GUALA, Pietro Francesco

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 60 (2003)

GUALA, Pietro Francesco

Francesco Sorce

Nacque a Casale Monferrato il 15 sett. 1698, da Lorenzo e Barbara Favro (Carità, p. 13). Con ogni probabilità il G. fu avviato alla pittura presso la bottega paterna.

Lorenzo è infatti menzionato con la qualifica di pittore nel documento che ne attesta la morte (Martinotti, 1994, p. 270). La sua attività artistica, a lungo rimasta nell'ombra, è stata ridefinita, seppur sommariamente, grazie ad alcune acquisizioni documentarie (Soffiantino, 1999, pp. 43 s.).

Il padre dovette rappresentare il tramite con la locale tradizione figurativa seicentesca, come lascerebbe supporre la prima produzione del G. informata su paradigmi essenzialmente desunti dalla cultura del secolo precedente.

Le indagini più recenti sul contesto casalese, accanto all'impostazione formale riferibile alla tradizione monferrina, hanno evidenziato una componente stilistica ligure e in particolare una forte influenza lombarda, cromatica e compositiva, nella produzione del G. datata alla prima metà degli anni Venti: un'influenza elaborata sull'esempio delle molte opere di artisti provenienti dalla regione limitrofa e attivi in Piemonte nel Seicento (Federico Bianchi, Giovanni Peruzzini, Andrea Porta, Francesco Cairo, Carlo Preda), il cui recupero critico ha contribuito a sostenere la prospettiva che colloca l'apprendistato del G. entro l'ambiente culturale della sua città (Viale Ferrero; Soffiantino, 1999), dopo che Roberto Carità aveva ipotizzato una formazione errabonda lontana dai luoghi d'origine.

I caratteri della produzione giovanile risultano evidenti nella prima opera certa, raffigurante la Scala di Giacobbe, firmata e datata 1722, che il G. realizzò, su commissione della famiglia Fassati, insieme con altri tre dipinti con Storie di s. Michele Arcangelo, per l'oratorio di S. Sebastiano presso la chiesa di S. Michele a Balzola; nella Disfatta degli Albigesi, eseguita nel 1724 per la chiesa casalese di S. Domenico, primo incarico di un certo rilievo nella propria città; e nell'Angelo custode dell'anno successivo, realizzato per la parrocchiale di Rosignano Monferrato, ora in deposito presso il seminario di Casale.

In merito alla formazione del G. è stata ridimensionata l'importanza accordata per lungo tempo dalla critica a un suo presunto viaggio bolognese, variamente collocato nel corso del terzo decennio (dopo il 1725 e prima del 1730, secondo Soffiantino, 1999, p. 45). Il soggiorno in Emilia non è in effetti comprovato su base documentaria e risulta attestato dal solo De Conti (p. 50), secondo cui, senza precisare alcuna data, il pittore sarebbe stato a Bologna "allievo del Vicentini"; ma già M. Viale Ferrero (p. 170) considerava problematica l'identificazione di quest'ultimo con il prospettico, incisore e architetto Antonio Vicentini. D'altra parte, una conferma indiretta del supposto aggiornamento bolognese è venuta dai riscontri, più volte messi in luce nell'evoluzione stilistica del G. durante gli anni Venti, degli echi della pittura di Giuseppe Maria Crespi. Tuttavia, nonostante sia stata congetturata una "conoscenza diretta" (Tonani, p. 77) e addirittura una "frequentazione" (Testori, p. 28) di Crespi, non c'è alcuna evidenza documentaria che legittimi l'ipotesi. I riferimenti stilistici bolognesi, del resto, come notavano Silvia e Sergio Martinotti già nel 1976 (p. 4), potrebbero imputarsi, in una certa misura, a ridipinture di restauro operate nell'Ottocento, nel tentativo di collocare storicamente, riconducendola a una scuola nota e celebrata, la produzione di un pittore privo di una solida fortuna critica tra il XVIII e il XIX secolo.

