Pietro Giannone: Opere - Introduzione

I Classici Ricciardi: Introduzioni (1971)

Pietro Giannone: Opere – Introduzione

Sergio Bertelli

Tre figure risaltano in modo particolare nel primo Settecento italiano. Uomini della stessa generazione, con non pochi punti di contatto tra loro. Nati negli stessi anni, scomparsi a poca distanza l'uno dall'altro negli anni Cinquanta: Lodovico Antonio Muratori (1676-1750), Scipione Maffei (1675-1755), Pietro Giannone (16761748). Essi attinsero, indipendentemente l'uno dall'altro, alle stesse sorgenti la propria metodologia storica (e Muratori, come Giannone, partì da un'esperienza giuridica, prima di approdare alla ricerca storica). Ciascuno nel proprio ambiente e tutti insieme nel più ampio teatro italiano, svolsero una decisa opera di sprovincializzazione della cultura italiana, inserendola nel dialogo europeo. Ognuno da posizioni proprie e peculiari, ma, in sostanza, con stima reciproca capace di far superare momentanei dissensi tra loro, con un impegno riformatore che andò ben oltre le giovanili posizioni giurisdizionalistiche.

(Come non ricordare, a questo proposito, quella sincera lettera di Lodovico Antonio Muratori a Maffei, col quale s'era trovato in disaccordo - un disaccordo motivato da considerazioni d'opportunità politica - sul problema della magia? Maffei non s'era limitato a negare l'esistenza delle streghe; aveva attaccato ogni forma di superstizione, senza curarsi se, demolendo il soprannaturale, avrebbe potuto essere accusato d'eresia, inficiando la battaglia che si stava conducendo per salvare delle vite umane dal rogo. Muratori non aveva avuto questo ardire e nell'ultima sua lettera all'amico, prima della morte, ne aveva riconosciuto il coraggio: «Siete entrato ancor voi nell'opinione della non magia. Non vi prendiate fastidio s'io l'avessi tenuta, è, perché io non sono stato animoso come voi. Le Sacre Scritture mi fanno paura; e giacché nulla è stato proibito finora del mio, non vorrei, che fosse neppur da qui avanti. Di miglior guscio siete voi, che io; per me poco importa, che la finisca in breve ...». Oppure, come non ricordare il pacato giudizio sulla vicenda giannoniana, espresso a Costantino Grimaldi nell'aprile del '23?: «Agl'ingegni focosi e liberi di Partenope si dee condonare qualche verità detta a visiera calata». O il commento dopo la lettura della risposta giannoniana al padre Sebastiano Paoli: «... quel benedetto Vesuvio mette un gran fuoco in voi altri signori»?).

Tre uomini, in qualche modo legati l'uno all'altro in una stessa battaglia (Muratori accorrerà a salutare Giannone in fuga, non appena a conoscenza del suo passaggio per Modena, informandolo dei nuovi attacchi che si tramavano contro l'Istoria civile. Quanto al Maffei, non fu certo un caso se nel suo palazzo di Verona trovò ospitalità Alessandro Riccardi, uno dei maggiori esponenti del giurisdizionalismo napoletano, nel '27). Una stessa battaglia, che approdò alla lotta contro la molteplicità delle feste religiose e per una devozione più «regolata» in Muratori (roso ora anche dal dubbio di fronte alla filosofia del Locke); per affermare la forza della ragione nella polemica sulle lammie e sulla magia, il Maffei; per esaltare e proporre una nuova storia della religione, alle soglie del deismo, il Giannone.

Di estrazioni sociali diverse, approdarono insieme alla stessa cultura, si aprirono all'Illuminismo apportandovi il loro non trascurabile contributo, conquistandosi tutti fama europea. Di famiglia contadina il Muratori; nobile di Terraferma il Maffei; figlio d'un povero speziale il Giannone. E mentre il Maffei seppe ironizzare sui costumi della sua classe col Della scienza chiamata cavalleresca, il figlio di contadini seppe rifiutare il vescovado per mantenere quella libertà che gli assicuravano i duchi d'Este. Quanto al Giannone, il quale aveva conosciuto l'onore della carica di «Avvocato della città di Napoli», anch'egli seppe mantenere la sua indipendenza intellettuale, pur nelle angustie e nei disagi dell'esilio e, ancora più tardi, nel chiuso del carcere.

In queste tre biografie si rispecchia tutto il primo Settecento italiano: dalla reazione all'Arcadia sino all'aprirsi del moto riformatore. Vi sono le battaglie per la fondazione di un «buon gusto» contro l'irrazionale barocco, la fondazione d'una nuova storiografia «civile» secondo l'indicazione baconiana, la ricerca d'una nuova metodologia sull'esempio dell'erudizione di Saint-Maur, la rivendicazione d'un più libero impiego del danaro senza più remore religiose, la lotta contro il «voto sanguinario» dei Gesuiti (cioè l'offerta di offrire il proprio sangue per sostenere l'immacolata concezione di Maria) e per una più moderna religiosità, la denuncia del danno che arrecavano all'economia le troppe festività religiose, la battaglia contro le credenze superstiziose e, soprattutto, contro i processi per stregoneria, la rivendicazione, infine, d'una religione più pura e svincolata dalle tante superfetazioni che, nel corso dei secoli, si erano sviluppate sul nucleo originario della Parola divina.

