CAVALLINI, Pietro

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 22 (1979)

CAVALLINI, Pietro

Carla Guglielmi Faldi

Pittore romano, attivo tra l'ultimo trentennio circa del XIII secolo, e, con approssimazione, il primo ventennio del XIV.

In un atto di compravendita redatto il 2 ott. 1273 (Roma, Arch. di S. Maria Maggiore, Orig. Perg., D., II, 48: Ferri, 1904, 1907) compare come testimone un "Petrus dictus Caballinus de Cerronibus". Salvo rarissime eccezioni (Coletti, 1937), tutti pensano trattarsi del pittore, che sembrerebbe quindi appartenere alla famiglia dei Cerroni, del rione Monti: comunque, è certo che il soprannome "Caballinus" è prevalso, tanto da diventare evidentemente cognome, dal momento che come tale è passato al figlio Giovanni Cavallini, scrittore pontificio. Nel 1273 il C. doveva essere giovane e non ancora magister, ma neppure giovanissimo se poteva testimoniare: dal che parecchi studiosi hanno dedotto una data di nascita tra il 1240 e il '50.

In realtà il problema dei termini estremi della vita del C. è insoluto: Giovanni Cavallini, in una delle sue note a un Valerio Massimo della Biblioteca Vaticana (Vat. lat. 1927: Fedele, 1920), dice che il padre visse cento anni, ma l'affermazione è da intendere verosimilmente in senso generico, come accenno alla longevità dell'artista. Il Vasari, per suo conto, mentre nella prima edizione delle Vite (1550) dice il pittore morto a settantacinque anni, nella seconda (1568) ne allunga la vita di un decennio. Tutto ciò ha creato una grande confusione, tanto che le date proposte dagli studiosi per la nascita oscillano fra il 1240 e il '79.

Due documenti di rilievo sono la delibera di Carlo II d'Angiò, in data 10 giugno 1308 (Archivio di Stato di Napoli, Reg. Ang. 1307,n. 167, f. 245: Salazaro, 1882), che stabilisce un pagamento annuo di 40 once d'oro al C. "de Roma pictor",e la conferma di questa decisione da parte di Roberto d'Angiò il 15 dicembre dello stesso anno (Ibid., Reg. Rob. 1309, H., f. 216: Schulz, 1860).

Importante notizia, dal punto di vista biografico, è poi quella della sepoltura dal C. in S. Paolo fuori le Mura: già il Vasari, nella prima edizione, citava il distico elogiativo posto sulla tomba: "Quantum Romanae Petrus decus addidit Urbi / Pictura tantum dat Deus ipse polo". Non è rimasta traccia alcuna della tomba, forse distrutta nell'incendio della basilica del 1823.

Scarsissime le notizie documentarie, resta il problema delle fonti e della loro attendibilità. Il testo fondamentale per la conoscenza dell'attività romana del maestro resta ancor oggi quello di Lorenzo Ghiberti, fonte attendibilissima, anche perché questi andò a Roma meno di un secolo dopo la morte del Cavallini.

La perentoria ed errata affermazione del Vasari che lo dice "discepolo di Giotto",nata senza dubbio da amor di campanile, ha tuttavia implicato tutto il problema della formazione del maestro romano, originando così una "vexata quaestio" che ancora si trascina ai nostri giorni, con l'ingiusta diminuzione della personalità del C. e del grandissimo ruolo a lui spettante nella "prima Rinascita" dell'arte italiana.

Nella sua cultura figurativa non è certo mancato l'influsso del bizantinismo protopaleologo, colto, aggiornato, che lascia traccia in certa sua monumentalità, in certi schemi iconografici, ma che l'artista poi supera in direzione esclusivamente classicheggiante, data l'assimilazione appunto di elementi classici sia attraverso la tradizione cristiana delle origini, sia tramite l'aprirsi del nuovo discorso pittorico a Roma all'inizio di un'epoca nuova, romanica. Quindi una evoluzione in senso occidentale della maniera bizantina, una ripresa del classicismo non più archeologica, ma creativa, di rinascita, con una notevole sensibilizzazione anche a fatti coevi, dai Cosmati ad Arnolfo. Cioè, una reviviscenza del concetto antico di humanitas in una viva ed autonoma personalità, che si esprime mediante un nuovo naturalismo, una nuova, "moderna" sensibilità al colore e ai valori plastici, in un linguaggio dotto e solenne.

