GRIMANI, Pietro

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 59 (2002)

GRIMANI, Pietro

Giuseppe Gullino

Nacque a Venezia il 5 ott. 1677, nel bel palazzetto rinascimentale di S. Polo, sul Canal Grande, secondogenito di cinque fratelli, da Pietro di Marcantonio e da Caterina Morosini di Domenico di Giovanni, del ramo a S. Maria del Giglio. La famiglia, soprannominata "dall'albero d'oro", era ricca (il padre, figlio unico, non aveva dovuto spartire il patrimonio) e destinò il primogenito Marcantonio al matrimonio, mentre il G., che aveva manifestato una spiccata vivacità intellettuale, fu mandato a studiare nel collegio gesuita S. Francesco Saverio di Bologna.

Ne uscì rafforzato nell'interesse per gli studi scientifici e particolarmente astronomici, che avrebbe coltivato per tutta la vita, così da porsi - come Nicolò Tron, Lorenzo Tiepolo e, in qualche misura, Marco Foscarini - tra i fautori di quel cauto rinnovamento, culturale ed economico, che con la generazione successiva avrebbe potuto dar vita a una particolare esperienza illuminista. Nella strategia familiare, il G. doveva dedicarsi alla carriera politica, secondo l'esempio paterno, e il 21 genn. 1703 fu eletto savio agli Ordini fino a marzo, e poi ancora per il semestre settembre 1704 - marzo 1705.

Questo brillante esordio subì per qualche anno una battuta d'arresto, perché la permanenza nel Collegio gli era impedita - in base alla legge - dalla contemporanea presenza di altri due Grimani: il padre e un Francesco di Antonio, del ramo a S. Boldo, che in quel torno di anni sedettero frequentemente tra i savi del Consiglio.

È possibile pertanto che il G. sia entrato a far parte dei Camerlenghi di Comun fra il marzo 1704 e il giugno 1705 e poi degli Ufficiali ai dieci uffici, dal 5 giugno 1707 (ma non si può escludere - data l'imprecisione delle fonti - trattarsi di un secondo omonimo: Pietro di Marino, del ramo a S. Luca, che fra il 1720 e il 1722 avrebbe ricoperto l'importante incarico di sindaco inquisitore in Terraferma); invece è certamente il G. a riprendere la carriera nel Collegio, assumendo il ruolo di savio di Terraferma per il secondo semestre del 1707 e del 1708. Completata la prassi del tirocinio, il grande balzo: il 23 genn. 1710 si trovò eletto ambasciatore alla corte d'Inghilterra, proiettato di colpo nella politica internazionale, pur senza esser mai uscito da Venezia.

La sede non era particolarmente impegnativa, data la neutralità della Repubblica nella guerra di successione spagnola, che oltretutto sembrava piegare verso la conclusione, visto che già da qualche mese erano iniziati, in Olanda, i negoziati di pace; inoltre l'Inghilterra propugnava quella politica dell'equilibrio internazionale - destinata a trionfare a Utrecht, tre anni dopo - che da un pezzo la Serenissima aveva eretto a norma del suo agire politico: una comune tradizione di interessi mercantili e marittimi univa dunque, in qualche modo, i due Stati. Il G. lasciò Venezia nel luglio 1710, in compagnia del fratello Lorenzo che avrebbe trascorso con lui gran parte del soggiorno londinese; l'8 ottobre aveva già raggiunto la sede. È evidente, nei suoi dispacci, l'ammirazione per la politica britannica, volta a trarre il maggior profitto dalla guerra che dissanguava l'Europa, non per inseguire le ambizioni di prestigio e di potenza proprie delle corti borboniche e asburgiche, ma per favorire l'interesse economico di quei ceti borghesi che in giorni non lontani avevano chiamato al trono Guglielmo d'Orange.

Nel riferire al Senato l'annuncio, per bocca della regina Anna, dell'avvenuta pacificazione europea il 21 apr. 1713 il G. avrebbe scritto: "È pure osservabile che Sua Maestà si rimette intieramente al suo Parlamento per la quantità delle truppe che doveranno sussistere dopo la pace, spiegandosi che Ella non desidera che si conservino altre forze, che quelle che sono necessarie per cuoprire le piazze et assicurare il commercio, credendo la di lei regale persona abbastanza sicura e protetta dalla fedeltà e dall'amore del suo popolo".