In questa continua, caparbia lotta per la diffusione dei lumi Muratori e Maffei ebbero un enorme vantaggio su Giannone: quello di poter incidere sulla società e sulla cultura settecentesche lungo tutto il corso della loro vita. Una possibilità che fu invece negata a Giannone, che i contemporanei conobbero solo per i suoi scritti giurisdizionalistici. Nei confronti di Muratori, inoltre, Giannone ebbe almeno due svantaggi: di giungere con la sua opera troppo tardi rispetto al momento politico-diplomatico e di non avere alle spalle un principe protettore interessato alla sua battaglia giurisdizionalistica.

La polemica nei rapporti tra Stato e Chiesa s'era aperta nel pieno della guerra per la successione al trono di Spagna e aveva conosciuto il suo acme con l'occupazione delle valli di Comacchio (passate sotto sovranità pontificia con la devoluzione del ducato di Ferrara nel 1598, ma rivendicate come possesso imperiale e quindi distinto dal ducato ferrarese). Tra il 1708 e il 1712 Lodovico Antonio Muratori fu il grande polemista, il difensore dei diritti imperiali ed estensi contro Roma. Contemporaneamente, un secondo fronte giurisdizionalista s'era aperto nel regno di Napoli dove, tra il 1707 e il 1708, era viceré austriaco quello stesso conte Philipp Lorenz Wierich von Daun che avrebbe proceduto all'occupazione delle valli comacchiesi. Anche a Napoli, dove gli imperiali miravano a strappare a Roma il riconoscimento di Carlo d'Absburgo quale re di Spagna e la concessione in feudo del regno di Napoli, si erano trovati motivi d'attrito con Roma nella collazione dei benefìci ecclesiastici, rivendicati ai soli «nazionali». In questa polemica s'erano impegnati 1 giuristi della cerchia di Gaetano Argento: Alessandro Riccardi, Costantino Grimaldi oltre allo stesso Argento. Una cerchia alla quale appartenne anche Pietro Giannone, il quale partì da quell'esperienza di lotta contro Roma per affrontare un riesame globale della storia del Regno.

Anche se l'autobiografia non lo ricorda, è impossibile che non vi fosse, alla base, una conoscenza delle ricerche muratoriane sul medioevo barbarico. La disputa sulle valli di Comacchio fu, del resto, così celebre (vi intervenne persino il Leibniz a sostegno del Muratori, assieme a molti altri storici e giuristi germanici) e durò così a lungo che non potè certo essere ignorata a Napoli da uomini che, per giunta, si trovavano dalla stessa parte della barricata, erano in corrispondenza epistolare (come il Grimaldi appunto) col maggior campione di quella disputa storico-politico-diplomatica. La stessa ricerca, così attenta in Giannone, delle origini longobardo- beneventane del Regno, ha troppi punti di contatto con l'analisi del regno longobardo compiuta dal Muratori in relazione alle origini della casa d'Este e al titolo dei suoi possessi (il primo volume delle Antichità estensi apparve nel 1717, ma già nei testi della polemica comacchiese si possono trovare i primi risultati delle ricerche muratoriane), perché non sia lecito pensare ad una conoscenza dell'opera muratoriana da parte del gruppo dell'Argento. Postulare una discendenza comune da Huig van Groot non è sufficiente. Tanto più che fu Muratori, nel vivo della polemica, a riaprire il discorso machiavelliano sulla distorsione provocata nella storia italiana dalla scomparsa del regno longobardo. Un tema al quale non fu certo insensibile Giannone.

Comacchio, dunque, e la disputa de re beneficiaria furono alla base dell'impresa giannoniana. Impresa nata da discussioni collettive e con propositi ben chiari di azione politica, come si dirà nell'introduzione alle pagine dell 'Istoria civile. Senonché l'arma del giurisdizionalismo era stata usata da Vienna per premere su Roma, al fine di ottenere concessioni ben precise e delimitate. L'imperatore Giuseppe I, colui che aveva scatenato la lotta, scese nella tomba troppo presto, nel 1711, per legare al suo nome quel movimento riformatore che fu detto « giuseppinismo » dal nome non suo, ma d'un suo discendente. Quanto a Carlo, ora divenuto VI del titolo imperiale, o egli non fu della tempra del fratello o bisogna riconoscere che la nuova situazione europea gli impose una diversa condotta. Non per nulla prolungò l'occupazione di Comacchio sino a che, di fronte alla necessità d'assicurarsi il riconoscimento della «Prammatica sanzione», non si vide costretto a liquidare ogni pendenza con Roma. Ecco perché, in questo nuovo quadro, sarebbe stato scelto quale viceré di Napoli, nel 1722, un cardinale: Friedrich Michael dei conti di Althann! Un gesto pacificatore che rappresentò, anche, la fine della politica degli anni precedenti.