Artista di primissimo piano nella Roma allo scorcio del Duecento, l'attività del C. dovette essere continua e legata ai principali monumenti della città; ma oggi è di estrema difficoltà ricostituire un catalogo delle sue opere e soprattutto dare di esse una adeguata collocazione cronologica e per la perdita di vari dipinti citati dalle fonti e per la pressoché totale mancanza di apposizione di date a quelle superstiti.

Una delle fatiche più antiche del maestro romano, che probabilmente, anche se giovane, doveva aver già dato prova della la valentia per poter ricevere una commissione di tale rilievo, fu l'inizio della decorazione della navata centrale della basilica di S. Paolo, alla quale lavorò poi in più riprese, fino alla fine della sua attività. Di quei cicli di affreschi rimane oramai - dopo il rovinoso incendio del 1823 e le ancor più rovinose distruzioni di quel che restava al momento dei restauri della basilica - solo il ricordo delle fonti, qualche frammento isolatamente attribuito come autografo e la serie di riproduzioni, disegni acquarellati, delle singole storie, fatte da vari autori per il cardinal Francesco Barberini nel 1634 0 '35 (Bibl. Apost. Vaticana, Barb. lat. 4406, 4407: v. Waetzoldt, 1964, che riproduce completamente il primo codice, e Matthiae, 1972).

Quasi tutti gli studiosi pensano che la parte eseguita per prima dovette essere quella relativa agli Atti degli Apostoli sulla parete sin. della navata sotto le finestre, da collocare al tempo dell'abate Giovanni VI (1270-79) anche in base a una scritta, mutila, sotto due scene, riportata nella copia seicentesca: "...ribus dom. Johis sextus abbas",nonché alla presenza della figuretta dell'abate stesso nel riquadro con la Predica di s. Paolo. Dovrebbe seguire, al tempo di Niccolò III (1277-80), l'intervento, da alcuni rifiutato (per esempio, Matthiae, 1972), in alcuni dei medaglioni con i Ritratti papali, immediatamente sopra le arcate e nella controfacciata in basso (se ne conservano alcuni nel museo della basilica: De Bruyne, 1934). Più tardi, e precisamente al tempo dell'abate Bartolomeo (1282-87), la cui immagine, con una scritta indicante il suo nome,appariva genuflessa ai piedi di s. Paolo, pare sull'arco trionfale, il C. dovette lavorare al ciclo del Vecchio Testamento sulla parete destra, che assai probabilmente doveva riprenderne uno più antico, quello leoniano del V secolo, se è vero che alcune scene superstiti di esso non sarebbero state ridipinte dal C., ma da lui incorporate nel nuovo ciclo (Garber, 1918). Il che darebbe prova della sua coscienza critica nei confronti dell'arte cristiana dei primi secoli, parte viva della sua formazione.

Se è da pensare opera del C. (ché alcuni lo revocano in dubbio, altri pensano a un intervento di lui come restauratore di opere precedenti) il mosaico della facciata, raffigurante, come si ricava da un disegno del XVI sec. (Bibl. Apost. Vat., Vat. lat. 5407, f. 63), il Salvatore, i Simboli degli Evangelisti, la Madonna, il Battista e i ss. Pietro e Paolo (i cui pochi resti sopravvissuti all'incendio e alteratissimi sono incorporati nella parte posteriore dell'arco trionfale e ai lati dell'abside), esso risale al tempo del pontefice Giovanni XXII (1316-1334), e costituirebbe l'ultima opera del maestro romano, il cui percorso pertanto proprio nella basilica ostiense avrebbe avuto inizio e fine. La decorazione comprendeva anche figure di Apostoli e Profeti, su entrambe le pareti tra le finestre e affreschi sulla parete d'ingresso all'interno della facciata (secondo alcuni non del C. ma della sua cerchia) di incerto soggetto (Storie della Passione o,più verosimilmente, Profeti e l'Agnello divino sulla croce distesa fra il sole e la luna adorato dai ss. Pietro e Paolo). IlGhiberti e il Vasari inoltre parlano in termini elogiativi dei dipinti del C. nell'aula capitolare nel primo chiostro: opere totalmente perdute.

