GERMI, Pietro

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 53 (2000)

GERMI, Pietro

Alessandra Cimmino

Nacque a Genova il 14 sett. 1914 da Giovanni, portiere di albergo, e da Armellina Castiglione, di modestissima estrazione sociale. Nonostante il padre fosse morto prematuramente nel 1924, le tre sorelle maggiori del G., sarte di successo, molto conosciute in ambito cittadino, avevano garantito alla famiglia un borghese benessere. Il G. frequentò le scuole medie quindi, nel 1931, si iscrisse all'istituto nautico, partecipando, nel corso del terzo anno, a una crociera nel Mediterraneo che faceva parte del programma scolastico; ma, giunto a Bari, dopo aver toccato fra l'altro la Spagna, rientrò a Genova abbandonando la nave e gli studi che non completò mai.

Aveva comunque già dato prova di notevoli interessi culturali, che continuò a coltivare da autodidatta (tra l'altro leggeva bene in inglese e francese e conosceva anche il russo), oltreché di un carattere schivo, chiuso, insieme timido e aggressivo, che lo tormentò per tutta la vita fino a raggiungere punte di vera e propria nevrosi; forse fu proprio nel tentativo di superare questi lati difficili della sua natura che il G., spettatore assiduo di cinema fin da giovanissimo, si avvicinò più concretamente al mondo dello spettacolo.

Tra il 1933 e il 1935 fece parte di una piccola filodrammatica di un teatro di S. Maria di Castello e instaurò con il cinema un rapporto ancora più stretto, che oggi definiremmo da "cinefilo" puro, in quanto non nasceva dalla contiguità o da contatti diretti con l'ambiente del cinema ovvero come evoluzione di più generici interessi intellettuali, ma da una intensa e quasi maniacale frequentazione delle sale cinematografiche (vide 19 volte A' nous la liberté di R. Clair e 16 volte Il traditore di J. Ford).

Negli anni che precedono il suo trasferimento a Roma il G. si impiegò come spedizioniere, trascorse circa un anno a Milano in quasi totale isolamento e cominciò anche a scrivere. Il 27 genn. 1935 il quotidiano genovese Il Lavoro gli pubblicò il racconto Un rimorso, interessante, oltre che per le non trascurabili qualità letterarie, in quanto teorizza la finzione e il camuffamento come mezzi atti a risolvere i propri problemi caratteriali, in particolare la timidezza. Ormai deciso a lavorare nel mondo del cinema scrisse una primo soggetto, pubblicato dalla rivista Cinema di Milano, quindi un secondo (la storia dell'infelice approccio di un timido nei confronti di una ragazza abbordata invece da un corteggiatore più intraprendente, ambientato in riva al mare al suono di un organetto) che inviò alla preselezione dei Gruppi universitari fascisti (GUF) di Genova per le candidature di ammissione al Centro sperimentale di cinematografia di Roma. Inizialmente respinta, in quanto il candidato mancava di alcuni dei requisiti richiesti - fra l'altro il possesso di un titolo di scuola superiore -, la domanda del G. fu poi accolta, anche grazie a un escamotage, suggerito, pare, da A. Blasetti: il G. sarebbe stato accettato ai corsi per gli attori, per cui non era necessario il diploma, ma di fatto avrebbe potuto frequentare quelli di regia.

Nei tre anni che trascorse al Centro il G. non si distinse in maniera particolare (seguì l'iter abituale della scuola realizzando una breve esercitazione a contenuto narrativo: un film di 70 mm, di tono farsesco, ambientato in un manicomio; collaborando con un collega, il futuro produttore D. De Laurentiis, al cortometraggio Pantaloni corti; e fungendo, l'ultimo anno, il 1939, da assistente e sceneggiatore di Blasetti per Retroscena, e, sempre lo stesso anno, solo come assistente di A. Palermi per La peccatrice), ma si guadagnò, comunque, la fama di allievo promettente, pur se il cattivo carattere, che si esternava anche in manifestazioni di accentuata sfrontatezza, lo mise in urto, in più di un'occasione, con alcuni insegnanti.