All'arrivo del nuovo viceré l'Istoria civile non era stata ancora compiuta. Se ne era iniziata la stampa, sul principiare dell'anno avanti, in modo quasi clandestino, nella casa di campagna dell'autore a Posillipo, quando mancavano ancora cinque libri al suo compimento.

Ancora sulle bozze il testo veniva ripulito e messo in miglior italiano da Francesco Mela (cfr. quanto lo stesso Giannone riferisce nell'autobiografia in proposito); sicché può ben comprendersi come, in quelle condizioni, fossero occorsi ben due anni a stampare i quattro tomi! Quando finalmente l'Istoria civile vide la luce si era nel marzo del 1723. Il clima era ora ben diverso da quello in cui l'opera era stata concepita. Erano ormai più di undici anni che Muratori aveva chiuso per parte sua la polemica giurisdizionalistica, con la Piena esposizione dei diritti imperiali ed estensi sopra la città di Comacchio (Modena 1712). La protezione del duca Rinaldo lo aveva assicurato (lui prete) dalle censure ecclesiastiche e la fama conquistata gli permetteva adesso di continuare a scavare in quella storia medioevale che sarebbe stata, d'ora in poi, il suo gran cimento, portando avanti le intuizioni storiografiche abbozzate nel fuoco della polemica comacchiese. Ma l'apparizione dell 'Istoria civile. nel 1723, giungeva al contrario quanto mai inopportuna, fuori tempo. Fosse apparsa nel pieno del contrasto tra Vienna e Roma, o almeno qualche anno prima dell'arrivo del cardinale Althann, ben altra sorte sarebbe toccata al suo autore. Ora, pur se l'ambiente dei giuristi napoletani reagì favorevolmente ad essa e riuscì a far nominare Giannone «Avvocato della città di Napoli», il gesto non fece che vieppiù imbarazzare il nuovo viceré, il cui compito era, al contrario, proprio quello di seppellire l'ascia di guerra del giurisdizionalismo e di tentare il riavvicinamento con Roma. La gloria raggiunse così il figlio dello speziale pugliese accompagnata dalla persecuzione, dai disagi dell'esilio, anziché dall'agiatezza sino ad allora appena intravista e subito perduta.

Anche dai suoi amici, dagli uomini della sua cerchia egli sarebbe stato ben presto abbandonato, quando questi capirono quale fosse la nuova politica imperiale. I giuristi, i paglietta, il ceto forense napoletano aveva creduto nel giurisdizionalismo finché aveva intravisto, in quella battaglia, la possibilità di rodere il potere del foro ecclesiastico nel Regno. Ben pochi - Giannone, alcuni suoi più intimi amici - ne avevano fatto una battaglia ideale, che trascendeva la politica contingente dello Stato assoluto. La persecuzione romana e, nello stesso tempo, lo sfaldamento del vecchio «partito» di Gaetano Argento costrinsero così Giannone in un'autodifesa e in una battaglia politica che lo impegnarono a lungo sui temi del giurisdizionalismo, impedendogli - almeno sino al 1731-1732 - di affrontare quei problemi di più ampio respiro sulla storia delle religioni, che nell'Istoria erano appena sfiorati. Problemi sui quali, invece, egli s'era prestissimo fermato, sin dagli anni giovanili, sotto l'influsso del suo maestro, Domenico Aulisio.

«Cominciai nella villeggiatura di quest'anno [1731] ad applicarmi a studi, che fosser drizzati unicamente alla cognizione di me stesso e della condizione umana, della quale io era vestito, e ripigliare i miei tralasciati studi di filosofia, e col soccorso dell'istoria d'investigare più da presso la fabbrica di questo mondo e degli antichi suoi abitatori ...». Ma un nuovo impegno politico, la questione di Benevento, lo staccò ben presto da quelle sue ricerche, riportandolo ancora una volta alla battaglia giurisdizionalistica. Ritornato a distanza di un anno ai suoi nuovi studi, gli sconvolgimenti provocati dalla guerra di successione per il trono polacco, nel 1734, avrebbero ributtato Giannone nel mare di sofferenze e di stenti e l'approdo sarebbe stato, questa volta, la prigione a vita. Così il grande impianto d'una storia della religiosità dagli antichi sino alla Controriforma rimase incompiuto, né il nuovo messaggio giannoniano raggiunse mai i suoi contemporanei. Nei due anni di lavoro nella quiete dei boschi che circondano Vienna e poi grazie all'ospitalità veneziana del senatore Angelo Pisani, l'opera era tuttavia cresciuta sino alla mole di tre grossi volumi in quarto (si veda la copia oggi alla Biblioteca Marciana di Venezia!) e il discorso storico condotto sino all'età costantiniana inclusa. In molte parti prolisso, in tante altre ancora da dirozzare, da limare, troppo spesso composto alla maniera dell'Istoria - con intere pagine tratte di peso dalla bibliografia dalla quale dipende -, anche così il Triregno avrebbe rappresentato una grande tappa nella religiosità settecentesca, se avesse potuto circolare, anche manoscritto, così come circolarono manoscritte tante altre opere giannoniane.

