De Vergottini, Lineamenti, pp. 55 s.; Mor, L'età, I, pp. 220 s.; De Vergottini, Venezia e l'Istria, pp. 113 s.), è stato variamente interpretato per quanto riguarda la natura giuridica dei rapporti che con esso si instauravano tra Venezia e Capodistria: rapporto di omaggio, di amicizia e devozione, piuttosto che di obbligazione formale (Cessi, Pacta, pp. 302 ss., Venezia ducale, I, p. 312); vero e proprio rapporto di senioratico-vassallatico, senza passaggio però di sovranità, rimanendo Capodistria nell'ambito del Regnum Italiae (Mor, L'età, I, p. 219 e II, p. 285 n. s); semplice rapporto tributario (De Vergottini, Venezia e l'Istria, pp. 112 s.). In ogni caso sul piano politico fu un grosso successo per Venezia, perché da una parte contribuì alla soluzione del conflitto col marchese del Friuli in senso a lei favorevole, dall'altro segnò il punto di partenza della sua ulteriore penetrazione economica e commerciale in Istria, con esiti nel tempo che andranno al di là di questo piano (vedi la pax et convenientia, stipulata il 12 ott. 977 tra gli stessi Capodistriani e Venezia: Cessi, Pacta, pp. 305 ss. e Politica, p. 220; De Vergottini, Venezia e l'Istria, p. 115).

Contemporaneamente a questa azione il C. instaurò un embargo nei confronti dell'Istria, costringendo quindi il marchese Wintero, che aveva già perso la collaborazione dei Capodistriani, a chiedere la mediazione del patriarca gradense Marino, per giungere alla pace onde ristabilire i consueti commerci evidentemente essenziali alla sopravvivenza delle città istriane ormai intimamente legate a Venezia da interessi comuni (vedi le osservazioni dei Sestan, pp. 95 s.).

Ad un anno di distanza circa dalla promissio dei cittadini di Capodistria, il 12 marzo 933 a Rialto anche il marchese Wintero, insieme con i vescovi delle città istriane (è nominato in maniera specifica solo quello di Pola, Giovanni), "cum omni populo Ystriensi" (sono presenti gli inviati delle città di Pola, Capodistria, Trieste, Muggia, Pirano, Cittanova, Caorle), s'impegna, anch'egli mediante una promissio, a tornare al rispetto dello status quo "secundum sententiam pacti". Il rispetto e la garanzia dei beni e persone veneziani in Istria, lo svincolo dei crediti sequestrati, la revoca degli oneri ingiustamente introdotti, la tutela della navigazione mercantile sono le specificazioni indicate: significativa prova di come Venezia dovesse ormai garantirsi direttamente, con specifiche pattuizioni, quanto il Regnum non poteva più assicurarle (vedi ancora le osservazioni del Sestan, p. 97).

C'è da sottolineare una clausola di questa promissio che non ha rapporto con il pactum: si tratta dell'impegno che il marchese del Friuli e tutti i sottoscrittori della promissio prendono, di avvertire i Venetici, residenti in Istria, e, si può pensare, anche nel Friuli, perché possano rientrare "illesi ad suam patriam... si iussio regis venerit, ut contra Veneticos aliquid mali agatur". Tale clausola che ha fatto parlare di "tradimento" da parte del marchese friulano verso il suo re, allora Ugo, è certo segno da una parte della debolezza del potere centrale in questa area (Sestan), dall'altra dei timori che si dovevano nutrire a Venezia verso lo stesso re Ugo.

Questa garanzia data da Wintero, ma evidentemente richiesta da Venezia, trova forse la sua spiegazione nei difficili e incerti rapporti che il re italico aveva in quegli anni con le zone tra le quali Venezia faceva da tramite commerciale, ma eventualmente anche politico: la zona bizantina, sotto la cui alta sovranità il C., come "imperialis prospatarius et gloriosus Veneticorum dux", si riconosceva, e la zona germanica gravitante attraverso i valichi alpini orientali nell'area friulano-padana (vedi in generale per le vie di raccordo tra quest'ultima area e la Germania in rapporto a Venezia, Schulte, I, pp. 17-22, e la carta annessa al II volume). Sono infatti gli anni della crisi veneto-istriana che videro da una parte lo scontro, per quanto indiretto, tra la volontà della corte di Pavia di impadronirsi di Roma estendendo la propria influenza anche nell'Italia rneridionale, e la volontà opposta della corte di Bisanzio, che per tutto il secolo decimo non rinunciò a far rientrare, per via mdiretta o diretta, Roma e l'Italia nell'ambito della propria "oikoumene" (vedi per gli avvenimenti Mor, L'età, I, pp. 126-128, 131-134, 1365, 142-144, ed anche Zimmermann, pp. 76-83;in particolare per i rapporti tra Bisanzio, il Regnum Italiae e Roma in questi anni, le osservazioni, anche se non tutte convincenti, di Hiestand, pp. 162-167);e dall'altra il crescere della potenza del re di Germania, Enrico I, specie dopo la vittoria riportata sugli Ungheri (933), che non poteva essere ignorata da Bisanzio ai fini dei suoi disegni universalistici, e con il quale sappiamo che si mise in contatto il re Ugo per tutelare i confini nordorientali del suo regno (Mor, L'età, I, pp. 139-141).