Tra la fine degli anni Venti e l'inizio del decennio successivo, il G. iniziò a elaborare uno stile autonomo rispetto ai modelli della tradizione seicentesca, attraverso un progressivo schiarimento del registro cromatico e l'adozione di un sistema di rappresentazione delle fisionomie e dei panneggi, con pieghe ampie e gonfie, che costituirà una vera e propria cifra stilistica della maniera matura.

Collocabili in questo periodo di intensa sperimentazione formale sono da considerare le tele, tutte realizzate tra il 1730 e il 1731, raffiguranti le Ss. Lucia, Apollonia e Agata nella chiesa dell'Assunta di Cuccaro, S. Sebastiano e s. Rocco in S. Maria a Pontestura e la Madonna col Bambinoe sette vergini in S. Agata ancora a Pontestura.

Al 1731 risale anche Il martirio e la gloria di s. Fedele di Sigmaringen, firmato e datato, nella chiesa dei cappuccini di Voltri presso Genova.

Il dipinto è stato spesso ritenuto prova di un viaggio del G. in Liguria nel periodo immediatamente precedente l'esecuzione dell'opera. Tuttavia la tela potrebbe essere giunta a Voltri "attraverso i canali dell'ordine religioso dei cappuccini" (Soffiantino, 1999, p. 46): del resto, già Castelnovi (p. 330) aveva sottolineato come la sua collocazione non fosse da considerare testimonianza di una effettiva presenza del pittore nella regione.

Nel 1732 il G. iniziò, con una tela raffigurante S. Michele, la decorazione della chiesa parrocchiale di Ticineto, protrattasi fino al 1739 e comprendente molti dipinti, ben documentati, con figure di santi.

Egli partecipò all'impresa di Ticineto collaborando con diversi artigiani decoratori e artisti, tra cui quel Giovanni Domenico Silvino ricordato (De Conti) come allievo del Vicentini insieme con il G. durante il presunto soggiorno bolognese. Proprio la frequentazione di uno dei tanti cantieri itineranti, veicoli della diffusione delle caratteristiche tipologie di arredo settecentesco, costituì nella produzione matura del G. una suggestione essenziale per l'adozione di un carattere squisitamente decorativo e rococò (Testori, p. 30).

Il 4 sett. 1734 gli venne pagato il S. Bartolomeo battezza i reali di Armenia, dipinto per la chiesa di Trino intitolata al santo. La presenza dell'arcangelo Michele, patrono della città e lo stemma della Comunità di Trino sono, con buona probabilità, indici del carattere pubblico del dipinto, ed evidenziano l'importanza della commissione (Galante Garrone).

L'opera, per la matura articolazione delle strutture compositive e l'uso di brillanti accordi cromatici, tipico di buona parte della produzione successiva, costituisce un punto di svolta nella carriera del G., ponendosi in un certo senso quale sintesi conclusiva di quel processo di elaborazione stilistica iniziato un decennio prima, che si era caratterizzato per la notevole disponibilità a rielaborare i modelli più disparati.

Nel periodo che si protrae fino alla metà del quinto decennio il G. ricevette diverse altre commissioni per le chiese di Trino, tra le quali l'incarico di dipingere la cappella del Beato Oglerio (1735: Liberazione delle anime del Purgatorio), ancora nella chiesa di S. Bartolomeo, completamente ridipinta, pur nel rispetto dello schema originario, all'inizio del Novecento.

In concomitanza con l'esperienza trinese il G. iniziò a lavorare per Giovanni Battista Sannazzaro, conte di Giarole Monferrato, che fu provveditore (1725) e sindaco (1740) di Casale. Tra il 1735 e il 1736 affrescò il soffitto della grande sala al piano nobile del suo palazzo casalese, rappresentando un'allegoria il cui significato, forse legato al matrimonio tra Giovanni Battista Sannazzaro e Maria Lucrezia dei conti Bellone (Perin, p. 116), rimane non ancora decifrato in modo esaustivo dalla critica e indicato genericamente come Omaggio alle arti. L'affresco fu eseguito insieme con il quadraturista Giovanni Battista Natali, e pagato il 14 maggio del 1736.