Il secolo si era aperto all'insegna dell'incertezza e una grande crisi della religiosità europea era in atto. Nel 1695 John Locke aveva pubblicato The Reasonableness of Christianity, l'anno stesso in cui aveva cominciato ad apparire il Dictionnaire historique et critique (1695-1697) di Pierre Bayle, gran miniera del pensiero libertino. Nel 1696 John Toland aveva dato alle stampe il suo Christianity not Misterious aprendo la strada al deismo. Nel 1713 Anthony Collins avrebbe difeso la libertà di pensiero col suo Discourse of Free Thinking, Occasioned by the Rise and Grozvth of a Sect Called Free-Thinkers; mentre proprio l'anno avanti l'inizio dei nuovi studi giannoniani, nel 1730, Matthew Tindal dava alle stampe il suo Christianity as Old as the Creation, or the Gospels, a Republication of the Religion of Nature, che fu la vera bibbia del deismo. A queste forme estreme di attacco alla religione cristiana (cattolica o anglicana o luterana o calvinista che essa fosse) si affiancavano una lunga serie di studi sui Vangeli e sulla Chiesa primitiva. La strada ad essi era stata aperta da Spinoza col Tractatus theologico-politicus (1670) e su di essa si erano posti in tanti, seguaci e avversari, tutti comunque costretti a seguire il suo razionalismo storicistico. Da Jean Ledere a Richard Simon e Pierre-Daniel Huet, Louis Ellies Du Pin, Joseph Bingham, per citarne solo alcuni. L'opera giannoniana mirava, nel suo grandioso impianto, a dare un immenso affresco dell'evolversi delle credenze religiose, riprendendo tutta la letteratura contemporanea. Il soggiorno viennese, con il facile accesso alla Biblioteca Palatina, somministrava a Giannone i testi eterodossi e non, necessari all'impresa. La vicinanza e l'aiuto di amici quali Pio Niccolò Garelli, Nicola Forlosia, Bernardo Andrea Lama e la cerchia libertina della corte del principe Eugenio avevano assicurato la maturazione del progetto giannoniano, così come, in un tempo ormai lontano, l'atmosfera dell'Accademia dei Saggi, riunita a Napoli attorno a Gaetano Argento, aveva esercitato l'arte sua maieutica per la nascita dell'Istoria civile.

Quando improvvisamente Giannone venne arrestato da agenti sabaudi a Vezenaz, un voluminoso manoscritto dell'opera incompiuta restò nelle mani del pastore calvinista Jacob Vernet. Questi ebbe contatti con un libraio-editore per cercare di stamparla, Jacques Barillot di Ginevra; ma giunto in possesso del manoscritto, il Barillot preferì consegnarlo all'Inquisizione romana, non senza il consenso delle stesse autorità ginevrine. Ai calvinisti, evidentemente, l'opera non doveva piacere per il suo sapore deista, né la Compagnia dei Pastori amava più urtarsi con Roma. Così, autografo e apografo del Triregno finirono entrambi sepolti negli archivi sabaudi e romani. L'autografo del Regno celeste, per la verità, si salvò da questo naufragio, e da esso furono tratte alcune copie, due delle quali giunte sino a noi. Non solo, ma una copia integrale dell'opera, per vie sconosciute, capitò nel 1768 in mano all'editore veneziano delle così dette Opere postume; mentre un certo M. C. de Samnitibus aveva la possibilità di copiare per suo conto l'intero testo del Triregno a Napoli, nel 1783. Né questo è tutto, perché sappiamo che l'opera era conosciuta nell'ambiente del cardinale Neri Corsini a Roma, dove si provvide a farla copiare assieme ad altre opere minori giannoniane. Non può dunque affermarsi che la caccia data al Triregno da Carlo Emanuele di Savoia e dall'Inquisizione romana avesse davvero raggiunto lo scopo di impedire la sua diffusione. Con tutto ciò, l'opera non conobbe ugualmente quella circolazione, sia pure latomica, che conobbero altre opere polemiche giannoniane, diffuse in innumerevoli copie manoscritte. Non che ostasse la sua mole, tale certo da impegnare seriamente la fatica di qualsiasi amanuense. La sua prolissità? Può anche darsi. Ma molto più probabilmente, una volta ancora, le pagine giannoniane giungevano in ritardo. A oltre trent'anni dal suo sequestro, il Triregno capitò nelle mani del tipografo-editore veneziano Giambattista Pasquali, eppure questi non ritenne di pubblicarlo. Molto probabilmente giudicò la sua tematica sorpassata. L'autografo del Regno celeste risultava a Napoli quando l'abate Leonardo Panzini stese la sua biografia del Giannone (1765 circa). Ebbene, anche da esso non ne discesero che ben poche copie, come s'è detto, un numero davvero irrilevante, se paragonato alla quantità di copie che figliò un altro testo, certo non meno eterodosso, quale la Professione di fede, vivente il suo autore e ancora più tardi.

