LOMBARDO, Pietro

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 65 (2005)

LOMBARDO, Pietro

Matteo Ceriana

Figlio di Martino da Carona, tagliapietra, come dichiarato da lui stesso in un atto notarile del 1479 (Cecchetti, p. 422), nacque probabilmente negli anni Trenta del Quattrocento.

Il cognome Solari gli è stato attribuito dalla storiografia lombarda a partire dalla fine del XIX secolo (Caffi; Merzario) in seguito alla pubblicazione dei documenti che ne comprovano l'origine caronese, per la presenza di vari lapicidi di nome Martino nei diversi rami della famiglia Solari cui appartengono anche molti artefici milanesi. In particolare, si è proposto di identificare il Martino padre del L. con un lapicida caronese pagato con il fratello Filippo e Andrea da Carona per lavori al mausoleo Borromeo, già in S. Francesco a Milano e ora all'Isola Bella (palazzo Borromeo); tale identificazione, dimostrando che il padre del L. era all'opera in un cantiere prestigioso, giustificherebbe la successiva carriera in Veneto e l'avvio brillante del figlio (Gentilini, p. 60). Risulta, però, più valida l'ipotesi che il padre del L. fosse un lapicida - Martino di Giovanni - iscritto a Venezia nella mariegola della Scuola di S. Cristoforo nella prima metà del XV secolo, con molti altri artisti importanti (Cicogna, pp. 870 s.). In questo secondo caso, da Venezia il giovane L. si sarebbe recato a lavorare a Padova negli anni Cinquanta del Quattrocento, attratto, al pari di altri artefici lagunari della sua generazione come Bartolomeo Vivarini o i Bellini, dalla irripetibile stagione artistica padovana. Riguardo alla sua formazione, il L. sembra aver ricevuto un'educazione non comune alla preponderante maggioranza dei lapicidi, perché scrive con disinvoltura, come attestano la nota autografa del 1474 (Moschetti, 1927-28, p. 1514 doc. XXVI) e il documento del 1479 (Cecchetti). Se prima del suo debutto a Padova si fosse recato a Firenze o a Bologna resta dubbio: non è certo infatti possa essere lui il maestro "Piero Lonbardo" attivo a Bologna tra il luglio 1462 e il giugno 1463 (Beck). Ancor meno verosimile è che il L. abbia lavorato a Ferrara nelle sepolture Sacrati in S. Domenico e vi abbia incontrato la bottega di Antonio Rossellino attiva per la città estense. Lo stile degli esordi artistici del L. mostra, comunque, componenti fiorentine, spiegabili probabilmente con la presenza di Donatello nel cantiere del Santo, e un forte influsso della cultura figurativa padovana, mantegnesca in particolare.

Sua prima opera riconosciuta potrebbe essere una statua di S. Eufemia conservata nella cattedrale di Montepeloso (ora Irsina in Basilicata) e commissionata da Roberto de Mabilia, per molti anni residente a Padova, prima come studente di diritto e poi come notaio e rettore della chiesa di S. Daniele (Ceriana, 1997). Lo stesso de Mabilia commissionò ad A. Mantegna la famosa tela - ora nel Museo nazionale di Capodimonte a Napoli - con l'immagine della santa (1454): su tale figura la statua del L. è direttamente ricalcata. La data del dipinto tuttavia non può che servire da termine post quem per la scultura poiché non è noto con sicurezza quando le opere d'arte ordinate dal de Mabilia furono spedite nel suo paese natale. All'inizio degli anni Sessanta l'assenza da Padova del maggiore erede di Donatello, B. Bellano, fu forse decisiva per le prime importanti occasioni di lavoro del L.: primo fra tutti il Monumento funerario diAntonio Roselli, il celebre giurista di origine aretina, cavaliere e conte palatino oltre che professore dello Studio padovano (Moschetti, 1913).

