PIETRO di Lucedio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 83 (2015)

PIETRO di Lucedio

Maria Pia Alberzoni

PIETRO di Lucedio (Pietro di Magnano). – Appartenente a una famiglia della feudalità vescovile vercellese (cfr. nel 1185 «Obertus de Magnano, frater predicti abatis»), nacque forse tra il 1140 e il 1150.

Dopo essersi formato forse presso la cattedrale di Vercelli, entrò nel monastero cistercense di S. Maria di Lucedio (presso Trino, nel Vercellese), ma già nel gennaio 1180 divenne abate della comunità di S. Giovanni di Rivalta Scrivia (fondata da un dominus Ascherius) in diocesi di Tortona, che divenne allora un’abbazia cistercense soggetta a Lucedio e alla Chiesa di Tortona. Ciò in forza di un accordo tra i canonici tortonesi e l’abate di Lucedio Fulco, e in esecuzione di un precedente (1175?) atto stipulato con l’avallo del cardinale legato Guglielmo da Pavia (o da Marengo). Il suo abbaziato a Rivalta fu breve (1180-1184/1185), ma incisivo, soprattutto sul piano del consolidamento patrimoniale costituendo i nuclei-base delle future grange di Goide, Isello (sulla sinistra della Scrivia) e Bassignana. Nel 1185 egli tornò a Lucedio nelle vesti di abate, impostando subito una politica di rafforzamento istituzionale e patrimoniale.

La strategia dei privilegi si indirizzò ai papi (Urbano III, protezione e conferma, 11 gennaio1186; Clemente III, maggio 1188; Celestino III, 1192) e a Federico I (diploma del 14 febbraio 1186), ma anche alle autorità territoriali, come i vescovi di Torino Milone (esenzione dai pedaggi di Rivoli, aprile 1186) e Arduino (febbraio 1192, ancora a proposito di Rivoli). Il consolidamento patrimoniale e fondiario puntò all’organizzazione delle grange di Montarolo e Leri (1186), Ramazzana, Pobietto, Cornale e Gazzo, tutte nel Vercellese, e alla conferma di beni contesi dal monastero di S. Genuario (1195).

Le sue doti di governo, unitamente ai buoni rapporti con il vescovo vercellese Alberto, ne fecero un esponente di spicco tra gli ecclesiastici padani, come testimonia il fatto che egli svolse – in particolare nell’ultimo decennio del XII secolo – un’intensa attività di giudice delegato papale per la soluzione di cause giudiziarie tra enti ecclesiastici appellatisi alla Sede apostolica. Negli anni Novanta, tre sono gli episodi significativi, il primo regnante Clemente III, i successivi durante il pontificato di Celestino III. Il 20 luglio 1191 Alberto e Pietro sentenziarono a favore della cattedrale genovese di S. Lorenzo, contro la chiesa di S. Maria di Castello; tra il 1195 e il 1198 fu la volta della canonica di Oulx, che ottenne ragione contro il monastero di S. Giusto di Susa; nel 1196 vescovo e abate furono incaricati di dirimere un contrasto (risoltosi poi nel 1201) fra l’arcivescovo genovese Bonifacio e il capitolo. Nel 1196 Alberto e Pietro furono inoltre presenti a Mortara, alla sentenza di un giudice imperiale.

Non minore fu il suo impegno nel primo triennio del pontificato di Innocenzo III, con il quale fu in piena sintonia. In primo luogo, il papa lo considerò, con Alberto di Vercelli, un punto di riferimento per le questioni relative alla riforma della vita regolare nella regione padana: a loro furono rinviati (fine 1200-inizio 1201) i rappresentanti degli umiliati, recatisi presso la Curia romana per ottenere l’approvazione del loro propositum vitae; la stesura che ne derivò fu approvata nel 1201. Ma già in precedenza Innocenzo III si era servito di Pietro per una lunga serie di arbitrati.

Tra settembre 1198 e luglio 1199 rivide le sentenze dei vescovi di Bobbio e di Lodi nella causa tra le Chiese di Pavia e Piacenza per le decime di Port’Albera; ma ancor più importante fu l’incarico (27 aprile 1199) di comporre (d’intesa con i vescovi lombardi) il contrasto tra Piacenza e Parma per il controllo di Borgo S. Donnino (Fidenza), cui seguì a breve (maggio 1199) un arbitrato (con Alberto da Vercelli) tra monaci e canonici di S. Ambrogio di Milano, l’incarico (novembre-dicembre 1199, con l’abate di S. Salvatore di Pavia) di visitare il monastero di Bobbio, un arbitrato (1200, con l’abate di Chiaravalle della Colomba) relativo a una mansio presso Tortona contesa tra vescovo di Tortona e umiliati da un lato e templari dall’altro, e infine (1201) un arbitrato tra Fruttuaria e la sua dipendenza di S. Gemolo di Ganna.