È a S. Paolo che il C., al momento dei lavori sulla parete del Vecchio Testamento, dovette incontrare Arnolfo (cui appunto lo stesso abate Bartolomeo aveva dato commissione del ciborio), che esercitò un influsso determinante sull'accelerazione del processo "classicheggiante" del pittore. Il Ghiberti ricorda ancora l'attività del C. nel vecchio S. Pietro, dicendo suoi i Quattro Evangelisti, grandi più del vero, con i SS. Pietro e Paolo ad affresco nella controfacciata, nonché altre figure (secondo Wilpert, 1916, Profeti) "nella nave del lato"; e commenta: "tiene ancora un poco della maniera antica, cioè greca": segno che tali affreschi - conosciuti solo attraverso gli inadeguati disegni di J. Grimaldi del sec. XVI (Bibl. Apost. Vat., Barb. lat. 2733) - appartengono con molta probabilità a un periodo giovanile (Busuioceanu, 1925, pensa agli anni verso il 1287).

Difficile dire, come del resto avverte Volbach (1947), dato lo stato di conservazione, della Tabula cum imaginibus apostolorum Petri et Pauli (S.Pietro, Museo del Tesoro) variamente attribuita a Giotto o al C., che nelle solennità veniva posta sull'altar maggiore: vi si notano influssi del C. di S. Cecilia e dell'affresco sulla tomba Acquasparta all'Aracoeli. Come pure, sempre per motivi di conservazione, è difficile pronunciarsi circa la Madonna detta "della Bocciata" nelle Grotte Vaticane.

Infine, a partire dall'Anonimo magliabechiano e dal Vasari, si parla del C. come collaboratore di Giotto al mosaico della Navicella di S. Pietro (oggi nell'atrio). A parte la cronologia che, al momento in cui Giotto doveva attendere al mosaico romano (e ancor più se si vuol spostarne il tramite parecchio dopo il 1300), vedeva il C. artista ormai affermatissimo e avanti nel suo percorso, se consideriamo le uniche parti leggibili, ora avulse dal contesto, e cioè i due clipei con Angeli, uno nelle Grotte Vaticane e l'altro, meglio conservato, ora a Boville Ernica, notiamo se mai che fu Giotto, oltre ad aver probabilmente appreso dal maestro romano la tecnica musiva, mai prima esperimentata, a risentire di lui nell'ampiezza plastica e nel respiro serenamente classico dell'immagine, dati anche i ricordi di un Angelo dalla destra alzata accanto al trono di Cristo in S. Cecilia (Körte, 1938).

Per la paternità degli splendidi clipei con Profeti nell'attuale sottotetto di S. Maria Maggiore sono stati alternativamente proposti i nomi di Cimabue e del C., laddove la critica più avanzata (cominciando dal Toesca, 1927) formula il nome di Giotto. Mentre si tratta, in realtà, di un problema aperto. Per gli affreschi del Sancta Sanctorum lateranense la difficoltà di lettura, date le pesantissime ridipinture, costringe a una sospensiva di giudizio. Tanto è vero che la critica oscilla tra Cimabue e il C.: alcuni li vedrebbero attivi insieme a quest'opera, altri parlano di tempi anteriori, altri invece considerano questi affreschi più tardi di quegli anni dopo il 1270, quando Cimabue è a Roma e il C. appare documentato per la prima volta. Non va poi sottovalutato il fatto che di un'attività in queste due basiliche non faccia parola il Ghiberti. La pur suggestiva "ipotesi cavalliniana" (Matthiae, 1970) relativa agli affreschi della chiesa dell'abbazia di Grottaferrata, sulla sopraelevazione duecentesca della navata centrale resta anch'essa, in realtà, problematica (Bertelli).

Non appare probabile la presenza attiva del C. nel ciclo vetero e neotestamentario della basilica di Assisi, anche se essa ha trovato sostenitori nella critica fino a tempi recenti. Mentre c'è da pensare fondatamente alla sua influenza sui pittori romani che vi hanno lavorato e forse anche a direttive generali date dal C., anche se parecchi di quegli artisti risultano legati al Torriti, attivo del resto in prima persona in alcuni affreschi. Ma soprattutto ancor più c'è da pensare all'influenza del C. su una grandissima personalità che da lui deriva, oltre all'assunzione tipologica di alcune figure, un nuovo e più concreto sentimento dello spazio che egli svilupperà ulteriormente: il cosiddetto Maestro di Isacco, vale a dire Giotto giovane. Altra prova, questa, del rapporto tra i due maestri che porta una volta di più a respingere l'affermazione vasariana che fa del romano un creato del grande fiorentino.