Nel 1940 sposò la genovese Anna Maria Bancio, che si stabilì con lui a Roma. Ottenne quindi il diploma e, nel 1941, apparve per la prima volta come attore, poco più di una breve comparsata, in La corona di ferro di Blasetti. Scoppiata la guerra si ammalò di una grave forma di pleurite e, contemporaneamente, venne richiamato alle armi; nascosto dalla moglie, fu costretto, per un lungo periodo, a cambiare continuamente domicilio. Nel 1943 riprese a lavorare e fu assistente, per due film di avventure, Il figlio del corsaro rosso e I filibustieri, di M. Elter, con cui finì per litigare, quindi ancora di Blasetti, per Nessuno torna indietro; ma intanto, nel periodo della malattia, aveva scritto il suo primo vero soggetto, Il testimone, che suscitò l'interesse della casa di produzione Orbis, di ispirazione cattolica. Poiché il G. si rifiutava di cedere il soggetto se non gliene fosse stata affidata la regia, la produzione, dopo essersi tutelata pretendendo la supervisione di Blasetti e il più sperimentato M. Monicelli come aiuto, finì per accettare la sua direzione.

Il film, girato sul finire del 1945, uscì nelle sale nel febbraio del 1946, e può sembrare banale ricordare che sono questi gli anni di Roma città aperta, Sciuscià, Paisà; senza voler azzardare paralleli né confronti, può essere tuttavia utile sottolineare come, da una stessa temperie storica e morale e, soprattutto, da un temperamento profondamente e sinceramente sensibile alla realtà sociale e politica, quale sicuramente fu quello del G., sortisca un approccio al mezzo cinematografico tanto diverso. Infatti, fin da questo primo episodio, appare evidente come suo interesse primario non sia quello di descrivere la realtà nell'immediatezza e nella discontinuità del suo divenire, quanto piuttosto quello di raccontare una storia, che non menta, che non divaghi, ma che tuttavia sia organizzata in base a una struttura interna ben costruita, da svolgersi secondo regole definite, inerenti a un mezzo ormai dotato di tradizione ed esperienza come il cinema.

Il G., dunque, scelse di raccontare la sua storia (un uomo viene accusato di una rapina in base a una testimonianza, confutata la quale ottiene il proscioglimento dal tribunale ma, dato che è colpevole, non dalla sua coscienza, sicché nonostante il testimone muoia, finisce per denunciarsi volontariamente alla giustizia) usando il linguaggio di due diversi e ben definiti generi cinematografici, il giallo giudiziario e il melodramma, e dimostrando, nell'applicare soluzioni già codificate senza mai perdere né il filo del racconto né il controllo dello sviluppo drammatico, una maestria che colpì la critica e gli addetti ai lavori, data la giovane età e la scarsa esperienza (il film ottenne il Nastro d'argento per il miglior soggetto), anche se non riportò un gran successo di pubblico.

Nella sua opera seconda il G. inaugurò la collaborazione con la Lux di R. Gualino, che produsse tutti i suoi film successivi fino al 1950, con Gioventù perduta (1947), in cui riprendeva in maniera ancora più esplicita un classico schema hollywoodiano - un detective (M. Girotti) è a caccia di una banda di rapinatori, il cui capo è un insospettabile "bravo ragazzo" di estrazione borghese (J. Sernas che ebbe un Nastro d'argento come miglior attore straniero) della cui sorella il poliziotto si innamora -, inserendolo però saldamente nell'attualità attraverso il tema della crisi esistenziale di una gioventù appena uscita dal trauma della guerra, e sfoggiando capacità sempre più raffinate di utilizzazione dei mezzi tecnici (contrasto di chiaroscuri in funzione di una simbolizzazione drammatica delle immagini, rispetto dell'unità di sequenza, equilibrio interno dell'inquadratura) finalizzate a un'osservazione concreta e diretta della realtà italiana.

Ma il vero salto di qualità si ebbe con il film successivo, In nome della Legge, del 1948, su un soggetto di G. Mangione, tratto dal romanzo Piccola pretura del magistrato G.G. Lo Schiavo.