Nella primavera del 1201 si aprì per Pietro una nuova stagione segnata dalla crociata al seguito di Bonifacio di Monferrato, nell’estate di quell’anno designato a capo della spedizione in Oriente. L’abbazia di Lucedio era legata fin dalla fondazione al ramo cosiddetto oddoniano degli Aleramici, di cui Bonifacio era esponente. Stretti furono pertanto i rapporti personali tra i due: nel febbraio 1193 il marchese donò il grande bosco circostante l’abbazia, probabilmente come pegno in cambio di denaro, un fatto che spiega una sanzione comminata a Pietro dal capitolo generale cistercense; nel gennaio 1194 l’abate era a Moncalvo dove Bonifacio fece testamento assegnando a Lucedio due braide e i mulini di Trino. Tra il 1201 e il 1202, Pietro peregrinò con il marchese tra Francia e Italia per la lunga fase preparatoria della spedizione: a Soissons (estate 1201) ove Bonifacio prese la croce, a Cîteaux (settembre 1201) per il capitolo che lo autorizzò alla partenza, a Lucedio e Vercelli per confermare le donazioni (maggio-luglio 1202), a Venezia e in Curia (per le questioni legate alla deviazione dei crociati a Zara, richiesta dal doge ed effettivamente eseguita nonostante la lettera papale di cui Pietro fu latore). Giunto a Costantinopoli nel giugno 1203, nei due anni successivi fu costantemente al fianco di Bonifacio e profondamente coinvolto nelle deludenti vicende della quarta crociata.

Il nuovo imperatore Alessio IV, in una lettera al papa, lodò Pietro come zelante ecclesiastico che con altri lo avevano indotto ad avvicinarsi alla chiesa di Roma (25 agosto 1203). Dopo l’uccisione di Alessio IV e il fallimento dell’elezione a imperatore di Bonifacio, Pietro partecipò all’elezione di Baldovino di Fiandra (9 maggio 1204), imposta dai veneziani dopo la sanguinosa conquista della città. Pietro seguì poi Bonifacio, impegnato nella conquista di Salonicco, almeno fino al marzo 1205, quando Innocenzo III lo incaricò di mediare il conflitto tra Leone, re di Armenia, e Boemondo di Tripoli per il controllo del principato di Antiochia. Egli inoltre, con il cardinale legato Soffredo di S. Prassede, convinse Maria, vedova di Alessio II e poi moglie di Bonifacio (1204), a convertirsi al cattolicesimo romano.

Pietro rientrò in Occidente nel 1205 a seguito dell’elezione ad abate di La Ferté, l’abbazia borgognona ‘madre’ di Lucedio e, con Cîteaux, una delle abbazie madri dell’Ordine cistercense. Fu una breve parentesi, giacché nel febbraio-marzo 1206 fu eletto vescovo di Ivrea e, lasciato il cenobio, si recò nella sua nuova sede. Ma – momento di debolezza sorprendente, per un uomo che ne aveva viste di tutti i colori – constatata la drammatica situazione economica della Chiesa eporediese fuggì frettolosamente senza informare il Capitolo, e solo una lettera di Innocenzo III (21 ottobre) lo dissuase dall’intenzione di rifugiarsi vita natural durante in un eremo. Pietro obbedì, tornò a Ivrea, fu consacrato tra il 30 dicembre 1206 e l’11 marzo 1207, e fu nuovamente operativo nelle due vesti di vescovo e delegato papale.