Per l'Ordine francescano, il C., come ci riferisce il Ghiberti, aveva dipinto assai verosimilmente con Storie di s. Francesco (Thode, 1885) tutta la chiesa di S. Francesco a Ripa: causa la integrale trasformazione tardosecentesca della chiesa, nulla dovrebbe restare di quel ciclo, che il Mancini, pur non citando alcun nome di artista, dice commesso dagli Anguillara.

Perdute tutte queste opere, certamente di primaria importanza, la testimonianza più antica che ci rimane dell'attività del C. è la serie dei riquadri musivi con le Storie di Maria al di sotto della conca absidale di S. Maria in Trastevere: Nascita di Maria, Annunciazione, Natività, Adorazione dei Magi, Presentazione al Tempio, Transito di Maria. Un settimo pannello, dedicatorio, posto al centro in un registro inferiore, mostra i SS. Pietro e Paolo che presentano a Mariae al Bambino benedicente ilcommittente Bertoldo di Pietro Stefaneschi.

Della committenza di Bertoldo parla il Necrologio della basilica (Londra, British Museum, Add. mss. 14, 801, alla data 6 novembre, s.a.): "VIII I. N. Ob.B[ertoldus] d. Petri Stephani qui fecit fieri totum opus mosaycum de beata Virgine in tribuna nostra". Èfuori di dubbio la paternità del C., accertata dal De Rossi (1899) in base a un'iscrizione nel pannello della dedica, perduta ma riprodotta nel corrispondente disegno di A. Ecclissi (1640: Bibl. Apost. Vat., Barb. lat. 4404, f. 23), mentre la datazione al 1291, generalmente accettata e del resto convalidata da ragioni stilistiche, è stata da alcuni posticipata rispetto agli affreschi di S. Cecilia (Gioseffi, 1963; Oakeshott, 1967; Hetherington, 1970; Paeseler, 1971; Nordhagen, 1976).

Sotto tutte le scene corrono iscrizioni metriche devote, di commento (Cecchelli, pp. 149 s.; Sindona, 1958, p. 38 n. 11; Matthiae, 1972, p. 84 n. 8), il cui testo è stato attribuito con qualche probabilità al cardinale Iacopo Stefaneschi, fratello di Bertoldo e grande protettore di Giotto (De Rossi, 1899) e autore, com'è noto, di un Opusmetricum.

I mosaici sono stati restaurati nel 1702 e poi di nuovo negli anni 1866-74 sotto la direzione di V. Camuccini e N. Consoni, mediante interventi, fortunatamente soltanto integrativi di alcune lacune, che senza alterarli troppo ne hanno lasciato agevole la lettura.

Opera della piena maturità, appare evidente da questo ciclo la cultura e la grandezza dell'arte del C. che porta ad un'altissima conclusione il lungo discorso dei mosaici cristiani di Roma, in una "renovatio" che, se lascia trasparire l'approfondita conoscenza dell'arte bizantina specialmente paleologa, tutto supera alla luce della tradizione romana classica e paleocristiana, con notevoli acquisizioni, inoltre, dall'arte cosmatesca specie nelle architetture e negli ornati, e da Arnolfo per la vitalità plastica e la concreta presenza delle nobilissime immagini. Assai notevole l'impegno compositivo e la ricerca spaziale, risolta di volta in volta, analiticamente, con elementi prospettici variamente articolati - architetture, paesaggio - legati alle figure per via di colore, con risultati di profondità molto suasivi, ottenuti anche grazie al variare delle angolazioni delle tessere musive. Onde, come è stato giustamente osservato da molti, si rivela qui evidente non già il tecnico, ma il pittore, che riesce a capovolgere quanto vi era di preciso e prestabilito nei modi del colore compendiario bizantino in favore di scelte libere che lo portano a teneri e morbidi passaggi nella luce, preludio assai vicino alla fluidità e al trascolorare propri dell'affresco. Ne risulta un insieme monumentale, nel quale però alla solennità sacrale si sposa una vitalità commossa, decantata in altissima serenità, arricchita da notazioni di realtà, si direbbe, quotidiana (la suppellettile nella Nascita di Maria, ad esempio, o, nella Natività, la "taberna meritoria",il pastorello che suona, il cagnolino). Un colorismo nuovo, un nuovo modo nel panneggiare, da grandissimo maestro, che giustifica l'affermazione ghibertiana: "Ardirei a dire in muro non avere veduto di quella materia lavorare mai meglio".