Bisogna dunque concluderne che il Triregno, in trent'anni, era così invecchiato da non invogliare copisti e tipografi. In effetti, esso avrebbe sicuramente esercitato un'azione dirompente sulla cultura italiana degli anni Trenta; ma tra il 1765-1768 e il 1783 ben altri erano i problemi che agitavano l'Italia. Nell'inverno del 1754 Antonio Genovesi era salito sulla cattedra di «meccanica ed elementi di commercio». Tra il 1764 e il 1765 erano usciti i numeri del «Caffè» e nel 1764 Cesare Beccaria aveva pubblicato il suo Dei delitti e delle pene. Non solo, ma proprio nel 1763 Iustinus Febronius (Johann Nikolaus von Honthein) aveva pubblicato il suo De statu Ecclesiae, riaprendo il dibattito giurisdizionalistico, contestando il primatus potestatis pontificio. Pietro Giannone tornava attuale per i suoi scritti giurisdizionalistici, non per i suoi studi di storia religiosa. La sua fama restò così legata ad un momento della sua vita. Essa si diffuse in tutta Europa (Edward Gibbon fu un suo entusiasta lettore), ma lo rese anche un autore monocorde, quale sicuramente non era. Tant'è vero che l'analisi dell'evolversi del sentimento religioso nei popoli occidentali fu quella che lo attrasse maggiormente, anche nella prigionia. Tagliato fuori dal dialogo coi suoi contemporanei, privato del manoscritto di quella che avrebbe dovuto divenire l'opera sua maggiore, egli tornò insistentemente su temi di storia delle religioni. Una prima volta, nel carcere di Miolans, servendosi di Tito Livio. Più volte ancora, in futuro, approfittando dei testi che gli fu possibile reperire.

È sintomatico che un'opera come i Discorsi sopra gli Annali di Tito Livio, che così da vicino ricalca nel suo titolo il commento machiavelliano alle deche, sia al contrario tanto lontana dal pensiero del Machiavelli. Per Giannone non v'è un problema di arte di governo, da comprendere e da sviscerare. I capitoli che lo interessano sono quelli in cui Livio parla della religione dei Romani. Non per nulla il modello cui si rifà è l’Adeisidaemon, sive Titus Livius a superstitione vindicatus di John Toland! Siamo ancora nell'ambito della disputa spinoziana, nella sfera del Tractatus theologico-politicus-, stiamo risalendo alle origini della religiosità umana, sulle orme dei deisti inglesi.

Terminati i Discorsi nel 1739, subito Giannone avrebbe posto mano ad un'altra opera, questa volta esemplandola sul Traité de la morale des Pères (1728) di Jean Barbeyrac: l’Apologia de' teologi scolastici. Apologia degli scolastici, perché non a loro, ma agli stessi Padri della Chiesa va imputata la corruzione del primitivo cristianesimo! Sono, ancora una volta, i temi del Triregno e non a caso l'Apologia venne interrotta, all'altezza del settimo libro, per riprendere e quasi continuare l'incompiuto Regno papale con VIstoria del pontificato di Gregorio Magno.

Tutti questi lavori, che ci mostrano un Giannone così diverso da quello più universalmente noto dell'Istoria civile. rimasero sepolti negli archivi del suo carceriere, Carlo Emanuele. Essi non ebbero nemmeno la sorte del Triregno che, ricopiato su ordine del re e poi inviato al cardinale Alessandro Albani perché a sua volta lo consegnasse al Sant'Uffizio, ebbe più probabilità di essere letto e di conoscere una sia pur ristretta diffusione. I Discorsi su Tito Livio, l'Apologia de' teologi scolastici, il Pontificato di Gregorio Magno passarono direttamente dal tavolo di lavoro del Giannone agli archivi sabaudi. Ma, occorre anche dire, non si trattava di lavori originali. Se il Triregno aveva destato 'a curiosità del cardinale Albani e, più tardi, quella del cardinale Neri Corsini, gli ultimi lavori giannoniani sarebbero riusciti interessanti solo per chi avesse voluto conoscere l'evolversi del ragionare del prigioniero, ma non si sarebbero mai imposti per il loro contenuto. La genialità dell'impianto dell‘Istoria civile s'era ormai persa nel tempo. La grandiosità dell'affresco tentato col Triregno, la grande trilogia del regno terreno, celeste e papale s'era spezzata a Vezenaz. La rilettura del Toland o di Barbeyrac, i saccheggi a man salva dalle Stuore di Giovanni Stefano Menochio o dalle Origines ecclesiasticae di Joseph Bingham, anche se conosciuti, avrebbero sicuramente interessato ancor meno di quanto non interessò il Triregno a quanti lo ebbero tra le mani, a distanza di trent'anni dalla sua stesura. Quanto a noi, non prenderemo certo per elaborazione originale tante pagine giannoniane che, molto spesso, giannoniane non sono. Non cadremo, insomma, nell'errore (come spesso è avvenuto) di attribuire a Giannone idee che questi aveva tolto di peso dai testi dai quali dipendeva. L'importanza di questo «secondo Giannone», il Giannone del Triregno e degli altri scritti del carcere, mi sembra risiedere non tanto in un'elaborazione originale, quanto nell'essere specchio d'una crisi, quella della religiosità europea dopo l'apparizione di Spinoza. Seguire Giannone nelle sue letture è seguire, nello stesso tempo, la crisi dell'uomo di cultura settecentesco, giunto alle soglie del deismo. Attraverso le sue pagine è tutto il mondo del libertinage érudit che ci si apre dinanzi. Un mondo che, naturalmente, conosciamo anche senza Giannone; ma attraverso le sue letture noi abbiamo modo di apprendere le reazioni dell'uomo del tempo, possiamo evitare quel diaframma che, inevitabilmente, si pone tra noi carichi d'una diversa cultura e quei testi sei-settecenteschi. Giannone, dunque, specchio del tempo, infaticabile lettore di testi eterodossi.

