COLONNA, Pietro

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 27 (1982)

COLONNA, Pietro (Pietro Galatino)

Carlo Colombero

Il personaggio fu universalmente noto come Pietro Galatino, nome derivato da quello della città natale, appunto Galatina, in Puglia. Varie discussioni sorsero intorno all'identificazione della sua famiglia, essendo stati in passato riferiti al Galatino tanto il cognome Colonna, quanto il cognome Mongiò. Si potrebbe pensare a un'alternanza nell'uso del cognome paterno e di quello materno, ma in tale caso resterebbe da stabilire quale fosse l'uno e quale l'altro; inoltre sussiste anche l'ipotesi che il cognome della madre fosse Mollona. La spiegazione più lineare desumibile dalle vecchie biografie del Galatino è che egli fosse figlio di un Filippo Colonna e di una Caterina Mollona, famiglia imparentata con i Mongiò, fatto che giustificherebbe la presenza di questo cognome.

La sua data di nascita può essere indicata soltanto con qualche approssimazione. Nell'orazione De circunsioine dominica, da lui tenuta alla presenza del papa Leone X nel 1515, si dice cinquantenne, ma questa indicazione deve essere ritenuta approssimata. Se egli fosse nato proprio nel 1464 o '65, risulterebbe contraddetto quanto è affermato nella prefazione dell'Emendatio opusculorum de Messiae mysteriis et de Domini nostri Iesu Christi generatione, dove l'autore dichiara di avere esattamente settantanove anni. Lo scritto fu infatti dedicato a Paolo Capizucchi, nel periodo nel quale questi fu vescovo di Nicastro, cioè dal 7 nov. 1533 al 27 ag. 1539. Secondo questa indicazione il C. potrebbe essere dunque nato tra il 1454 e il 1460; ovviamente è opportuno spostare il più possibile la sua nascita verso il 1460: se infatti essa fosse sensibilmente anteriore a tale anno, nel 1515 il C. sarebbe già stato troppo oltre la cinquantina.

Entrò molto giovane a far parte dell'Ordine dei minori osservanti, nel convento di S. Caterina a Galatina. Nel 1480 assisté all'occupazione di Otranto da parte dei Turchi. Successivamente, per fargli proseguire gli studi, i superiori lo inviarono a Roma, che divenne sua residenza abituale. Se ne allontanò infatti soltanto saltuariamente: nel 1492 si recò a Taranto, dove esaminò il testo della cosiddetta profezia di s. Cataldo; nel 1506 fu a Napoli, per offrire al re Ferdinando II il Cattolico il testo del suo De optimi principis diademate;trascorse poi l'intero 1518 a Bari, come ministro della provincia minoritica di S. Nicola. Rientrò due volte nella città natale, nel 1524 e nel 1536: la prima volta in relazione ai tentativi dei suoi concittadini di fare elevare Galatina a sede di vescovato da assegnare a lui come primo vescovo. L'ultimo particolare notevole relativo alla sua vita privata ci è fornito dal C. stesso, nella prefazione alla quarta parte del suo De Theologia:colpito da grave malattia mentre si accingeva a trattare, nella sua opera, il problema del peccato originale, fece voto alla Vergine di dedicarsi alla dimostrazione della di lei immunità da tale peccato, e subito avrebbe riacquistato la salute.

Alla conoscenza del latino, acquisita attraverso gli studi, e a quella del greco, dovuta al fatto che tale lingua era ampiamente usata nella sua terra di origine, il C. unì la conoscenza dell'ebraico che studiò a Roma sotto la guida del grammatico ebreo Elia Levita, divenendone tanto esperto da essere talvolta ritenuto egli stesso ebreo convertito. In questa lingua gli furono addirittura indirizzati epigrammi encomiastici. Pur senza approfondirvisi molto, studiò anche l'etiopico, forse per primo in Italia, sotto la guida di Giovanni Potken, citato in una lettera del C. a Giovanni Reuchlin, con termine improprio, come maestro di lingua "caldea".

Nella prima edizione del suo De arcanis catholicae veritatis sono riportate due lettere dell'imperatore Massimiliano I e dell'arcivescovo di Nazaret Giorgio de Salviatis: nella prima l'imperatore, fautore dello studio delle lingue orientali per la propaganda della fede, si congratula con il C. per la sua erudizione "in tribus linguis"; nella seconda l'arcivescovo lo loda quale "virum quatuor linguarum peritissimum", con evidente riferimento alla conoscenza dell'etiopico, unita a quella del latino, del greco e dell'ebraico. Il C. si avvalse delle proprie conoscenze linguistiche per l'interpretazione dei testi sacri. Frequentò inoltre il circolo di uomini di cultura raccolto intorno al cardinale Egidio Canisio da Viterbo, e in quell'ambiente fu istruito dal già citato Elia Levita nella scienza cabalistica: questi suoi interessi traspaiono dalle preoccupazioni criptografiche emergenti dal contesto delle sue opere esegetiche.