A S. Maria in Trastevere il Vasari cita anche "moltissime cose colorite per tutta la chiesa in fresco": c'è da dubitarne, non restandone traccia alcuna neppure nelle copie seicentesche che certamente queste "cose" avrebbero ritratte, per l'importanza e della basilica e dell'artista, tanto più che esistono invece varie serie di copie dei mosaici (Bibl. Apost. Vat., Barb. lat. 4404; Ibid., Cod. lat. 5408; Windsor Castle, Bibl. reale). Come pure è da escludere il C. dai mosaici della facciata come vorrebbe ancora il Vasari: essi sono da ritenersi più antichi, con un intervento di restauro del XIII sec. in alcune figure, ma non tale da far pensare al maestro.

Occorre a questo punto far menzione di un'opera discussa: il mosaico con la Vergine in trono tra s. Giacomo e s. Crisogono nella chiesa trasteverina dedicata a quest'ultimo santo; forse resto di una più ampia decorazione, il mosaico doveva occupare altro luogo da quello attuale, nella esedra absidale, stante il non coincidere della cornice, entro cui il pannello è racchiuso, con la curvatura dell'abside.

Il mosaico dovrebbe costituire, secondo il Bologna (1969), che propende, anche se con qualche piccola riserva, per l'autografia, un precedente importante per S. Maria in Trastevere (tale lo pensava, già nel 1925, il Busuioceanu), laddove moltissimi altri critici e, in questi ultimi anni, il Matthiae, propendono per un seguace, sia pure di un certo rilievo. Né il fatto che il Ghiberti affermi che il C. aveva ornato la maggior parte di questa basilica, e il Vasari aggiunga "con molte storie a fresco" - perdute probabilmente nel rifacimento seicentesco della chiesa - potrebbe essere probante per l'autografia del mosaico, che effettivamente appare, pur nella indiscutibile "aria cavalliniana",alquanto rigido, a meno di non voler pensare a poco felici interventi di restauro.

A creare nuove possibilità di aperture e un più ricco ed esatto discorso sul C., sulla novità del suo linguaggio, sui rapporti con i contemporanei, sulla grande lezione per l'imminente ulteriore "modernità" giottesca, contribuì la sensazionale riscoperta, nel 1900, a opera di F. Hermanin, della parte mediana e di parte di quella inferiore del Giudizio universale sulla controfacciata di S. Cecilia in Trastevere, nonché dei frammenti di due episodi veterotestamentari (Storie di Isacco e di Giacobbe) all'attacco della parete destra e, di fronte, di quelli di un'Annunciazione, che erano stati staccati e conservati in locale attiguo del convento delle benedettine, nonché di un gigantesco torso, forse di un S. Cristoforo. La parte sottostante del Giudizio era scomparsa nei rifacimenti del 1527 che divisero a metà la parte iniziale della chiesa, per ricavare in alto il coro delle monache dove appunto si trova la parte superstite, mentre la decorazione di tutta la chiesa, comprendente sulle pareti, probabilmente in due registri, il Vecchio e il Nuovo Testamento e più in alto Santi, Profeti e Patriarchi sotto edicole gotiche, andò distrutta - a parte alcuni resti nel sottotetto - nel rifacimento della basilica promosso dal cardinal Francesco Acquaviva (1724).

Preceduto dal ciclo musivo di S. Maria, quel che resta del Giudizio (doveva esserci in alto, a giudicare dalla suasiva ricostruzione del Wilpert, 1916, l'Apparizione dell'Eterno fra angeli, riprodotta in Matthiae, 1972, ill. 66), costituisce il pieno canto del maestro romano, e, come è stato con ragione affermato, uno dei capolavori più alti del Medioevo romano.