A petto degli scritti del carcere, però, il Triregno fu anche qualcosa di più. Non v'è dubbio che anche per quest'opera si pone il problema della dipendenza dalle fonti (dei plagi), così come II problema esiste per l'Istoria civile. Su questo punto va detto, tuttavia, dopo tante accuse denigratorie (dal Bonacci al più recente Caristia), che Pietro Giannone menò vanto di aver sempre allegato «gli autori più gravi e' più contemporanei che si fosse potuto» (vedi nel Ragguaglio), mirò dunque sempre a fornire, con la sua opera, una narrazione storica aggiornata. Né ritenne colpa il riferire ampiamente brani d'autori coi quali al momento concordava (o servirsi di essi per descrivere un fatto storico che, pur con altre parole, sarebbe sempre rimasto lo stesso) senza apporvi le fatidiche virgolette. Anzi si prese apertamente beffe del povero padre Sanfelice, che aveva creduto di criticare l'autore dell 'Istoria civile. senza sapere di avere a che fare con una pagina della Storia della repubblica veneta di Giovan Battista Nani! In realtà, non chiediamo a Giannone di essere quello che non fu. Non pretendiamo di far di lui un secondo Muratori, un ricercatore e illustratore di fonti inedite. Non fu questo il suo impegno. Fu piuttosto quello di fornire, basandosi sui testi più aggiornati, nuove interpretazioni storiche globali, secondo un punto di vista che era politico prima che storico. Con la sua prima opera, in effetti, egli non mirò a scoprire nuove fonti, nuovi dati, ma a rompere la diade tra storia politica e storia ecclesiastica. Tentò di unificarle sulla base del giudizio di Ottato Afro vescovo di Milevi - tante volte da lui ricordato -: che la Chiesa faceva parte dell'Impero, non già l'Impero della Chiesa (cfr. De schismate Donatistarum, 3). Così nel tracciare il grande progetto dei tre regni, terreno, celeste e papale, intese servirsi dell'immensa bibliografia uscita negli ultimi decenni, da Henry Dodwell a Joseph Bingham, da Richard Simon a Pierre-Daniel Huet, da John Locke a John Toland, dall'Aulisio delle Scuole sacre a Jean Ledere, non per tornare anch'egli a discutere il Tractatus theologico-politicus. ma per ripercorrere, alla luce di quella bibliografia, in maggioranza eterodossa quando non addirittura deista, il cammino della religione umana, fornendo in modo originale un grande affresco della condizione umana, sino ad arrivare al deteriorarsi della Parola divina, al crescere di istituzioni chiesastiche (tra gli Ebrei prima, tra i cristiani poi), sino alla distorsione storica del papato, al trionfo controriformistico. La sua era dunque una proposta di ritorno alla Parola, fortemente influenzata non solo dalle nuove correnti deiste, ma da quel mondo protestante (già eterodosso all'interno dello stesso protestantesimo) che gravitava all'ombra della corte del principe Eugenio. Si trattava di un disegno storico che, sviluppando e ampliando gli antichi temi giurisdizionalistici, doveva dimostrare l'estraneità della Roma triumphans dal ceppo originario del messaggio cristiano.

Forse per questo Giannone è stato detto un riformatore religioso. Tale, almeno, lo hanno proposto Antonio Corsano e Natalino Sapegno. Certamente, come s'è visto, all'impegno giurisdizionalistico egli venne sempre più sostituendo l'interesse per la sfera religiosa dell'uomo. Ma, mentre l'impegno giurisdizionalistico lo portò ad un'attività esterna, che può ben configurarsi in azione coscientemente politica alla testa del suo gruppo, l'analisi dell'evolversi della religiosità umana lo portò ai dialogo interiore, agli incontri latomici con pochi altri intimi esprits forts. Anche se (almeno nei giorni veneziani) egli raggiunse o si avvicinò al deismo, non riversò mai apertamente le proprie convinzioni religiose nella sua opera. Gli mancò, pertanto, la caratteristica prima del riformatore religioso: il proselitismo, ottenuto con la predicazione della propria idea di riforma. Né questo, del resto, era lo scopo del Triregno, ma, come s'è detto, quello di condurre per mano il lettore alla scoperta d'un'evoluzione del credo, del costruirsi sulla religiosità umana d'un'organizzazione sacerdotale che snaturava, di per se stessa, la Parola. Un programma dunque riformatore, ma nel senso d'un illuminismo ch'era, di nuovo, più politico che religioso.