Il modo di pensare del G. era vicino a quello inglese; spirito aperto e stimolato dalla sete di sapere, entrò ben presto in contatto con quanti potevano aprirgli le porte verso la conoscenza tecnologica e agronomica; era il modello che lo interessava, e ciò probabilmente lo aveva spinto ad accogliere prontamente - o forse addirittura a sollecitare - l'elezione ad ambasciatore, riscuotendo l'appoggio della famiglia.

Il padre, che aveva cospicui interessi minerari nel Vicentino, si era in precedenza pronunciato - come riformatore dello Studio di Padova - in favore del progressista Michelangelo Fardella, titolare della cattedra di astronomia e meteore (era stato maestro di Antonio Conti), e proprio in quegli anni affidava l'insegnamento della matematica a Nicolas Bernoulli. Anche per tradizione domestica, dunque, le scienze, e in particolare la chimica, la fisica e l'astronomia, rientravano fra gli interessi del G., che su proposta di I. Newton fu ascritto, nel 1712, alla Royal Society; sappiamo inoltre che si recò a visitare officine e cantieri, approfittando dell'incarico, affidatogli dal Senato l'8 genn. 1711, di reperire tecnici ed esperti di navigazione disposti a trasferirsi a Venezia, in vista della progettata creazione di una scuola di nautica.

Sul piano della politica estera, l'attenzione del G. fu monopolizzata dagli eventi militari, in particolare dagli equilibri italiani, che dal conflitto in corso sarebbero radicalmente mutati; di ciò Venezia fu solo spettatrice, ma il G. riuscì a ottenere un piccolo personale successo con l'inserimento della Repubblica nel trattato di commercio anglo-francese, stipulato nell'agosto del 1713.

Il 9 marzo 1713 il G. era stato designato ad altro incarico, stavolta presso l'imperatore Carlo VI. Aveva accettato, dichiarandosi pronto a "sostenere la seconda non men grave, che dispendiosa, ambasciata di Vienna"; insieme con Parigi, la sede austriaca si trovava allora al centro della politica internazionale, ma certo non comportava le gratificazioni intellettuali e i tangibili esempi di progresso economico percepibili dall'osservatorio inglese. Sicché, nell'accettare la nuova destinazione, il G. sembrava implicitamente fare propri i perduranti, incancellabili legami con una mentalità e una prassi legate alla tradizione.

Lasciò Londra il 23 giugno 1714, sbarcò in Olanda, quindi attraversò la Germania e il 23 agosto spediva da Trento - dove lo raggiunse da Venezia il fratello Lorenzo - il suo primo dispaccio dalla legazione austriaca.

Vi avrebbe trascorso ben sei anni politicamente rilevanti: a fronte delle tre filze di lettere inviate al Senato da Londra fra il 1710 e il 1714, stanno le undici (tredici, con le expulsis papalistis) spedite da Vienna nel 1714-20.

Alla fine di settembre del 1714, si trovava presso la corte imperiale, a Schwerin, per rilevare il predecessore, Vettor Zane, malandato in salute; sin dal primo dispaccio non mancava di far presenti al Senato le grandi spese incontrate nel corso della sua lunga lontananza dalla patria, raccomandando nel contempo al "paterno umanissimo pubblico compatimento" la carriera del fratello Giorgio, che militava nell'armata marittima. Fu buon profeta, il G.: appena qualche mese dopo, nel dicembre 1714, la Repubblica si trovava in guerra; i Turchi avevano invaso e conquistato, nel giro di pochi mesi, la Morea. Da quel momento, il G. cercò di indurre la corte imperiale a prendere a sua volta le armi contro gli Ottomani, rinnovando le fortune della non dimenticata alleanza del 1684; del resto, sin dal 29 settembre, nel riferire un suo colloquio con il principe di Trautzen, il G. aveva scritto di avere intenzionalmente lasciato cadere il discorso sui preparativi militari dei Turchi, "riflettendo su le forze di quella barbara natione, avvezza a non conservare che a capriccio la validità dei trattati e la solennità degli impegni. Agionsi, che per tenerla in freno non vi era miglior ripiego che far valere l'unione et il concerto di quell'alleanza, ch'in passato haveva servito a fiaccarne il fasto e l'orgoglio".

Per stipulare il rinnovo della Sacra Lega, nel marzo 1715 giunsero a Vienna gli ambasciatori straordinari Michele Morosini e Vettor Zane, ma quest'ultimo, malato e ormai prossimo a morire, fu presto sostituito dallo stesso G., che un anno dopo (13 apr. 1716) sarebbe riuscito a condurre a buon fine le trattative; nel frattempo, assicurò inoltre alla Repubblica il servizio del generale sassone Johann Mathias von Schulenburg, che aveva militato con Eugenio di Savoia e che nell'agosto 1716 sarebbe riuscito nella decisiva impresa di liberare Corfù dall'assedio ottomano.