In questa occasione, del gruppo che circonda il G. facevano già parte alcuni nomi che, per periodi più o meno lunghi, lo affiancarono significativamente: F. Fellini e T. Pinelli per la sceneggiatura (insieme con Monicelli e lo stesso G.), i due fedelissimi, L. Barboni, direttore della fotografia, e C. Rustichelli, che seppe interpretare, potenziare e, qualche volta, addirittura suggerire il ritmo interno di tutti i successivi film del G. con le sue indovinatissime colonne sonore; di particolare rilievo fu poi la prestazione di M. Girotti (Nastro d'argento come miglior attore) nel ruolo principale dell'integerrimo pretore, inviato a esercitare le sue funzioni in un piccolo paese della Sicilia. Ma soprattutto affascinò e colpì l'originale approccio del G. il quale affrontava una storia di collusione fra poteri forti e mafia, di soprusi e di miseria, tanto profondamente legata alla realtà italiana, con il linguaggio di un western fordiano, comunicando al paesaggio siciliano, arido e grandioso, alla figura del protagonista, che lo attraversa a cavallo indossando il doppio petto e un cappello a larghe falde, a quelle del viscido latifondista (C. Mastrocinque), del modesto e onesto maresciallo Grifò (S. Urzì, un "carattere" plasmato dalla macchina da presa del G., presente in quasi tutti i suoi film), del protervo capo mafia (C. Vanel), una dimensione epica e simbolica, senza mai permettere che il messaggio morale - la necessità che giustizia prevalga senza di che non è possibile una civile convivenza - sopravanzi o disturbi lo svolgimento narrativo.

L'abilità nell'adeguare una materia totalmente nuova ed estranea al linguaggio dei generi colpì la critica che si divise, però, su posizioni contrapposte, riassunte negli opposti giudizi di L. Chiarini, il quale valutò negativamente il "compromesso tra l'impulso documentario del neorealismo e le convenzioni dello spettacolo cinematografico" (cfr. Sesti, p. 162), e di E. Flaiano, che vide, invece, questo compromesso come un possibile "antidoto alla "follia verista", alla vocazione lirica, alla tendenza al diario intimo verso cui il neorealismo sembra ormai inevitabilmente declinare" (ibid.).

A In nome della Legge seguì Il cammino della speranza (1950).

È l'odissea di un gruppo di diseredati (tra gli altri, R. Vallone e l'esordiente Elena Varzi), ancora una volta siciliani, operai in una zolfara che viene chiusa, i quali, con le loro famiglie, attraversano l'Italia, imbrogliati da chi ha loro proposto un lavoro in Francia, incompresi e spesso disprezzati dalle persone che incontrano nel corso del viaggio, a mostrare e dimostrare - come tanto cinema neorealista - le diversità di usi e costumi, di linguaggio e di abitudini che rendono quasi stranieri gli uni agli altri i cittadini di una stessa nazione; il tutto, però, ancora una volta in chiave di racconto epico e melodrammatico (e si fece di nuovo il nome del Ford di Furore).

In queste due prove, fondamentalmente riuscite e che ottennero un buon successo di pubblico, ma ancor più nel successivo La città si difende (1951) - un ritorno al giallo di ambiente urbano - è, tuttavia, possibile intravedere il nodo irrisolto che portò il G. a vivere un periodo di crisi del suo linguaggio e della sua creatività. E cioè la problematicità, e quasi l'impossibilità, di un adeguamento totale al discorso narrativo codificato, quindi al genere, di un messaggio etico che nasceva nel G. dallo sdegno profondo e sincero di fronte alla sofferenza dell'individuo nel rapporto con una società difficile e ancora profondamente ingiusta. Questo disagio, anche nei film più riusciti, finiva per concretarsi in una sorta di difficoltà a concludere le sue storie secondo gli schemi tradizionali, sicché spesso il compito veniva surrettiziamente affidato alla voce fuori campo - che compare spesso nei lavori del G. - con una sorta di fervorino finale, dal tono vagamente moralistico, sfasato rispetto al procedere del racconto, che comunicava una sensazione di incompiutezza.

La crisi creativa, che corrisponde anche a una crisi esistenziale del G., il quale visse in questi anni la sofferta conclusione del suo primo matrimonio (divorziò nel 1954) da cui era nata la figlia Linda, lo portò a impegnarsi in una serie di pellicole non significative in cui rimangono, comunque, evidenti le sue doti di grande artigiano. E, infatti, "il grande falegname" lo aveva soprannominato Fellini che, nel 1952, insieme con Pinelli, scrisse per il G. un ultimo soggetto di argomento risorgimentale, Il brigante di Tacca del Lupo, da un racconto di R. Bacchelli, un'ulteriore esercitazione sul tema del racconto d'avventure, ma anche una sempre più stanca ripetizione in moduli di raffinata estenuazione estetica, in cui "le coeur il n-y-a plus".