Roselli ottenne uno spazio definitivo nella basilica del Santo nel gennaio 1464; alla sua morte, nel 1466, il grande monumento non era ancora terminato e il L. figurava come debitore del giurista, verosimilmente per gli anticipi ricevuti. Nel 1467 il monumento fu montato in chiesa, sotto il controllo del L. e di Lorenzo Genesini (Canozi) da Lendinara, dal muratore Bartolomeo di Luca. La menzione, accanto al L., dell'intarsiatore, pittore e tipografo è estremamente significativa per intendere quale fosse l'ambiente frequentato dal Lombardo. La tomba è un monumentale arcosolio derivato dai più moderni esempi fiorentini di B. Rossellino e Desiderio da Settignano. L'impaginazione architettonica grandiosa e fastosamente ornata racchiude parti figurative che comprendono le figure plastiche a tutto tondo come il gisant e i paggi nudi reggiscudo - primo esempio in Veneto di un tipo figurativo destinato a un ampio successo - e una lunetta con figure rese attraverso un bassorilievo tenuissimo e prospetticamente sapiente, di derivazione donatelliana.

Forse già in quegli anni il L. si iscrisse alla fraglia padovana dei lapicidi, cui certamente nel 1495 apparteneva (Rigoni, 1942-54, p. 144); tale formalità fu probabilmente richiesta dall'intensa attività dedicata all'edilizia civile. Al 9 genn. 1468 risale un accordo tra i fratelli Olzignani e il L. riguardante il pagamento dei lavori per il palazzo patavino (Moschetti, 1913; Rigoni, 1932-33, p. 214). Il L. dovette fornire le parti scolpite, paraste, capitelli, incorniciatura delle finestre, che servirono a ridecorare edifici preesistenti. Il cantiere era probabilmente iniziato nel 1466, quando il L. fu, con il lapicida Bernardo da Venezia, presente al testamento di Bernardo Olzignani. Al contrario, più nulla, a parte il contratto steso il 13 maggio 1466 in casa di Roselli, rimane della casa costruita dal L. per Francesco Miglioranza presso la chiesa del Carmine, casa che doveva avere porte finestre e balconi ad modernam, cioè ornati all'antica.

Una definizione che non può non ricordare il celebre "pingere in recenti", cioè con un linguaggio figurativo prospetticamente tridimensionale e plasticamente perspicuo, che si praticava nella bottega patavina di Nicolò Pizzolo alla fine degli anni Quaranta.

Del pari perduta è la sepoltura terragna per Jacopo Panvini pagata al L. dai figli del giurista nel settembre 1467, come pure il coevo bassorilievo con l'arme Strozzi ordinato da Giovanni Francesco per la chiesa del feudo di Villanova. Nell'ancora fondamentale studio di A. Moschetti sull'attività padovana del L. sono inoltre attribuiti alla sua attività un palazzo in via Altinate 18, casa Roselli (poi Lugli) in via Tadi 4, e ancora una casa in via Beato Pellegrino 12, tutti edifici che mostrano similari decorazioni all'antica; tra le sculture un altarolo in S. Maria dei Servi, una pila dell'acqua benedetta al Santo (già segnalata da Paoletti, 1893), una Madonna col Bambino entro lunetta nel Museo civico di Padova, da considerarsi tuttavia precedente. Occorre infine tenere presente che nel settimo decennio era attivo a Padova, entro una cospicua bottega familiare, un Pietro di Giovanni del Lago di Lugano che dimostra uno stile decorativo non molto dissimile da quello comunemente attribuito alla bottega lombardesca (R. Callegari, in Basilica del Santo. Dipinti, sculture…, a cura di G. Lorenzoni - E.M. Dal Pozzolo, Padova-Roma 1995, pp. 225 s.).

La reputazione di artista moderno - in grado di dialogare anche con Mantegna e i Canozi - raggiunta dal L. a Padova dovette essere molto alta, se un tal maestro Liberale a referenza della propria capacità di giudizio ricordava l'alunnato presso il L. "doctissimus magister" (Rigoni, 1970, p. 132); presso di lui si era formato anche G. Minelli che, infine, gli intentò causa per una mercede non pagata (Id., 1932-33, p. 202). Nell'ambiente dei Canozi da Lendinara lo ricorda l'umanista M. Colacio, che lo loda come abilissimo statuario capace di scolpire "vivos de marmore vultus" (Moschetti, 1913, p. 29 n. 3). È anzi possibile che proprio la prima moglie del L. fosse una lendinarese (Paoletti, 1893, p. 249). Ancora nel Seicento lo ricorda G. Campagna quando asserisce, a garanzia delle proprie capacità, di aver lavorato nella cappella del Santo a Padova dove avevano lasciato opere il L. e Tullio Lombardo (Gronau).