Il che non significa, naturalmente, che Giannone, con quest'opera, non operasse anche una presa di posizione religiosa, che lo poneva ben più dell'Istoria civile al di fuori di santa romana Chiesa. Nell'abiura egli affermò che quelle carte, scompaginate ad arte dal Vernet prima di consegnare l'autografo del Triregno agli agenti sabaudi, erano «picciole memorie, che secondo andava leggendo alcuni autori io notava, ed ancorché avessero relazione fra di loro, e portassero seco un gruppo di diversi errori, non furono da me abbracciati, ma unicamente per notare gli altrui sentimenti». Tentò, insomma, di rifiutare la paternità d'un'opera quale il Triregno e, davanti all'inquisitore, lo si comprende bene. Ma molti anni prima, a Vienna, non si era comportato diversamente. Nel dicembre del 1731, richiesto di un parere sulla Philosophia adamito-noetica divina mundana del frate calabrese Antonio Costantino (un testo dunque che collimava in molti punti con i suoi nuovi studi), si era mostrato scandalizzato per l'eterodossia di cui appariva permeato. «L'intento dell'autore» scriveva «è di dimostrare col soccorso dell'antica istoria profana, che presso tutte le nazioni del mondo, sicome da Adamo e da' figliuoli di Noè fu propagato tutto il genere umano sopra la terra, così si fosse diffusa l'istessa religione, e sapienza divina e mondana . . . L'impegno è molto pericoloso sottoponendosi il tutto a discorsi umani, a raziocinii e deduzioni e conietture prese dall'istoria profana, dalla quale si vuole illustrare la divina. Se la cosa si vorrà ridurre a quest'esame dubbito forte che gli scrittori libertini e spezialmente gli inglesi e qualche olandese e germano, che han sopra questo soggetto vomitate più bestemmie in alcuni loro libri dati alle stampe, non abbiano vinta la lor causa ...». Eppure il sincretismo religioso del Costantino (non nuovo, ché lo aveva già tentato, tra gli altri, Pierre-Daniel Huet nella sua Demonstratio evangelica contro Spinoza) era ben poca cosa di fronte, per esempio, alla negazione dell'immortalità dell'anima (come la si può ritrovare nel Regno terreno) o alla negazione d'ogni premio e ricompensa nell'ai di là e ai dubbi espressi sulla resurrezione (come accade nel Regno celeste). Quel che è certo è che Giannone, nel 1731, non reputava «bestemmie» le argomentazioni storiche d'un Toland, d'un Locke, tant'è vero che le faceva abbondantemente sue, riprendendole nelle sue pagine. È dunque evidente che a Vienna solo pochi intimi dovevano essere al corrente degli indirizzi che stava prendendo il suo lavoro. Di nuovo una cortina di protettivo silenzio era stesa attorno alle sue ricerche, così come era accaduto al tempo della stesura dell'Istoria civile.

Al Triregno Giannone lavorava ancora quando fu arrestato e, certamente, doveva aver messo al corrente dei suoi studi se non il Turrettini, almeno il Vernet. Lo dimostra la preoccupazione di quest’'ultimo, al momento della consegna d'una parte dell'autografo agli agenti sabaudi (che affermavano richiederlo in nome dell'autore, si badi bene!), tanto da scompaginarlo ad arte, per renderlo irriconoscibile. Ma proprio a Ginevra la prima cura del Giannone fu quella di dimostrarsi cattolico osservante (e per tanto zelo finì miseramente nelle mani del Savoia!). Certo, così facendo egli salvava l'Istoria civile dall'accusa di essere opera d'un eretico. Ma, sottolineare il proprio cattolicesimo non era anche la via migliore per mantenere la propria indipendenza di pensiero in un ambiente calvinista? Non era l'unica sua possibilità di svincolarsi da quella cappa confessionale contro la quale si sarebbe scagliato, vent'anni dopo, il Voltaire? La sua professione di ortodossia cattolica non era dunque che un mezzo per continuare a mantenersi libero. Potè persino prendersi il vezzo di curiosare, di andare a sentire alcune prediche calviniste, per poi parlarne coi suoi ospiti, criticandole in nome della tolleranza! Ma c'è da chiedersi se avrebbe potuto continuare a vestirsi di quei panni anche dopo la pubblicazione del Triregno . . .

Come che sia, la biografia sua è esemplare del cammino di tanti intellettuali del tempo, posti di fronte a Spinoza e a Locke. Giannone era partito dall'esperienza dell'Oratorio - così come il coetaneo Muratori era partito dall'esperienza rigorista del Bacchini - per approdare al deismo. Era il tempo in cui Muratori arretrava spaventato di fronte alla voragine che si apriva nella sua fede alla lettura del Essay on Human Learning («. . . Ma per la Dio grazia, ricorro sempre al Credo, e qui starò saldo fino alle ceneri»! scrisse al Tartarotti nel '33). Era il tempo in cui Alberto Radicati di Passerano pubblicava il suo Nazarenus et Lycurgos mis en parallèle (Rotterdam? 1736), dove Gesù appariva un legislatore saggio che, come appunto Licurgo, mirava a «délivrer les hommes de toute tyrannie».