L'aveva preceduto, sempre nel 1952, l'ennesima versione di una pochade di grande successo di M. Hennequin e P. Veber, La presidentessa, con una Silvana Pampanini comunque stupendamente fotografata al culmine della sua morbida bellezza, interessante solo perché mostra con quale abilità il G. sapesse trovare il ritmo indiavolato necessario a sostenere i meccanismi di questo tipo di commedia. Seguì, nel 1953, Gelosia, trasposizione del Marchese di Roccaverdina di L. Capuana, uno dei suoi maggiori flops, bistrattato dalla critica, in cui, però, si può individuare una tale eccessiva forzatura del climax melodrammatico, da toccare involontariamente il suo opposto, e se l'opposto speculare del melodramma, soprattutto in terra italiana, è l'opera buffa, dietro lo sciagurato marchese, roso dalla passione, dalla gelosia e dal rimorso, si riescono a intravedere le esasperate fattezze del barone Fefè Cefalù, futuro eroe di un Divorzio all'italiana ancora tutto da venire.

Dopo un episodio, il secondo, del film a più mani prodotto da C. Infascelli, Amori di mezzo secolo (1953), il G. rimase in silenzio per quasi due anni, cercando una via d'uscita dal vicolo cieco in cui, tuttavia, non era finito da solo, bensì insieme con una gran parte del cinema italiano.

Il problema per lui restava sostanzialmente quello di produrre un cinema "popolare, nazionale e non conformista" che gli permettesse di comunicare a una più vasta platea quanto gli urgeva dentro: non più la dimensione eroica di un popolo che esce da una guerra devastante e deve conoscersi e riconoscersi per ricostruirsi, bensì la dimensione più ristretta, ma forse più profonda, dell'individuo, dell'uomo semplice, spesso inadeguato di fronte alle difficoltà che gli si presentano nei suoi tentativi di vivere con dignità e di costruire un possibile equilibrio con le componenti sociali che abitano la sua esistenza quotidiana: la famiglia, il lavoro, gli amici, il quartiere.

La soluzione il G. la trovò conformemente al suo abituale modo di fare cinema, tentando cioè moduli narrativi diversi, anche se già sperimentati, e senza mai allontanarsi da una forma di racconto solidamente strutturata, e quindi da sceneggiature curate e ben definite (F. Scarpelli, che partecipò ai suoi ultimi film, ha detto di lui "Germi non eseguiva una sceneggiatura, la "celebrava""; cfr. Sesti, p. 15).

Aiutato dall'incontro con lo sceneggiatore A. Giannetti, che divenne uno dei suoi più stretti collaboratori, il G. riuscì a individuare sia storie che si prestassero a questa nuova fase della sua cinematografia sia il genere di riferimento più adatto a questo diverso tipo di racconto: il mélo, ovvero quanto di più vicino al romanzo popolare e ai suoi corposi, sanguigni e comunicativi personaggi sia possibile immaginare; dove però la finzione, l'intreccio esasperatamente drammatico non sono fini a se stessi ma sono invece funzione di un'approfondita analisi della società italiana.

Sostenuti dalla sua presenza di attore, perché il G. volle essere interprete principale di questi suoi film (e si dimostrò ottimo interprete, dotato di forte presenza ma insieme delicato nell'esprimere l'ironia dolce-amara di un sorriso negato dalla malinconia dello sguardo), nacquero storie in cui "il valore dell'essere umano è posto alla più grande altezza" (così il regista O. Ioseliani, cfr. Sesti, p. 197) in diretto e speculare contrasto con la sua stessa miseria.

Le vicende dei Marcocci, il cui capofamiglia, Il ferroviere del titolo (1956, Nastro d'argento per il miglior film, menzione speciale OCIC e il terzo posto nella classifica degli incassi dell'anno) vede sconvolti tutti i valori in cui crede e su cui si poggia la sua semplice vita: la famiglia, la stima e l'affetto dei figli e degli amici, il lavoro, e che uscirà da questa crisi esistenziale, riconciliato con il suo mondo, solo per morire d'infarto. E il più intimo idillio de L'uomo di paglia (1958, scritto con Giannetti, L. Benvenuti, P. De Bernardi, con l'esordiente Franca Bettoja), storia di un tradimento coniugale rientrato, in cui il G. descrive con tenerezza e toccante partecipazione un innamoramento foriero di sofferenza e di morte in quanto scardina il "normale" ma difficilissimo equilibrio della famiglia.