Nel settembre 1468 il L., ancora residente a Padova, nominò due procuratori forse già in previsione di un viaggio veneziano (Rigoni, 1932-33, p. 213 s.); infatti nel febbraio del 1469, quando la Veneranda Arca del Santo aveva comperato i marmi avanzati del Monumento Roselli perché il Bellano li usasse per l'armadio delle reliquie, il nome del L. non compariva più, a meno che non sia identificabile con un lapicida genericamente menzionato come venuto da Venezia per stimare tali materiali (Sartori).

Vi sono poche possibilità che il L. si possa identificare con il Pietro Lombardo "del Lago di Lugana" citato nella matricola della fraglia dei lapicidi e muratori di Vicenza nel 1470 (Zorzi, 1959, p. 366), più verosimilmente un coevo Pietro di Giovanni; invece certamente non gli appartengono le opere vicentine attribuitegli da Zorzi, le lastre Fioccardo in duomo, i lavori per i Porto nella villa e nella cappella di Thiene e, infine, l'altare Poiana in S. Lorenzo (1474). Ancor più inverosimile l'ipotesi che il L. sia da identificarsi con il lapicida Pietro da Como attivo tra il 1473 e il 1474 (Moschetti, 1927-28, pp. 1495-1498) nel cantiere del duomo di Belluno.

Il primo documento del L. a Venezia è la citata testimonianza autografa dell'11 ag. 1474, in cui dichiara di avere lavorato nella casa di Galeazzo Mussato a Padova. Quale sia stata l'occasione del trasferimento del L. a Venezia è difficile dire. Di certo operò al rivestimento marmoreo del coro nella chiesa francescana dei Frari, iniziato prima del 1468 e terminato nel 1475 (Paoletti, 1893, p. 193): pur nel generale rispetto di un linguaggio decorativo tardogotico, lo schema compositivo di formelle ottagone divise da paraste discende dall'archetipo donatelliano al Santo, mentre sul piano figurativo i dottori della chiesa sotto gli amboni, sottilmente prospettici e a bassissimo rilievo, sono il segno della presenza dell'artista. Il medesimo gusto prospettico informa il disegno della lastra terragna per L. Diedo (Venezia, Frari), dove in una ricca cornice a girali due putti reggono le insegne del defunto entro un volto tirato in prospettiva di schietta ascendenza mantegnesca (Mariacher, 1955).

Anche la Tomba del doge Pasquale Malipiero (morto nel 1462) nella chiesa domenicana dei Ss. Giovanni e Paolo era stata iniziata, secondo una tipologia ormai tradizionale per l'ambiente lagunare, con il defunto sulla cassa sotto un baldacchino di spessa stoffa: l'opera, attribuita al L. fin dall'Ottocento (Diedo - Zanotto), racchiude i pezzi già approntati in un'articolata edicola che è variazione dell'invenzione donatelliana per l'altare bronzeo del Santo.

Ma l'impresa che consolidò definitivamente la fama del L. in laguna è la cappella presbiteriale della chiesa francescana osservante di S. Giobbe, voluta dal doge Cristoforo Moro (morto nel 1471) come luogo della sua sepoltura: nel testamento del Moro (1470) si esprime (Cicogna, pp. 724-726) la volontà che si mantenga il progetto già in essere e dal committente stesso approvato.