Per quanto riguarda gli incarichi pubblici, fu professore, all'università di Roma, di filosofia e teologia, nonché di lingua greca. Inoltre resse l'ufficio di penitenziere apostolico della basilica di S. Pietro; fu cappellano del cardinale Lorenzo Puccio e poi, dal 1531, del cardinale Francesco Quinones. Fu in relazione con i papi Leone X e Paolo III, e tenne corrispondenza con Massimiliano I, Carlo V, Ferdinando il Cattolico, Enrico VIII. Per quanto riguarda l'ambito specificamente culturale, spicca la sua corrispondenza, dovuta ai comuni interessi per la cultura ebraica, con Giovanni Reuchlin. La sua fama come teologo, filosofo ed esegeta declinò rapidamente dopo la morte. Questa avvenne a Roma probabilmente non molto dopo il 1539. In tale anno egli chiese a Paolo III l'autorizzazione a largire le proprie opere, ancora quasi tutte inedite, al convento dell'Aracoeli: tale autorizzazione venne concessa con specifico decreto datato 11 maggio 1539. È questa l'ultima data certa riguardante il C., che venne poi sepolto nel convento di S. Maria in Aracoeli.

Il numero e la mole dei suoi scritti sono indice di un'intensa attività protrattasi fino alla vecchiaia. Il citato decreto di Paolo III comminava la scomunica a chi avesse asportato tali scritti dal convento dell'Aracoeli, salvo il caso che il pontefice stesso concedesse specifica autorizzazione per stamparli. La sminuita notorietà dell'autore fece sì che essi rimanessero in massima parte inediti. In seguito i manoscritti furono trasportati dall'Aracoeli alla Biblioteca Vaticana; nel 1610 l'arcivescovo di Lanciano Lorenzo Mongiò fu autorizzato da Paolo V a farne eseguire una trascrizione, al fine di pubblicarli, ma il progetto non venne realizzato.

In ordine cronologico la serie di questi scritti è la seguente. Del 1506 è il già citato De optimi principis diademate, mentre risale all'anno successivo l'Expositio dulcissimi nominis tetragrammaton, sulla pronuncia del nome ebraico di Dio. È del 1515 l'Oratio de circoncisione dominica, pronunciata il 1° gennaio di quell'anno alla presenza di Leone X, nella quale si polemizza contro le discordie tra i principi cristiani, che favoriscono i successi dei Turchi. L'opera fu stampata a Roma nello stesso anno. Sempre del 1515 è una lettera a Reuchlin, che fu pubblicata nella raccolta Illustrium virorum epistolae… ad I. Reuchlin…, Hagenoae 1519 (il testo, con la risposta di Reuchlin, è riportato da Kleinhans, pp. 338-342). Nella lettera è annunciata la prossima apparizione del De arcanis catholicae veritatis:terminata nel 1516 e pubblicata per la prima volta a Ortona nel 1518, è questa l'opera più nota del Colonna. Essa si compone di dodici libri. Ebbe varie edizioni postume: Basilea 1550, 1561; Parigi 1603; Francoforte 1572, 1603, 1612, 1676. In queste ultime tre edizioni essa compare unita al De arte cabalistica di Reuchlin. Il trattato si inserisce nella polemica sorta in Germania all'inizio del sec. XVI sul valore da attribuire, dal punto di vista del cattolicesimo, ai testi sacri ebraici. Contro i negatori di tale valore Reuchlin affermava la necessità di respingere soltanto i libri postbiblici esplicitamente contrari alla fede cristiana, mentre tutti gli altri potevano essere accettati. Dopo uno scambio di invettive tra Reuchlin e Giovanni Pfefferkorn, la questione - alla quale si interessò l'imperatore Massimiliano I - fu deferita all'inquisitor fidei Giacomo Hochstraten e a una commissione di teologi: varie proposizioni degli scritti polemici di Reuchlin furono accusate di eccessive simpatie per l'ebraismo. A questo punto, sollecitato dal cardinale Lorenzo Puccio e autorizzato da Leone X, il C. si inserì nella discussione in difesa di Reuchlin. L'opera è composta in forma di dialogo: interlocutori sono lo stesso autore, Reuchlin e Hochstraten. Quest'ultime, sostiene che tutti i libri usati dagli ebrei devono essere respinti, mentre gli altri due interlocutori affermano l'utilità di tali libri, che forniscono argomenti comprovanti la verità del cattolicesimo.

L'opera ottenne uno straordinario successo presso gli ambienti della Curia romana. Tuttavia, e forse fu questa la causa principale del declinare della fama dell'autore, dopo la sua morte egli fu accusato di plagio. Tra il 1603 e il 1604 Giuseppe Scaligero, nella corrispondenza con Isacco Casaubon, affermò che il C. aveva troppo largamente attinto dal Pugio fidei, composto nel 1272 dal domenicano spagnolo Raimondo Martinez; secondo Antonio Possevino egli avrebbe invece ricalcato la Victoria adversus impios Hebraeos del certosino genovese Selvaggio Porchetti (morto nel 1315), il quale però, a sua volta, come egli stesso ammette, si ispira a Martinez. Fu in parte confermata l'ipotesi di Giuseppe Scaligero quando, nel 1651, fu stampata l'opera di Martinez e fu possibile effettuare un confronto tra i due scritti.