Agevolato dalla maggior duttilità del mezzo tecnico, il C., che dové iniziare il lavoro intorno al 1293, porta avanti il suo discorso fatto di colore, animando la solenne accolta della Deesis, caratterizzando sottilmente e pacatamente l'individualità dei singoli personaggi, plasticamente saldi,e sicuri, decantando la scena tremenda in una superiore, altissima compostezza. Di bizantineggiante resta qui soltanto lo schema iconografico, mancando appunto il tono fieramente apocalittico di quei dipinti, sostituito da un felicissimo connubio tra un naturalismo più moderno, in qualche modo "gotico",e la tradizione di una classicità che è humanitas ed euritmia. Tutto gravita al centro, ov'è lo stupendo Cristo maestoso ed umanissimo, di un'assorta mestizia, e tutto dal centro si diparte; con le architetture dei troni, così chiarì nelle loro strutture, così solidi e adatti ai consistenti volumi delle immagini, e l'impostazione di queste, sostenute dall'ampio panneggio, morbido e pittorico nella pastosità del colore trasfigurato dalla luce, si raggiunge, nella chiarezza del rapporto, una eccezionale "credibilità". Non tutte le parti dimostrano la stessa perfezione d'equilibrio ed è logico riscontrare, soprattutto ove si pensi all'enorme mole di lavoro commessa al maestro, la presenza, qua e là, di aiuti, che spesso si è cercato di individuare, con risultati alquanto diversi.

Certamente nella basilica trasteverina, dove Arnolfo attendeva al suo secondo ciborio, molte dovettero essere le mutuazioni e gli scambi di vedute, fino a riferimenti particolari come le edicole ancor visibili in parte nel sottotetto, entro le quali il C. pose le grandi figure di santi a sommo delle pareti (in una di esse resta intatta una figura giovanile di altissima qualità e altre due se ne intravedono, più consunte) e che dovevano apparire, lassù, quasi trasposizione pittorica degli archi e delle cuspidi del monumento facente spicco nel presbiterio. Al punto tale che lo Hermanin (1901) ha ipotizzato che sia stato Arnolfo a suggerire il disegno di quelle nicchie, che stanno comunque a testimoniare l'apertura e l'aggiornamento del C. sui fatti della più viva attualità.

Tornando al Giudizio, e in particolare alla figura del Cristo giudice, cade a proposito citare qui un frammento di tavola di soggetto affine: una testa del Redentore, grande quasi due volte il normale (Città del Vaticano, camposanto teutonico), sensazionale scoperta di F. Zeri (1976). Per essa lo Zeri ha ipotizzato trattarsi di un autografo del C., del quale costituirebbe l'unico esemplare di pittura su tavola: assai probabilmente un Cristo in trono, dipinto diun sapore talmente romano da far risalire, per la sua genesi, al "colossale" del tempo costantiniano, mediato attraverso l'ininterrotto filone di una certa pittura medioevale appunto romana.

Benché resti motivo di grande perplessità il fatto che un dipinto di tanta importanza sia passato sotto silenzio nelle fonti, è d'altra parte fuor di dubbio l'altissima qualità del pezzo, oltre all'evidente accostamento al Cristo di S. Cecilia nella solenne nobiltà e nella profonda umanità. Anche se,come avverte lo stesso Zeri, fare un nome tanto grande è operazione rischiosa, e se il bellissimo frammento è cosa da dar da pensare, è pur vero che la suggestione che emana da questo Cristo sovrano è tale da indurre in definitiva ad essere affascinati anche dalla proposta attributiva. L'opera sembrerebbe comunque tarda e, volendo accettare la ipotesi cavalliniana, da collocare forse anche oltre l'affresco del Velabro, prima del quale la colloca lo Zeri.Lo Hermanin (1901), per analogie che ebbe a riscontrare con gli affreschi di S. Cecilia, si pronunciò per un'attribuzione, già però in precedenza formulata dallo Zimmermann (1899), al C. in persona dell'affresco absidale di S. Giorgio in Velabro, che - rifacendosi per composizione alla tradizione passata (SS. Cosma e Damiano ) - mostra il Cristo sul globo del mondo, con la Madonna e i ss. Giorgio, Pietro e Giacomo.