L'epigrafe funeraria del doge ricorda la data 1470. Lo spazio pienamente rinascimentale era - prima degli ampliamenti successivi - una scarsella quadrangolare cupolata conclusa da un'abside e fiancheggiata al fondo della navata da absidi minori: uno spazio di ascendenza toscana e disegnato con un nuovo rigore geometrico e proporzionale, nettamente contrapposto al fluire indifferenziato dell'austera navata gotica. Ciò che rendeva eccezionale lo spazio agli occhi dei contemporanei, come testimonia Colacio entro il 1475 (Savettieri, p. 8), era la qualità della ricca decorazione marmorea figurata e ornamentale, dove ricordi padovani e suggerimenti toscani (dalle opere di Andrea Della Robbia nella stessa chiesa) si mescolano tanto nelle parti autografe, di alta qualità, che in quelle nelle quali si è proposto di riconoscere l'esordio dei figli (Markham Schulz, 1977; Ceriana, 1992-93). Ciò appare giustificato anche dal fatto che Colacio, lodando Antonello da Messina, Mantegna, i Bellini, A. Rizzo, Bellano con il L., asserisce che i giovani Antonio e Tullio Lombardo sono agli esordi.

Verso la fine dell'ottavo decennio o all'inizio del nono, la bottega del L. realizzò probabilmente per la stessa chiesa la cornice della grandiosa pala belliniana certamente in gran parte progettata in collaborazione con G. Bellini stesso, come già era molto probabilmente avvenuto alcuni anni prima per il simile altare marmoreo della pala di S. Caterina nella chiesa dei Ss. Giovanni e Paolo.

Il testamento autografo di Nicolò di Andrea Gussoni risale al luglio 1478 e da esso si può evincere che a quella data erano state sostanzialmente portate a termine le imprese edilizie condotte dal L. per il ricco patrizio: il palazzetto e la cappella nella chiesa di S. Lio (Paoletti, 1893, pp. 194, 222; Ceriana, 1992-93).

La cappella è una riedizione più attenta e coerente dello schema già adottato a S. Giobbe con in più l'adozione, unica a Venezia, della cupola a melone di origine fiorentina. Nel bassorilievo che funge da pala d'altare sembrano già presenti anche i figli. La riedificazione del palazzo, importante per la sua precocità, unifica preesistenze edilizie di assetto assai irregolare attraverso una facciata coperta di marmi e, nella polifora di archi a tutto sesto, una ricca decorazione di girali all'antica.

Per quanto riguarda le opere scultoree, agli stessi anni Settanta deve risalire l'altare Corbelli nella chiesa agostiniana di S. Stefano, un'ancona marmorea - ora dispersa - del quale facevano parte tre statue a tutto tondo: S. Nicola da Tolentino al centro, S. Girolamo e S. Paolo. L'altare fu commissionato forse da Nicolò Maria Corbelli uomo d'armi che fu anche al servizio di Federico da Montefeltro. Il S. Gerolamo reca la firma del L. ed è una delle sue migliori opere di scultura, per la naturalezza plastica e la rifinita ma morbida epidermide, assimilabile alle opere padovane.

Verso la fine del decennio si collocano due importanti monumenti ducali: il primo fu forse quello per il doge Nicolò Marcello (morto nel 1474) già in S. Marina (ora Ss. Giovanni e Paolo), dove lo schema ad arcosolio si arricchisce di colonne libere finemente decorate con ornamenti antiquari e di statue allegoriche.

Il secondo, quello del doge Pietro Mocenigo (morto nel 1476), provocò certamente, alla fine degli anni Settanta, una forte impressione tanto per la grandiosità, per la quantità e la qualità delle sculture che per il tema profano, una scena di trionfo militare fissata nella pietra e due soggetti mitologici di tema erculeo (Paoletti, 1893, pp. 203 s.).

La macchina, citata come credenziale del L. nei documenti riguardanti S. Maria dei Miracoli, è rammentata con scandalo - per la paganità della sue figurazioni - dal domenicano tedesco Felix Faber in viaggio a Venezia e compare come unica opera del L. ricordata da F. Sansovino nella Venezia città nobilissima del 1581. Il grandioso frontespizio ad arco trionfale, fittamente decorato e ornato da nicchie che contengono Cesari antichi, racchiude la statua del doge portato in trionfo e stante (secondo la tradizione onoraria dei capitani da Mar) sul sarcofago, negli specchi del quale due bassorilievi illustrano le tappe salienti della campagna militare contro i Turchi. Il ritratto del doge è uno dei capolavori del L. e della scultura veneziana rinascimentale. La responsabilità progettuale ed esecutiva del successivo Monumento per il doge Andrea Vendramin (morto nel 1478) nella chiesa dei Servi fu prevalentemente dei figli Antonio e Tullio.