Proseguendo la rassegna delle opere del C. si trova, nel 1519, un Libellus de morte consolatorius ad Leonem X, composto in occasione della morte di Lorenzo de' Medici duca di Urbino, nipote del pontefice. Altra opera fondamentale è il De republica christiana, del 1521, anch'essa dedicata a Leone X: vi si tratta della riforma della Chiesa. Argomento di viva e ovvia attualità in quegli anni. Nel 1522 troviamo soltanto una predica: Oratio de dominica passione. Sicuramente composto l'anno successivo è il De septem Ecclesiae tum temporibus tum statibus, dedicato al cardinale Francesco Quinones: vi si tratta delle sette epoche corrispondenti a sette diverse condizioni della Chiesa; vi è citato Lutero, "haereticoruni pessimus". Argomenti analoghi sono trattati nel De Ecclesia destituta e nel De Ecclesia restituta, entrambi anteriori al 1524, nei quali, attraverso l'interpretazione delle profezie bibliche e medievali e del senso mistico dei Salmi e dell'Apocalisse, si discute delle calamità della Chiesa e della sua futura riforma, da attuarsi mediante il ritorno allo stato originario. Sempre su questa linea di interpretazione allegorica delle Sacre Scritture si pone il commento all'Apocalisse, del 1524, composto per suggerimento del cardinale Quinones e dedicato a Carlo V, esortato a recidere il settimo capo della bestia, cioè l'islamismo, e a ricondurre tutti i popoli al cristianesimo. In questo testo è inserita la descrizione della presa di Otranto.

Abbiamo poi una Vaticinii Romani explicatio, del 1525, su una profezia pronunciata a Roma nel 1160. È del 1526 il De Sacra Scriptura recte interpretanda, ovvero Ostium apertum, sul metodo per attingere le verità scritturali più riposte, le quali si rivelano con modalità diverse da epoca a epoca, perché i misteri occultati dal senso letterale del testo si attuano nella storia "secundum temporum personarumque circumstantias". L'opera è dedicata a Enrico VIII e vi è nuovamente citata la "impiissimam Martini Lutheri haeresim". Di incerta datazione è il De cognoscendis pestilentibus hominibus deque refellendis eorum versutiis, una serie di consigli per difendersi dai malvagi; del 1532 è il De SS. Eucharistiae sacramenti mysteriis, mentre sicuramente successiva al 1533 è l'Emendatio opusculorum de Messiae mysteriis et de Domini nostri Iesu Christi generatione, dedicata al vescovo Paolo Capizucchi, che aveva invitato il C. a correggere due opuscoli ebraici già tradotti in latino probabilmente dall'aragonese Paolo de Heredia. Successivi al 1534 sono altri quattro scritti: De Ecclesia instituta, in cui si tratta della fondazione della Chiesa e si interpretano i passi scritturali relativi alle sue vicissitudini, opera dedicata a Paolo III, dal quale il C. attendeva la già auspicata riforma; De anima intellectiva, sull'immortalità dell'anima; De homine, che tratta l'unione tra anima e corpo ed esprime una concezione dell'uomo quale microcosmo; e infine un indice analitico del De arcanis catholicae veritatis, compilato in vista di una seconda edizione dell'opera. Si colloca intorno al 1539 il De angelico pastore, sull'ipotetica figura dell'atteso pontefice, auspicato da varie profezie, che avrebbe dovuto riformare la Chiesa: l'opera raccoglie le varie riflessioni già svolte negli scritti precedenti in merito a questo tema. Tra il 1534 e il 1539 il C. si dedicò all'estesissimo De Theologia, repertorio di scienza teologica rimasto incompleto dopo cinque parti, già comprendenti circa cinquanta libri: esso muove dal concetto di Dio e scende lungo la serie delle creature fino all'uomo, trattando della sua caduta e della sua redenzione. Oltre a queste opere di certa attribuzione, vengono riferiti al Galatino un De umbella, varie interpretazioni di profezie e un dramma sacro in volgare sul Natale, tutti di dubbia attribuzione.

Bibl.: I. A. Fabricius, Bibl. Latina mediae et infimae aetatis, III, Patavii 1754, pp. 4-5; L. Wadding, Script. Ord. Min., Romae 1906, pp. 187-189; A. Kleinhans, De vita et operibus Petri Galatini, in Antonianum, I (1926), pp. 145-179, 327-359; A. De Fabrizio, P. Galatino, in Ann. del Liceo Pietro Galatino…, 1929-30, 1930-31, pp. 45-65; G. Gabrieli, Studi orientali in Puglia, in Japigia, II (1931), p. 361; L. Wadding, Annales Minorum XVI, Quaracchi 1933, pp. 516 s.; B. Perrone, Il "De repubblica christiana, nel pensiero filos. e politico di P. Galatino, in Studi di storia pugliese in on. di G. Chiarelli, II, Galatina 1973, pp. 499-633.

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