Sul fronte interno, arbitrò questioni di pedaggio tra i Biandrate e il Comune di Ivrea, ben tutelando anche gli interessi della sua Chiesa, e indirettamente quelli di Lucedio (cui il conte di Biandrate concesse esenzioni). Sul fronte esterno, il papa lo inserì (primavera 1207) tra i visitatores et provisores Lombardie delegati a procedere alla riforma del clero e delle Chiese dell’Italia settentrionale, e gli assegnò la consueta raffica di incarichi. Con Lotario di Vercelli (il successore di Alberto, eletto nel 1205 patriarca di Gerusalemme) e con Gerardo da Sesso, abate di Tiglieto, si recò a Piacenza per eseguire le sanzioni comminate dal papa ai consoli (che avevano cacciato il vescovo Crimerio, insolvente verso il Comune); vi tornò poi nel 1208 per agire questa volta contro il vescovo, rientrato in città e cedevole alle richieste del Comune, dapprima inquisendolo e successivamente (novembre 1208), ancora con il da Sesso e con l’arcivescovo di Milano) sollevandolo dall’incarico. Prima del marzo 1208 con Lotario di Vercelli e Gerardo di Tiglieto si era recato ad Albenga, per verificare alcune gravi accuse nei confronti del vescovo Oberto; aveva visitato insieme con il prete Alberto di Mantova il monastero di S. Stefano de Cornu in diocesi di Lodi e a Pavia aveva contrastato la politica antiecclesiastica di quel Comune. Il rifiuto dell’impegnativo incarico di metropolita di Salonicco, che Innocenzo III gli aveva assegnato nel giugno 1208, non incrinò i rapporti col papa e nel dicembre 1208 fu designato con Sicardo di Cremona e con l’abate di Tiglieto a predicare la crociata nell’Italia padana.

L’ultima tappa dell’intensa vita di Pietro – ormai ultrasessantenne – fu ancora una conseguenza dei legami antichi della giovinezza e un’ultetiore prova di obbedienza nei confronti del papa. All’inizio del 1209 morì il patriarca di Antiochia Pietro (I), imprigionato dal conte di Tripoli, e il papa incaricò Alberto, l’antico sodale vercellese di Pietro, ora patriarca di Gerusalemme e suo legato, di far eleggere dal Capitolo un degno successore. La scelta di Pietro, assai probabilmente favorita dall’amico Alberto, fu approvata dal papa che lo traslò da Ivrea ad Antiochia, informandone il 5 marzo 1209 il patriarca di Gerusalemme. Sistemate le cose a Ivrea (donando al Capitolo alcune decime), Pietro partì nel maggio-giugno del 1209, dopo una sosta a Roma (dove ricevette una serie di lettere per il Capitolo antiocheno, i vescovi, gli abati e il clero della provincia, i milites della roccaforte di Qusair). Come ebbe a scrivere qualche anno dopo Innocenzo III (PL 216, col. 697), «non ti indussero ad assumere il governo della Chiesa di Antiochia né la prospettiva di un vantaggio temporale, né l’ambizione della dignità patriarcale, ma l’amore (charitas) e la virtù dell’obbedienza, lo zelo e la devozione del nome cristiano, desiderando tu essere utile piuttosto che comandare».

Il principato di Antiochia era allora conteso tra Boemondo di Tripoli, che lo controllava di fatto, e il re di Armenia, Leone, che rivendicava su di esso diritti legittimi; il progetto (agosto 1210) di un arbitrato tra loro, che con i due patriarchi di Antiochia e di Gerusalemme avrebbe dovuto essere gestito da Sicardo di Cremona, fallì perché costui non si recò in Oriente. Pietro si trovò dunque in una posizione difficile, e si appoggiò al sultano di Aleppo (cui Innocenzo III il 7 giugno 1211 scrisse raccomandandogli Pietro), a sua volta nemico del re di Armenia. Quest’ultimo, oltre a non rispettare una tregua che aveva giurata, fece addirittura eleggere un patriarca a lui favorevole (deposto da Alberto di Gerusalemme per ordine del papa, che nell’occasione scrisse a Pietro una lettera dai toni accorati, esortandolo alla fede). Ancora il 26 settembre 1212 Innocenzo III ribadì a Pietro la piena fiducia nel suo operato e affidò proprio a lui (ma coinvolgendo anche Alberto) la soluzione di una controversia con un canonico del Capitolo della cattedrale di Antiochia, nipote del precedente patriarca.

Dopo il 1213 non si hanno più notizie di interventi di Pietro ad Antiochia o nella regione circostante; anziano e forse malato, non poté prendere parte al IV Concilio lateranense, dove fu rappresentato da un suffraganeo. La data di morte è indicata al 2 settembre nel necrologio del monastero di Lucedio; poiché il 31 agosto 1217 Onorio III annullò l’elezione del cardinale legato Pelagio d’Albano a patriarca di Antiochia e ingiunse al Capitolo di procedere a una nuova elezione, la data di morte di Pietro potrebbe essere il 2 settembre 1216.

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