Un curioso documento, databile al giugno del 932 e concernente Venezia, può portare ulteriori chiarimenti a questo proposito. Si tratta di una epistola diretta dal C. "imperialis consul et senator atque dux Veneticorum", e dal patriarca di Grado Marino, al re di Germania Enrico I ed all'arcivescovo di Magonza Ildeberto, il cui contenuto appare quasi identico a quello d'una lettera letta al concilio di Erfurt del giugno 932, presieduto dall'arcivescovo di Magonza alla presenza di Enrico. Per quanto ne sia stata messa in dubbio l'autenticità dal Cessi (Venezia ducale, I, pp. 314 s.), sembra comunque utilizzabile come spia da una parte degli interessi commerciali diretti che in questa epoca aveva il ducato con la Germania, dall'altra come indizio dei rapporti che attraverso Venezia si potevano instaurare tra Bisanzio e l'Occidente tedesco. L'esortazione fatta dal doge ad Enrico di uniformarsi all'esempio dell'imperatore Romano Lecapeno nell'ordinare il battesimo agli ebrei del suo regno, o la loro espulsione, e la preghiera di vietare il commercio degli oggetti di culto arredi e metalli sacri a quegli ebrei che non si fossero battezzati appaiono elementi significativi degli interessi commerciali veneziani per quanto riguarda l'area bizantino-tedesca, nella quale pericolosi concorrenti erano gli ebrei (vedi Blumenkranz, p. 319, e anche pp. 113-121, 344-347, sull'attività commerciale degli ebrei, che tuttavia l'autore cerca di minimizzare rispetto a quanto sostiene la letteratura. Lo Hiestand, pp. 469 s., il quale non si pone il problema dall'autenticità di questa epistola, se ne serve per affermare l'esistenza di rapporti diretti e di natura ovviamente politica, tra l'imperatore bizantino ed il re di Germania, dagli studiosi generalmente negati; ritiene infatti che le esortazioni in essa contenute non possono essere attribuite in proprio al doge veneziano).

Se il C. ristabilì il prestigio e la sicurezza del ducato sulle coste orientali dell'alto Adriatico, non trascurò di tutelarne gli interessi sulle coste occidentali. Presa infatti a pretesto la cattura di alcuni Venetici da parte dei "Comaclensis insule homines", egli attaccò, non sappiamo in che data, Comacchio, che già nel passato i Veneziani avevano cercato di acquisire al proprio dominio allo scopo di avere un'importante base marittima di controllo delle vie fluviali padane; ne distrusse il, castello, ne deportò a Venezia la popolazione superstite, finché ne ottenne la sottornissione (per Comacchio e l'attività commerciale dei suoi abitanti nell'entroterra padano, che andò decadendo negli ultimi decenni del secolo IX, vedi Hartmann, pp. 74-90, ed in particolare a proposito dell'attività del C., pp. 89 s.).

Nell'ambito della tradizione veneziana sono da porsi i rapporti cheil doge intrattenne con l'Impero d'Oriente. Com'era consuetudine, inviò infatti il suo omonimo figlio e futuro doge a Bisanzio per una presa di contatto ed un atto di omaggio nei confronti della "Basilea tōn Romaiōn", unica vera Res publica di cui pur sempre Venezia si sentiva parte (vedi le varie posizioni degli studiosi sulla natura del rapporto giuridico Venezia-Bisanzio, negli studi del Cessi e del Pertusi); ma è controverso se il figlio abbia ricevuto in tale occasione dall'imperatore bizantino, allora Romano Lecapeno, insieme con i "maximis donis" con cui tornò in patria, la dignità aulica di protospatharius, anch'essa tradizionale per i dogi o per i figli dei dogi veneziani, "simbolo tangibile di quel vincolo ideale che legava il ducato alla vecchia capitale d'Orientes (Cessi, Politica, p. 180).