Il 14 febbr. 1737 gli fu anche saldato il pagamento di quattro dipinti (Minerva e Marte, La regina di Saba, Figura con angelo, Sansone e Dalila) verosimilmente identificabili con sovrapporte per una sala al primo piano del palazzo, ora in collezione privata genovese; si tratta di opere stilisticamente assai prossime, e forse vicine cronologicamente, alle sovrapporte con scene mitologiche (anch'esse in collezione privata), realizzate per il castello di famiglia a Giarole (Martinotti, 1994, pp. 238, 271).

Nello stesso anno il G. eseguì il Ritratto del conte Filippo Sannazzaro, collocato nel castello di Giarole. Questa tela segnò l'inizio della sua celebrata attività di ritrattista, che gli valse la stima già di Lanzi, nonché della letteratura moderna che, quasi all'unanimità, tende a considerare i ritratti l'esito migliore della sua carriera.

Ricercato da nobili e notabili casalesi, che apprezzavano il carattere ufficiale delle tipologie compositive desunte dalla grande tradizione ritrattistica seicentesca, soprattutto genovese, ma aggiornate su modelli veneti contemporanei, il G. fu al servizio anche di una "classe media", per la quale realizzò immagini improntate a una vena figurativa realistica, che riprendeva elementi di Tanzio da Varallo (Antonio D'Enrico) e del Cerano (Giovanni Battista Crespi), dei casalesi Niccolò Musso e Raviglione, fino a Fra Galgario (Vittore Ghislandi), dimostrando ancora una volta, nella duttilità del proprio stile, di saper guardare e rielaborare modelli assai differenti.

La fama presto acquisita come ritrattista lo condusse a lavorare per circa un decennio, a partire dal 1738, per la famiglia Scarampi. Il conte Paolo fu con ogni probabilità responsabile della commissione della grande galleria di antenati ritratti dal G. nel salone centrale del castello di Camino Monferrato, secondo un chiaro programma di celebrazione dinastica.

Tra il 1738 e l'anno successivo il G. realizzò l'affresco della volta (Assunzione della Vergine e, nel cupolino, La Trinità) del santuario di Vallinotto, presso Carignano, e una Visitazione per l'altare maggiore, partecipando all'impresa decorativa voluta dal banchiere Antonio Faccio e coordinata dall'architetto Bernardo Vittone.

Legato alla medesima committenza, all'inizio degli anni Quaranta dipinse quattro tele raffiguranti Storie della Vergine per la chiesa di Robaronzino a Devesi, frazione di Ciriè, presso la tenuta dello stesso banchiere.

L'impegno assunto dal G. si concluse dopo la morte di Antonio Faccio, per il tramite del suo esecutore testamentario, con l'esecuzione di una Presentazione di Gesù al tempio, intorno al 1742, per l'altare della cappella dell'ospizio di Carità di Carignano, realizzata da Vittone.

Sono probabilmente da ricondurre a questi anni anche le sovrapporte con scene tratte dalla Gerusalemme liberata (Asti, Pinacoteca civica) e quelle eseguite per la sacrestia del santuario della Consolata a Torino (Visione del profeta Malachia e S. Giuliana in adorazione del Sacramento), le quali ultime testimoniano come il successo del G. avesse raggiunto la capitale del Regno sabaudo, dimostrando il suo uniformarsi alla cultura figurativa di matrice internazionale che caratterizzava l'ambiente artistico torinese.

Durante il quinto decennio è ben documentata la sua attività a Vercelli, dove lavorò, oltre che in S. Caterina (Consegna delle chiavi e Predicazione del Battista) e in S. Spirito (Storie di s. Gregorio e Transito di Giuseppe, 1743; Angeli adoranti lo Spirito Santo, affresco sulla volta della sacrestia), anche nell'ambito delle opere di completamento della fabbrica del duomo promosse dal vescovo Giovanni Solaro di Villanova e dall'arcidiacono Giuseppe Maria Langosco di Stoppiana (Astrua, p. 59), realizzando, verso la fine degli anni Quaranta, uno dei suoi capolavori, il Miracolo della sorgente di s. Guglielmo di Vercelli.