Spinoza aveva dimostrato come i Testi non fossero discesi sino a noi incorrotti, come la loro «sacralità» non li avesse affatto preservati dalle ingiurie del tempo. I Vangeli sinottici di Richard Simon erano stati uno scavo archeologico nelle coscienze religiose europee. Bernard Le Bouyer de Fontenelle aveva demistificato oracoli e miracoli. Balthazar Bekker aveva addirittura voluto disincantare il mondo: De betooverte Wereld (1691). Pierre Bayle, il patriarca dei libertini, aveva spiegato, nelle sue Pensées a proposito della cometa del 1680, che anche l'ateo può essere virtuoso e che la morale non coincide necessariamente con una religione. Chi era disposto a continuare in quest'opera di diffusione della ragione? Ad illuminare gli uomini svincolandoli da quel mondo magico che essi stessi avevano creato, proiettando le loro ansie, le loro paure nell'ai di là? Chi era pronto ad abbattere le superfetazioni che nascondevano all'occhio umano il dio copernicano ?

Giannone, imbevuto di cultura eterodossa, vi si cimentò. Il grande affresco stava nascendo. Come la storia ecclesiastica era stata da lui ricondotta nell'alveo della storia politica, così ora la storia religiosa sarebbe stata ricondotta nell'alveo del cammino umano. Il cielo sarebbe sceso in terra. Ma Vezenaz segnò la fine di questo programma illuminista. Rinchiuso nel castello di Miolans, ma non ancora impedito nella sua libertà intellettuale, Giannone offrì questa volta se stesso come modello di vita, interrogandosi e ponendosi a nudo perché i contemporanei potessero imparare ad essere «probi ed onesti ed amanti del vero». Ancora un programma illuminista e ne risultò quello che è senz'altro il suo capolavoro, uno dei libri più belli di tutto il Settecento italiano, per forza espressiva, per lucidezza, drammaticità. Non a caso, nell'autobiografia, egli riserbò tanta parte alla genesi del Triregno, più di quanta non ne riserbò alla genesi dell 'Istoria civile. A quell'opera incompiuta egli attribuiva un valore liberatorio ben più grande, di quello insito nella battaglia giurisdizionalistica. Ma anche quest'autobiografia, che avrebbe forse potuto uscire dal carcere, se fosse stato concesso al figlio di salutare il padre prima di tornare in libertà, rimase sepolta negli archivi sabaudi.

Quando per Giannone si aprirono le porte del duro carcere torinese, per costringerlo all'abiura, egli avrebbe trovato al suo fianco, a rammentargli il giovanile rigorismo, il padre filippino Giambattista Prever. Nell'abiura, a ben guardare, egli non rinnegò un bel nulla, o assai poco. Tant'è vero che quel testo non piacque affatto a Roma, lo si considerò una magra vittoria, della quale non si menò vanto, almeno finché il prigioniero rimase in vita. Ma i colloqui col Prever valsero ad allontanare sempre più Giannone dal precedente deismo, a farlo ripiegare in una introspezione via via sempre più incoerente. Anche nei momenti di più aperta adesione al deismo di un Toland, Giannone non era mai riuscito ad aderire completamente alle tesi più radicali spinoziane. Non per nulla il punto di partenza erano state le Scuole sacre di Domenico Aulisio che, come la Demonstratio evangelica di Huet, erano state un tentativo (ugualmente abortito) di replicare al Tractatus theologico-politicus. Forse proprio per questo Giannone, anche nel Triregno, non riuscì ad essere chiaro. Troppe volte anche quella che doveva essere la sua opera maggiore mostra la trama su cui è costruita, in una acritica o contraddittoria dipendenza dalla bibliografia cui si rifà. Il passo che avrebbe dovuto portarlo ad un professato deismo, così, non fu mai compiuto. Gli incontri col Prever ve lo ritrassero completamente e mentre Muratori volle rifugiarsi nella preghiera, Giannone si inviluppò in una ricerca storica sempre pili contorta, cercando di autoconvincersi di essere ortodosso nell'eterodossia, osservante della vera Chiesa all'interno di quella attuale, costruita gerarchicamente e dogmaticamente.

In fin dei conti, il più coraggioso, il più conseguente fu Scipione Maffei che pure, dei tre, ebbe meno tentennamenti e crisi religiose. Maffei non retrocesse di fronte alle conseguenze della sua battaglia per la negazione della stregoneria e della magia: l'abolizione del soprannaturale in favore della ragione. Non era il diavolo l'angelo caduto, la divinità stessa con segno negativo? Abolendo l'Inferno non si sarebbe negato anche il Paradiso? Certamente. Ma alla ragione non poteva che repugnare l'esistenza di diavoli e di sabbah, di incubi e di succubi, di streghe e di maghi. Sì, anche di quel Simon mago di cui parlano gli Atti degli apostoli o dei Magi dell'Epifania. La luce della ragione, per Maffei, non si sarebbe spenta nemmeno dinanzi a così gravi conseguenze.

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