A questo proposito la cronaca attribuita al diacono Giovanni dice: "Petrus Candianus dux, suum dilectum equivocum filium Constantinopolim ad Constantinum et Romano (sic) imperatores transmisit, a quibus protospatharius effectus, cum maximis donis ad Veneciam retdiit" (p. 133).Alcuni studiosi riferiscono tale notizia al padre, cioè al C., e non al figlio, come fa intendere il cronista, in quanto nei documenti che del terzo Candiano ci rimangono tale titolo non gli è attribuito (vedi in particolare la cartapromissionis del patriarca Lupo di Aquileia del 13marzo 944: Monticolo, nelle note alla edizione da lui curata della cronaca; Cessi, Politica, p. 200, e Venezia ducale, I, p. 314 n. 4). Se si dovesse dare credito a questa ipotesi (altri studiosi, come il Mor, L'età, I, pp. 282 s. n. 3, intendono però alla lettera quanto scritto da Giovanni diacono) si dovrebbe di conseguenza considerare la missione veneziana a Bisanzio come uno dei primi atti della politica del C., dato che questi nella promissio dei Capodistriani (14 genn. 932), è già qualificato come "protospatarius et gloriosus Veneticorum dux".

Se è sufficientemente documentata la politica "estera" del C., che lo indica come attivo difensore della "patria" veneziana, ed abile opportunista nello sfruttare la situazione internazionale a vantaggio del ducato, poco, per non dire nulla, è noto sulla sua attività di governo all'interno del medesimo. Condizionato forse dalla presenza, in posti di grande rilievo, di creature di passati dogi, come il patriarca di Grado Marino, e Pietro, figlio o nipote del doge Pietro Tribuno (887-910), vescovo di Olivolo, non diede a divedere di voler modificare a favore della propria famiglia l'assetto istituzionale del ducato: rispettò la pratica che si era instaurata dall'elezione del proprio padre, il primo dei Candiano, e che era stata seguita dai suoi immediati predecessori (Pietro Tribuno, Orso Partecipazio), di non associarsi il figlio al governo, sicché si potrebbe ripetere, con il cronista veneziano, che governò il suo "populum" secondo l'esempio "predecessoris sui".

Non sembra ammissibile in assoluto che l'invio a Bisanzio del figlio d'un doge fosse in rapporto alla necessità di farlo riconoscere dall'imperatore orientale come coreggente, "ciò che avveniva con la concessione di un titolo onorario immediatamente inferiore a quello del padre" (così afferma Mor, Aspetti, p. 129); non risulta documentato infatti l'uso della coreggenza nell'età successiva a quella del primo Candiano e fino al terzo doge di questa famiglia. In questo periodo la funzione dell'assemblea pare avesse assunto una parte preponderante nella successione dogale. Non si può negare che vi fosse una forte indicazione in tal senso sia nell'affidare ai propri figli le missioni che avevano con ogni probabilità soprattutto il delicato compito di provvedere al mantenimento dei buoni rapporti con Bisanzio, al momento del mutamento del titolare del ducato; sia nel prestigioso titolo, pur se simbolico, che di solito in tali occasioni l'imperatore concedeva.

Di fatto però, né il figlio di Orso Partecipazio, il doge predecessore del C., Pietro, che pure fu investito del titolo di protospatario nella sua missione a Bisanzio, risulta essere stato associato al padre, né al padre succedette immediatamente. Analogamente non risulta un'assocìazione al governo paterno del figlio del C., abbia o no ricevuto l'investitura di protospatario nella sua missione costantinopolitana (il Mor, L'età, II, n. 77 p. 190, pensa a una sua coreggenza in relazione al titolo di protospatario che crede, col cronista veneziano, avesse ricevuto) né egli succedette a sua volta immediatamente al padre. Sarà invece proprio il terzo dei Candiano che riprenderà l'uso della coreggenza associandosi il figlio, sia pure formalmente nel rispetto della volontà del popolo, e sarà fatto significativo.

Tuttavia la mancanza di unanimità, che doveva aver accompagnato l'ascesa al dogato del C., persistette evidentemente lungo tutto il suo governo fino alla morte, avvenuta intorno al 939: la scelta del suo successore nel figlio di quel doge Orso Partecipazio, che il C. aveva probabilmente costretto all'abdicazione, è significativa a questo proposito. Non è utilizzabile invece in questa direzione un'epistola che informerebbe sulle sue intenzioni di vestire l'abito monacale, ritirandosi in un monastero. Di essa infatti sono assai incerti l'autore, ipotizzato da alcuni studiosi nel vescovo di Verona, Raterio, ed il destinatario, ipotizzato appunto dai medesimi studiosi nel secondo dei Candiano (Weigle; Cessi, Politica, p. 205).

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