Il positivo operato del G. non mancò di riscuotere il gradimento del governo; il 25 maggio 1715 gli inquisitori di Stato gli rivolgevano un aperto elogio.

Paradossalmente qualche problema sorse più tardi, quando le sorti della guerra mostrarono di volgere in favore degli alleati; una volta libero l'Adriatico dalla minaccia turca, infatti, l'imperatore parve prendere coscienza delle possibilità di un'espansione marittima dell'Austria, così da subentrare nel commercio con il Levante alla declinante presenza veneta; gli ultimi mesi della legazione viennese del G. furono pertanto assorbiti dal fallito tentativo di parare la minaccia dell'antico alleato, che stava trasformandosi - con l'apertura del porto franco di Trieste, nel 1719 - in un formidabile concorrente.

Era in ballo la giurisdizione dell'Adriatico, che in linea di principio Venezia aveva sempre giudicato irrinunciabile; ne derivarono complesse trattative fra il G. (appoggiato - sino alla conclusione della pace - dal plenipotenziario veneziano a Passarowitz, Carlo Ruzzini) e i rappresentanti austriaci, il conte Stella e il cancelliere Zinzendorf; fu per questa ragione che il G. dovette prolungare la sua permanenza presso la corte asburgica: il suo ultimo dispaccio da Vienna porta infatti la data del 3 febbr. 1720.

Il 26 nov. 1716 era stato eletto ambasciatore a Roma, ma un terzo ininterrotto incarico sarebbe risultato un peso inaccettabile da parte di chiunque, e il G. non aveva certo demeritato della patria; per cui, elevandolo alla dignità di procuratore di S. Marco de supra il 29 ag. 1719, il Senato gli attestava il suo gradimento e a un tempo lo sollevava, per l'avvenire, da ogni altra legazione ordinaria o rettorato fuori dalle lagune. Tornato a Venezia, il G. entrò a far parte dei savi del Consiglio per il semestre aprile-settembre, e tale carica gli sarebbe stata rinnovata ininterrottamente, sempre per gli stessi mesi, fino all'elezione al dogato (1741).

Era dunque inserito stabilmente ai vertici del governo, stimato come uomo di vasto sapere, politico esperto, cultore delle scienze, competente nel settore economico-finanziario, come suggeriscono le magistrature ricoperte nei semestri di contumacia dal Collegio: entrò infatti a far parte dei Deputati al commercio il 12 ott. 1720, il 6 nov. 1721, il 4 genn. 1727, il 15 genn. 1729; dei savi (o aggiunto ai savi) alla Mercanzia il 14 dic. 1726, l'11 dic. 1728, il 12 dic. 1739; fu nominato deputato (o aggiunto ai deputati) alla Provvision del danaro l'8 ott. 1722, il 7 ott. 1724, il 19 nov. 1727, il 6 ott. 1729, il 5 ott. 1730, l'11 ott. 1731, l'8 nov. 1732, il 3 ott. 1733, il 7 ott. 1734, il 1° ott. 1735, il 3 ott. 1736, il 12 ott. 1737, il 22 nov. 1738, il 3 ott. 1739. Naturalmente non riuscì mai a portare a termine il mandato, perché chiamato ad altra magistratura: fu anche aggiunto alla Sanità (5 ott. 1720) e provveditore alla Sanità (7 ott. 1723); provveditore sopra Monasteri (15 nov. 1725), sopraintendente alla compilazione dei sommari delle Leggi (7 genn. 1736), savio all'Eresia (1° febbr. 1737), correttore della promissione ducale (24 giugno 1741); ma, soprattutto, fu la nomina a riformatore dello Studio di Padova, più volte conseguita (7 maggio 1720, 20 maggio 1724, 26 maggio 1728, 12 luglio 1732, 9 ag. 1736, 1° sett. 1740), a segnarne l'attività e a dimostrare il peso assunto nella gestione della politica culturale della Repubblica.

Se si tiene presente che la carica era biennale, sottoposta a contumacia, ma compatibile con la titolarità di altre magistrature come il saviato del Consiglio - puntualmente ricoperto -, appare chiaro che il G. fece parte, per un ventennio, della ristretta cerchia di quei senatori che tennero la guida della Serenissima, cercando di rafforzarne l'immagine sul piano culturale; sarebbe stato proprio questo ruolo a spianargli, un giorno, la strada al principato.