Ai primi anni Ottanta deve risalire invece l'Epitaffio funebre di Ludovico Foscarini (già nella chiesa dei Frari a Venezia, ora frammentario) con cassa riccamente decorata ed epigrafe entro un campo di marmi colorati, uno schema che ebbe una vasta fortuna poiché interpretava un tema tradizionale attraverso il prestigio di forme decorative all'antica.

Il monumento funerario che garantì nella storiografia erudita la fama ininterrotta del L. fu tuttavia quello di Dante a Ravenna, ordinato nel 1483 dall'umanista Bernardo Bembo durante il suo podestariato e orgogliosamente corredato dal L. di una firma latina.

Il bassorilievo con il poeta in lettura, magnifico frutto della cultura figurativa prospettica padovana, è inserito in un arcosolio di marmi colorati insieme al sarcofago con l'epigrafe commemorativa e alle armi del patrizio veneziano. L'austerità severa della decorazione prelude allo stile maturo della bottega inaugurato a partire dal decennio successivo. Il disegno per questo monumento, per ora l'unico foglio ascrivibile con qualche probabilità al L., è stato scoperto in un incunabolo di Landino appartenuto a Bembo (Parigi, Bibliothèque nationale) da Wendy Stedman Sheard (Pincus, in corso di stampa). A questa stessa campagna di lavori appartengono anche le due grandi colonne della piazza maggiore di Ravenna con basi istoriate e le immagini di S. Apollinare e del Leone marciano (distrutto). Assai incerta è, al contrario, la paternità lombardesca per il progetto della torre dell'Orologio nella stessa piazza (distrutta) che testimonianze settecentesche vorrebbero costruita nel 1483-84 sotto il podestà Baldassare Trevisani (Ricci, 1905). La committenza bembiana è stata identificata anche all'origine di un bel bassorilievo con una Vergine e il Bambino di collezione privata padovana (Callegari, 1997), cui si legano alcune altre versioni dell'analogo tema da scalare tra ottavo e nono decennio; si ricordano la Madonna della Ca' d'oro (da S. Maria degli Angeli a Murano) e quella nel Metropolitan Museum di New York proveniente da Treviso ma con lo stemma del committente cancellato. Il piccolo Salvatore infante del Victoria and Albert Museum di Londra è sempre considerato opera del L., mentre non gli appartiene un bassorilievo con l'Adorazione dei magi attribuitogli (Torino, Galleria Sabauda). Ancora da mettere a fuoco compiutamente il problema dei ritratti marmorei, tra i quali il più vicino allo stile del L. potrebbe apparire quello di Marco Barbo (morto nel 1490) nipote di Paolo II, al seminario patriarcale di Venezia. Molti sono i falsi ottocenteschi, prodotti per il mercato antiquariale lagunare. Infine, molte opere stilisticamente legate al L., o che derivano da modelli da lui prodotti nell'ottavo e nono decennio, furono inviate, dove sono ancora, in Istria e in Dalmazia dalla bottega veneziana. Ampiamente riconosciuta è l'inconsistenza dell'attribuzione venturiana dell'Arca di s. Terenzio a Faenza, bellissima opera ancora anonima (Venturi, 1908, pp. 1074-1076).

Negli anni Ottanta la mole di lavoro della bottega e il numero dei cantieri guidati dal L., o ai quali forniva materiali lavorati, appaiono davvero impressionanti. Nel 1480 il L. fornì il disegno del refettorio di S. Antonio di Castello facendo da mallevadore - con sottoscrizione autografa - per il contratto tra il convento e i due muratori Giovanni di Giacomo da Como e Andrea di Bassano da Cremona (Cicogna, p. 785).

Indubbiamente, però, l'opera maggiore di quegli anni, e forse di tutta la sua carriera, fu la chiesa di S. Maria dei Miracoli, santuario votivo edificato per custodire un'immagine miracolosa di proprietà della famiglia Amadi.