L'affresco dovrebbe collocarsi cronologicamente appunto dopo S. Cecilia, forse iniziato nel 1296, dopo che nel dicembre 1295 aveva assunto la diaconia della chiesa il cardinal Iacopo Gaetano Stefaneschi.

In realtà, anche a prescindere dal silenzio delle fonti, è assai difficile pronunciarsi, dato lo stato di conservazione assai precario dell'opera, la quale non manca però di esercitare una notevole suggestione a favore di un'autografia in forza dell'ampiezza piena di respiro nella interpretazione di antichi modelli, e della puntualità di alcuni riferimenti, quali il S. Pietro memore di quello del mosaico dedicatorio di S. Maria in Trastevere e dell'altro di S. Cecilia, o il S. Giorgio, vivace "appunto" di sapore arnolfiano. Comunque sia, a volerla considerare problema aperto, l'opera si pone come uno dei punti più stimolanti nella complessa vicenda costituita dall'ambiente cavalliniano.

Passando ad un'altra importantissima basilica romana, S. Maria in Aracoeli - oltre alle opere del C. perdute quale l'affresco absidale con la Sibilla che mostra ad Augusto l'apparizione della Vergine con il Cristo, che il Vasari ricorda come "la migliore opera che in quella città facesse",nonché "alcune storie sopra la porta della sagrestia" ugualmente citate dal biografo che già al suo tempo le vide "molto consumate",e oltre a una parte della decorazione, anch'essa ad affresco, della cappella Savelli, rinvenuta nel sottotetto in tempi recenti (Cellini, 1955, che la riferisce a un primo periodo dell'attività cavalliniana) -,ci si imbatte in un notevole documento dell'attività del maestro in una fase avanzata: la Madonna tra i ss. Matteo e Francesco nellalunetta del monumento sepolcrale, opera di Giovanni di Cosma, del cardinal Matteo d'Acquasparta, morto nel 1302, anno che viene perciò a costituire il terminus a quo per la datazione dell'affresco. Anche se l'opera non è citata dalle fonti, lo stile, specie ove si abbia S. Cecilia come punto di riferimento, parla chiaramente, e in più appare evidente, nella costruzione delle immagini sempre ottenuta, per via cromatica, e nell'agevolezza del disporsi delle figure nello spazio, lo sviluppo coerente dei modi del maestro da S. Cecilia in avanti, non escludendo però una certa attenzione, da parte sua, alla concretezza limpida dei modi giotteschi.

Tra i pochissimi documenti relativi al C. assumono (come si è visto) primaria importanza quelli napoletani di Carlo e Roberto d'Angiò, i soli che si riferiscano alla sua personalità di maestro pittore. Il C. è quindi presente a Napoli dal 1308, ed avrà accettato l'invito - che presuppone quanta e quale fama lo precedesse - probabilmente anche, come osserva il Sindona (1958), per il decadere di Roma dopo il 1305, anno di inizio dell'esilio avignonese. I documenti, però, tacciono circa i lavori affidati al pittore e la critica ha dovuto perciò, dovendo ricercare le tracce dell'attività del maestro, orientarsi innanzi tutto, com'era logico, verso monumenti angioini, a cominciare dalla chiesa di S. Maria Donnaregina, ricostruita per volontà di Maria d'Ungheria a partire dal 1307, con lavori protrattisi certo fino al 1316, e forse oltre, fin verso il '20.

È legittimo pensare all'intervento di artisti romani, da collocare però più tardi del 1308 (è infatti assai improbabile che i pittori fossero attivi quando la costruzione era appena agli inizi), dato l'indubbio carattere cavalliniano di alcune parti, quali il Giudizio universale nella controfacciata, anche se non in toto, e i grandi riquadri con Apostoli e Profeti affiancati ad un palmizio, nella parte alta verso il presbiterio.

Fra le varie ipotesi, la più attendibile è quella dell'esecuzione da parte di seguaci del C. che avrebbe avuto il ruolo di grande "regista" di questa impresa pittorica (ma vedi Bologna, 1969).