Con ogni probabilità tra il 1742 e il 1747 dipinse il S. Carlo Borromeoe l'Immacolata, nella chiesa di S. Giovanni Battista a Costa, frazione di Cumiana.

L'opera, che presenta i tratti della produzione matura nella stesura di ampie campiture il cui accostamento rende un forte effetto contrastivo, fu voluta da Carlo Canalis, cugino di Ludovico Canalis governatore di Casale dal 1739: il legame indiretto con l'ambiente culturale della città di origine del G. ne spiegherebbe la presenza in un piccolo centro nel periodo di massimo successo "internazionale".

Analoghi effetti luministici si riscontrano nel celebrato Ritratto di gruppo dei canonici di Lu, realizzato per la collegiata di S. Maria di Lu Monferrato nel 1748 e attualmente in deposito presso il Museo civico di Casale. Esposto alla mostra fiorentina del 1911 sul ritratto, costituì il primo significativo recupero critico e storiografico della produzione del Guala.

La fine del decennio vide il G. impegnato in un altro cantiere coordinato da Vittone, la chiesa di S. Maria di Piazza a Torino, per cui dipinse, dopo il 1748, una Assunzione di Maria.

Secondo una datazione comunemente accettata, essenzialmente per ragioni di analisi stilistica, tra il 1750 e il 1755 il G. si dedicò ad affrescare alcune importanti dimore casalesi.

Nel palazzo Gozzani di San Giorgio dipinse la volta della camera al piano nobile insieme con un quadraturista, plausibilmente identificabile con Giovanni Antonio Bettini, rappresentando Bacco e Arianna accolti in cielo da Venere e Amore, forse in occasione delle nozze tra Gian Battista Gozzani e Beatrice Bergera di Cly, avvenute nel 1755 (Soffiantino, 1999, pp. 55, 78 n. 223). Assai vicini, sia per il soggetto (Nozze di Bacco e Arianna), sia per lo stile, caratterizzato da accordi cromatici estremamente luminosi, appaiono gli affreschi in palazzo Morelli, eseguiti con ogni probabilità nello stesso periodo. L'attività di frescante lo impegnò nella realizzazione di un'altra opera, il cui soggetto non è pacifico (forse un'Allegoria della Gloria), per la volta dello scalone del palazzo Gozzani di Treville, inquadrata dalle scenografiche architetture attribuite anche in questo caso a Bettini.

Tra la fine del 1753 e l'inizio dell'anno successivo il G. tornò a lavorare nella chiesa di S. Domenico a Casale, dipingendo due miracoli del fondatore dell'Ordine.

Le enormi tele, collocate nel presbiterio, rappresentano S. Domenico confonde gli Albigesi col miracolo del libro e S. Domenico risuscita il nipote del cardinale di Fossanova, e si caratterizzano, specie in confronto con la Disfatta degli Albigesi, per il meditato equilibrio con il quale viene articolato lo spettacolare movimento di folla.

Tra il 1755 e il 1756 il G. eseguì le ultime opere per Casale. Si tratta di ventidue ovali con figure di Apostoli e Profeti, realizzati su commissione del preposto Francesco Maria Chiodo per la chiesa di S. Stefano, diciannove dei quali sono ancora conservati in loco, mentre i tre restanti si trovano nel Museo civico.

Prima ancora che gli ovali fossero definitivamente sistemati in S. Stefano (1757) il G. si era trasferito nel 1756 a Milano (Caprara, pp. 91 s.). Ospite del collegio di S. Francesco di Paola dipinse, nell'ultimo anno di vita, un Cristo coronato di spine, un'Orazione nell'orto, un ovale con un profeta e l'affresco raffigurante l'Ascensione nella volta della sacrestia.

Il 27 febbr. 1757 il G. morì a Milano, pochi giorni dopo aver fatto testamento (Martinotti, 1994, p. 273).

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