Se il successo di pubblico conseguente a questa svolta fu indubbio, la critica si divise e volarono "accuse" di populismo, di sentimentalismo, di moralismo borghese; di fatto, al di là della polemica sui contenuti, comunque poco significativa e in seguito completamente superata dai tempi, è certo che l'urgenza con cui il G. sollecita in questi due film la partecipazione del pubblico, anzi la sua commozione, la pietà per i suoi personaggi, se per un verso ne testimonia la sincerità dell'ispirazione, la volontà di onesta comunicazione di un messaggio profondamente sentito, per altro talvolta pecca effettivamente per eccesso, mancando di equilibrio e di misura, costituendo, in qualche momento, un limite obiettivo. Questi difetti, per altro marginali in lavori dotati di una tale capacità di robusta e partecipata narrazione, vengono azzerati nei due film successivi, in assoluto fra i migliori del G. e della cinematografia italiana dell'epoca: Un maledetto imbroglio e Divorzio all'italiana.

Il primo nacque come una scommessa, lanciata al produttore Peppino Amato, di ricavare una sceneggiatura plausibile da un libro difficile e particolarissimo, per stile e per linguaggio, quale Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, di C.E. Gadda, uno dei pochi esempi di autentico sperimentalismo letterario di quegli anni. Il G. e i suoi sceneggiatori (E. De Concini e Giannetti) affrontarono la questione more solito, considerandolo, cioè, semplicemente e unicamente un problema di linguaggio cinematografico e, quindi, di possibile riferimento a un genere. Partendo da una trama complicata e priva di conclusione - incentrata su un furto e un delitto che si immaginano avvenuti negli anni del fascismo, a Roma, nel popolare quartiere di via Merulana, su cui indaga una strana figura di poliziotto, il commissario Ingravallo -, costruirono un giallo classico, ambientato nella Roma degli anni Cinquanta, realisticamente e sapientemente ricostruita, dotato di una classica agnizione finale del colpevole, riuscendo, come accade nei polizieschi di grande tradizione sia letteraria sia cinematografica, a raccontare una storia piena di suspense e di pathos (scrisse A. Moravia: "Il film non ha un momento di tregua e fila velocemente da una scena all'altra"), e, insieme, a evocare personaggi autentici, descrivendo trasversalmente una società nel suo complesso. Da Gadda, tuttavia, il G., per via indiretta e quasi inconsapevole, assorbì il carattere paradossale, sarcastico e grottesco che è sicuramente del Pasticciaccio, e che si esprime soprattutto nella figura di Ingravallo, e quindi rifluì nella magistrale recitazione del G. (anche qui protagonista), il quale riesce a padroneggiare, sia come regista sia come interprete, i due coesistenti registri, del comico e del drammatico.

Questa contaminazione di registri si trasforma in grottesco puro nel successivo Divorzio all'italiana (1961), tanto noto da essere oramai proverbiale.

Originariamente pensato come film drammatico, la storia del sicilianissimo barone Cefalù (un M. Mastroianni in una delle vette interpretative della sua carriera) - il quale, innamorato della giovane cugina (Stefania Sandrelli al suo esordio), decide di compiere il delitto perfetto uccidendo la moglie ma per motivi d'onore, il che comporta, in base all'art. 587 dell'allora vigente codice italiano, una pressoché certa assoluzione; ma che, quindi deve trovare il modo di indurre la medesima al tradimento - esprime un'ulteriore evoluzione della poetica del G., libera ormai da ogni tentazione moralistica, nella drammatica, anche se sorridente, convinzione che non c'è salvezza per una realtà sociale in cui il rispetto della legge, si risolve nel suo contrario, vale a dire nella garanzia dell'impunità; e in cui sussistono, dietro un'apparente modernizzazione tutta di superficie, costumi barbari e arcaici, insuperabili tabù, e gli individui si agitano come marionette, mossi non da sentimenti ma da istinti primordiali. La genialità del G. (ebbe l'Oscar per la migliore sceneggiatura, e due nominations per regia e interpretazione maschile; Golden Globe a Mastroianni; premio per il miglior film comico al Festival di Cannes; Nastro d'argento per la sceneggiatura e l'interpretazione maschile) consiste nel dipingere nel modo più comico (se si abbia presente la definizione del comico di V. Brancati: "Una lucida intelligenza fornita di disgusto e di ironia", cfr. Sesti, p. 242), e con un ritmo registico sostenutissimo, pieno di notazioni ambientali, psicologiche e di costume l'una più pungente e profonda dell'altra, un quadro così globalmente amaro in cui niente e nessuno sono oramai degni di pietà.