L'edificio, straordinario per forma e ricchezza di materiali, fu affidato dai procuratori della fabbrica - tra i quali specialmente eminente era Francesco d'Alvise Diedo, amico di Bembo e L. Foscarini - al L. con due contratti, uno del 4 marzo 1481 per la navata fino a circa metà dell'altezza con l'obbligo di fornire anche i materiali, l'altro del febbraio 1484 (ma vi è discordanza tra le fonti, che riportano anche l'anno 1488) per la scarsella e le coperture, dove il L. figura soprattutto come coordinatore e garante delle varie maestranze attive nel cantiere. Alla posa della prima pietra, nel 1481, seguì un'attività edilizia continua, tanto che entro il decennio la fabbrica era sostanzialmente conclusa. Si tratta di un edificio sorto ex novo, situazione rarissima a Venezia, e isolato su tutti i lati rispetto al tessuto urbano fittissimo della città: da questa peculiare situazione dipende il suo rivestimento esterno, fatto di tarsie di marmi colorati entro la griglia di due ordini architettonici, composito e ionico, sovrapposti. Nell'interno il piano della scarsella, quadrata e coperta da cupola su tamburo, è innalzato dalla presenza della sagrestia in modo da rendere dominante su tutta l'aula l'altare con l'immagine dipinta della Vergine miracolosa. Anche l'interno è arricchito da sontuosi rivestimenti marmorei e da una profusione di ornamenti intagliati. L'edificio riesce a coniugare perfettamente la tradizione visiva della basilica marciana, foderata di marmi e colonne, con modelli fiorentini antichi (il battistero) e moderni (il coro donatelliano al Santo di Padova) e monumenti antichi come l'arco dei Sergi a Pola. Nella ricchissima decorazione scultorea approntata da una pletora di intagliatori sembra rappresentativo dello stile del L. quasi solo il vecchio profeta a mezzo busto nel timpano della seconda porta laterale verso la scarsella, di qualità molto alta. La fama ottocentesca della chiesa dei Miracoli può spiegare la firma apocrifa del L. fatta apporre da Vittorio Emanuele Taparelli marchese d'Azeglio a una balaustra marmorea comperata sul mercato antiquariale veneziano nel XIX secolo e rimontata a Saluzzo, in casa Cavassa (Tetti).

L'uso di un ordine di paraste per scandire razionalmente e prospetticamente lo spazio insieme con la morfologia dei capitelli e delle decorazioni ha permesso di attribuire al L., seppur con qualche residua perplessità, il progetto e la realizzazione dell'atrio esterno della Scuola grande di S. Giovanni Evangelista, sofisticata architettura celebrativa e festiva a scala urbana compiuta nel 1481, come attesta la data incisa sul monumento stesso (Paoletti, 1893, pp. 221 s.). L'altra importante realizzazione architettonica di quel decennio, perduta, è la chiesa certosina di S. Andrea.

Non si hanno date precise sull'inizio dell'attività del L. per il cenobio, ma nella pala d'altare a bassorilievo che da là proviene (Venezia, seminario) la scena della Natività sembra cadere entro l'ottavo decennio o l'inizio del seguente, poiché la capanna è disegnata virtuosisticamente in prospettiva e lo stile delle figure conserva ancora una sottigliezza padovana. L'edificio della certosa, in attesa che scavi archeologici permettano di rilevarne la pianta e di verificare la notizia di Sansovino (p. 79v) che la dice "di compositura disconcertata per essere edificato più volte", è valutabile solo attraverso alcune testimonianze grafiche, tra le quali basilare quella settecentesca di A. Visentini (Paoletti, 1893, pp. 227 s.; McAndrew, 1969). Sembra certo, comunque, che si dovette trattare, con l'impianto a quincunx ripetuto, il susseguirsi di spazi cupolati e un ordine astratto a impaginare le murature, di una realizzazione di notevole peso per la trasformazione rinascimentale degli schemi architettonici ecclesiali della tradizione bizantina a Venezia. Temanza (1778), per dar conto dell'opera del L., ricorda come nella cappella maggiore della chiesa fossero usati dei rocchi di pietra riccamente decorati per allungare i fusti delle colonne antiche di reimpiego, e come questo stesso espediente fosse poi stato parimenti utilizzato anche da Palladio a S. Giorgio.