Quanto all'Albero di Iesse nella cappella degli Illustrissimi, già di S. Paolo (sui resti di una più antica di S. Lorenzo), nel duomo di Napoli, considerato anche esso opera dell'area cavalliniana, èassai difficile pronunciarsi, dato il cattivo stato di conservazione. Mentre è chiaro che rientrano nell'ambito d'un discorso di influssi romani solo assai generici sia la tavola con la figura dell'Arcivescovodi Ormont (Napoli, Arcivescovado), sia l'affresco con Cristo e santi nel refettorio di S. Chiara, sia il mosaico della cappella di s. Maria del Principio in S. Restituta, opera di Lello, non romano ma da Orvieto come ha precisato il Bologna, il quale anzi attribuisce a questo artista anche tutte le opere su citate e persino l'Albero di Iesse.

Tra le altre attribuzioni di opere napoletane al C. ricordiamo quella del Morisani (1947), avanzata però con molta cautela dato lo stato di conservazione, della Dormitio Virginis in S. Lorenzo, e quella del Bologna (1969) relativa agli affreschi (recentemente restaurati) della cappella Brancaccio in S. Domenico.

Sempre influssi, talora più talora meno, generici del C. o della sua scuola sono da riscontrare in parecchie opere, spesso di artisti locali, sempre in Campania, come, ad esempio, nei frammenti di una Crocifissione in S. Antoniello ai Vergini in Napoli, in una Pietà in S. Giovanni del Toro a Ravello, o negli affreschi della cappella antistante il chiostro del Paradiso ad Amalfi.

L. Moreschi (Descrizione del tabernacolo... della basilica di S. Paolo..., Roma 1840, pp. 88, 109)identificava il C. con il "Petro" socio di Arnolfo citato nell'iscrizione del ciborio di S. Paolo, mentre è noto trattarsi di Pietro di Oderisio. Altro equivoco venutosi a determinare attorno alla figura del C. è quello di una sua presunta attività di scultore, ed anche questo si deve, all'origine, al Vasari che nomina un suo Crocefisso in S. Paolo, laddove il Ghiberti, che è, ripetiamo la fonte più attendibile circa l'attività del maestro romano, non lo citava affatto. Il Crocefisso di S. Paolo attribuito al C. dal Lavagnino, di recente restaurato (Mancinelli, 1977), è opera chiaramente toscana, di gusto seneseggiante (P. Toesca, 1951; I.Toesca, 1967;M. Salmi lo attribuiva a Tino da Camaino, in Commentari, XV [1964], 3-4, pp. 166-172).

Altra attribuzione al C. che ci sembra non troppo attendibile è quella del Mariani (1927), relativa a una statua lignea di S. Paolo nella stessa cappella della basilica ostiense (Toesca, 1927, e, ancora, 1951, ipotizza la paternità di un grande seguace di Arnolfo "se pur non sia di Arnolfo medesimo"), come è anche da respingere l'ipotesi cavalliniana per il Crocefisso ligneo nella cappella che da esso (o anche da S. Nicola) prende nome, in S. Pietro in Vaticano: citata dal Baglione (1639), l'attribuzione è andata avanti quasi per inerzia fino al nostro secolo, finché P. Toesca (1951) ha spostato giustamente l'opera al secolo XV.

Si può quindi negare con tutta tranquillità un'attività cavalliniana nel campo della scultura.

È chiaro che un maestro della levatura del C. ebbe una numerosa serie di collaboratori, così come è evidente che Roma risentì a lungo dell'arte sua, ed è pertanto dato trovare fino ai tempi tardi opere che genericamente risentono dei suoi modi. Citiamo, fra i molti esempi romani, la Madonna tra due santi in S. Maria in Cappella (affresco staccato, ora nei depositi di palazzo Doriapamphili) e l'affresco con la Madonna col Bambino e s. Stefano in S. Maria in Aquiro (M. D'Onofrio-C. M. Strinati, S. Maria...,Roma 1972). Nel Lazio il riflesso senza alcun dubbio più importante dell'arte cavalliniana si ha nel ciclo del Vecchio e Nuovo Testamento a S. Maria in Vescovio, dove agiscono più mani di diversa qualità, probabilmente della stessa bottega del maestro.

In Umbria, a parte Assisi, poco può dirsi, date le numerose pesanti ridipinture degli affreschi della sala dei Notari nel palazzo dei Priori a Perugia; essi sembrerebbero esser opera di vari pittori, diversi per qualità e che hanno risentito più o meno della corrente cavalliniana, in una traduzione, sia pur piacevolmente, provinciale.

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