Al meno riuscito Sedotta e abbandonata (1963, palmarès a Cannes per il migliore interprete a S. Urzì), sempre di ambientazione siciliana, dove l'accentuazione del ritmo è nevroticamente esasperata "fino a un punto di tensione dopo il quale riesce difficile prendere in mano le redini del racconto" (Moravia, cfr. Sesti, p. 247), seguì un altro piccolo capolavoro di scoppiettante comicità, Signore e signori (1965).

Nato da un'idea del trevigiano L. Vincenzoni, è il solo caso in cui la ferrea unità strutturale delle sceneggiature del G. cede a una suddivisione interna per episodi - due più francamente comici ad aprire e chiudere, un terzo, mediano, più disteso e romantico, e dove i protagonisti di ciascuna tranche ricompaiono in ruoli marginali nelle altre -, ma in cui un'unità più profonda è garantita dalla perfetta coerenza del ritratto di una piccola città del Veneto, ricca e "civilissima", in realtà animata, sotto il velo della moderna società dei consumi, dalle stesse primitive pulsioni e organizzata secondo una struttura altrettanto rigida e tribalmente codificata di quella della Sicilia del Divorzio o di Sedotta e abbandonata.

All'epoca poco amato dalla critica (con l'eccezione della giuria del Festival di Cannes che gli concesse il palmarès per il miglior film sia pure ex aequo con Un uomo, una donna di Cl. Lelouch) e accusato di volgarità, l'aggettivo boccaccesco - attribuitogli in negativo - gli può essere invece attribuito nella sua accezione migliore, in quanto l'eleganza stilistica e narrativa del racconto è quella del G. migliore. Nettamente inferiore e stanco il successivo L'immorale del 1966, la storia, forse un po' autobiografica, di un uomo che, per non sapere scegliere fra le tre donne della sua vita, e le tre famiglie che si è creato con ciascuna di loro, finisce per soccombere alla fatica fisica e ne muore.

In seguito capitò al G. - regista di fatto inserito quant'altri mai nell'attualità del sociale e che, per quanto appartato ed esterno a ogni clan o mondanità, come pochi altri aveva bisogno di porsi in relazione dialettica con la società, non fosse altro che per esercitare su di essa, attraverso il film, il suo leggendario sdegno - di perdere il contatto con i tempi o, comunque, di trovarsi a vivere in un mondo, quello del postsessantotto, che non capiva più. Forse solo a questo possono essere imputati la fiaba ecologica di Serafino - che, tuttavia, conserva qualche bella notazione improntata a una libertaria ironia, presenta un uso significativo del colore, impiegato per la seconda volta, e riesce a utilizzare al meglio la maschera di A. Celentano nel ruolo del protagonista, senza neppure tentare di farlo recitare - e il successivo Le castagne sono buone (1970), con un improbabile G. Morandi nel ruolo principale, insostenibile sia nella tematica sia, soprattutto, nella costruzione del linguaggio filmico, laddove il G., precedentemente, non aveva mai fallito.

L'ultimo film (perché ultimo soggetto fu quello di Amici miei, sul tema dell'amicizia come barriera contro la solitudine e la vecchiaia, che il G., già molto ammalato non poté girare e fu poi realizzato da Monicelli) è Alfredo Alfredo (1972).

Fu un felice ritorno al tema dei soggetti, mai realizzati, della sua prima giovinezza, cioè la storia di un timido e dei suoi rapporti con le donne, in cui il G. ritrovò la vivacità del ritmo, la notazione ironica, la capacità di utilizzare al meglio gli attori, in particolare il protagonista D. Hoffman, degni del suo cinema migliore.

Separatosi anche dalla seconda moglie, Olga D'Ajello, che aveva sposato nel 1966 e da cui ebbe tre figli, il G. morì a Roma il 5 dic. 1974, per un aggravarsi della cirrosi epatica di cui soffriva da tempo.

Fonti e Bibl.: La filmografia del G., insieme con un'esaustiva e completa bibliografia relativa a monografie, articoli, saggi, voci di dizionario e recensioni, è raccolta, con varie testimonianze di quanti con lui lavorarono, nel saggio di M. Sesti, Tutto il cinema di P. G., Milano 1997, cui si rimanda.

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