Era appena tornato da Vienna, quando fece dotare Venezia della prima illuminazione pubblica, a somiglianza di quanto osservato nella capitale austriaca; poi fece ristampare i programmi didattici delle scuole elementari, dette dei sestieri (6 ag. 1720), quindi si occupò del riordino della Biblioteca universitaria, dove poté valersi dell'efficiente Guglielmo de Camposampiero (23 sett. 1721 e 10 febbr. 1730); contribuì inoltre - insieme con il collega Giovan Francesco Morosini, la cui firma è presente nelle più significative deliberazioni di quegli anni - al riordino della legislazione relativa all'editoria (25 genn. 1726), ripristinandovi la carica di sopraintendente alle Stampe, affidata a Giovan Francesco Pivati (5 giugno 1730). L'editoria costituiva una voce importante nel quadro dell'economia veneziana, ma il G. era stimolato anche da una personale sensibilità verso il mondo letterario: possedeva una delle migliori biblioteche di Venezia, militò in Arcadia con il nome di Armiro Elettreo, protesse il poeta-gondoliere Antonio Bianchi, al punto che vi fu chi sospettò che costui fosse solo un semplice prestanome del Grimani.

L'aspetto della personalità del G. che spicca maggiormente è la sua attenzione verso la cultura scientifica. Attorno agli anni Trenta Padova stava sottraendo a Bologna il primato scientifico, sulla scorta di un galileismo di ritorno rappresentato da Guglielmini, Vallisneri, Zendrini e Morgagni; come riformatore dello Studio di Padova, nel 1732 il G. contribuì a favorire l'insegnamento della chimica, affidato a Bartolomeo Lavagnoli (né si può escludere che il nome arcadico del G. - Elettreo - alludesse proprio ai suoi interessi per le scienze); nel 1737 rinnovò la normativa del dottorato in chirurgia del Collegio veneto; per molti anni, infine, protesse il fisico-matematico Giovanni Poleni, che gli dedicò diversi progetti di architettura urbanistica (durante il dogato del G., sarebbe stata aperta a Venezia la scuola di disegno, pittura e scultura diretta da Giovan Battista Piazzetta e furono rifatti i pavimenti delle procuratie, con pietre bianche e rosse, tuttora esistenti).

Il G. ebbe fama di avaro. In realtà amministrò con oculatezza i propri beni, badando a non eccedere in superflue prodigalità e curò la gestione del patrimonio domestico e della proprietà fondiaria (il nipote Marcantonio ne avrebbe sviluppato l'esempio, distinguendosi per le sue iniziative nei settori agronomico e minerario); egli si era reso conto che lo sviluppo economico - pubblico e privato - era correlato al progresso del sapere, ai benefici effetti che le innovazioni tecnologiche e scientifiche avrebbero potuto suscitare nel tessuto sociale. Il modello restava l'Inghilterra; forse ancora per questo il G. accettò l'elezione ad ambasciatore straordinario per l'ascesa al trono di Giorgio II, il 31 luglio 1727.

Suo collega doveva essere quel Nicolò Tron che gli era stato successore alla corte britannica e che, al pari di lui, condivideva l'ammirazione per il sistema economico inglese (di ritorno da Londra, nel 1717 Tron aveva portato con sé due macchine a vapore Newcomen-Savery). Ma la missione non ebbe luogo, in quanto fu lo stesso Giorgio II a dispensare la Repubblica dall'onere, accontentandosi del gesto di ossequio tributatogli.

Il 30 giugno 1741 il G. fu eletto doge al primo scrutinio. Durante il suo dogato, la Repubblica si mantenne neutrale nella guerra di successione austriaca, al termine della quale il G. non riuscì tuttavia a impedire la soppressione dell'antico patriarcato di Aquileia, sancita da Benedetto XIV il 6 luglio 1751; riuscì invece a porre fine ai contrasti con la S. Sede circa i sempre incerti confini nel delta del Po, né va dimenticato l'inizio della grande opera di salvaguardia della laguna, costituita dalla realizzazione delle difese a mare - i "murazzi" -, affidata a Bernardino Zendrini (24 apr. 1744).

Il G. morì a Venezia il 7 marzo 1752.

La commemorazione fu tenuta nella chiesa dei Ss. Giovanni e Paolo dal canonico Bartolomeo Schiantarello; quindi il G. fu sepolto in forma privata davanti all'altare maggiore della chiesa della Madonna dell'Orto. È raffigurato in stampe e quadri; nella sala dello Scrutinio a palazzo ducale è conservato un suo ritratto, opera di Francesco Salvatore Fontebasso.

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