Nella distrutta chiesa di S. Cristoforo della Pace, fondazione agostiniana strettamente legata alla dinastia sforzesca, il L. avrebbe costruito un barco pensile ornato di marmi e statue (Zorzi, 1972, p. 401). Ormai abbandonate sono invece le attribuzioni al L. della cappella presbiteriale di S. Michele in Isola, voluta da Andrea Loredan (Zanetti, p. 5) e della distrutta scuola di S. Giovanni Battista dei Battuti a Murano (Zorzi, 1972).

Alla fine del secolo XIX Biscaro (1899) pubblicò documenti, perduti nella seconda guerra mondiale, riguardanti la cappella maggiore della cattedrale di Treviso: il 25 genn. 1485 gli esecutori del vescovo di Treviso, il francescano Zanetto da Udine, stipularono un contratto con il L. in base al quale il proto si impegnava a eseguire la tomba del prelato secondo un disegno approvato dai commissari, un ambone ottagonale, l'arca dei Ss. Teonisto Tabra e Tabrata - da collocarsi dietro l'altare -, un occhio nella controfacciata della chiesa e, infine, a completare la cappella maggiore, una cupola su tamburo.

Il presule, morto nel marzo del 1485, aveva scelto personalmente l'architetto della cappella che doveva essere luogo della sua sepoltura certo sull'onda dell'entusiasmo di quanto già realizzato dal L. nella chiesa dei Miracoli. Una transazione del 15 sett. 1486 stipulata tra il L. e i commissari informa che la cupola della cappella era crollata rovinosamente qualche giorno avanti (Biscaro, 1899). Nel nuovo contratto il L. si impegnò a ricostruire la cappella ingrandendola, a lasciare come suo rappresentante sul cantiere uno dei due figli e ad assicurare una garanzia decennale. L'epitaffio funebre di Zanetto è un complesso plastico realizzato largamente con l'intervento dei figli: al L. si può ascrivere solo la figura stante del Dio Padre. L'Arca dei santi martiri, completata solo nel 1506, è stata attribuita a Giambattista Bregno. A Treviso sono poi stati attribuite al L., senza sicuro fondamento, numerose opere, già da Paoletti (1893, p. 229) elencate con scetticismo. Tra le opere di edilizia civile il palazzo Bettignoli da Brescia - circa del 1493 ma distrutto e del quale i grandiosi stemmi di indubbio stile lombardesco si conservano nell'atrio della Biblioteca civica (Federici; Bellieni, p. 210) - e il palazzo Barisani di fronte alla cattedrale, anch'esso distrutto durante il secondo conflitto mondiale (Biscaro, 1897, p. 149); qualche maggiore probabilità ha la paternità lombardesca del palazzo da Pola (1488), i ricchi poggioli del quale, transenne traforate simili a quelle dei Miracoli, sono al Victoria and Albert Museum di Londra (Pope-Hennessy).

Degli anni Ottanta sono noti altri lavori a Venezia nei quali il L. fu coinvolto: la bottega fu pagata nel 1483 per la fornitura di alcuni dei pezzi necessari alla realizzazione del progetto codussiano per il nuovo S. Zaccaria (Paoletti, 1893, p. 109). Un incarico assai simile, fornitura di materiali e scultura delle parti decorative, dovette ricevere la bottega anche per un altro progetto di M. Codussi, la cappella di Marco Corner e di suo figlio Giorgio nella chiesa dei Ss. Apostoli, databile nelle sue parti essenziali entro il nono decennio (Ceriana, 1996): gli elementi decorativi maggiori, colonne, plinti e capitelli, mostrano infatti un linguaggio ornamentale del tutto omogeneo ad altre opere di quegli anni del L., dalle colonne ravennati al cantiere dei Miracoli. La collaborazione con il maestro bergamasco dovette inoltre essere ancor più stretta nella ricostruzione della Scuola di S. Marco dopo il rovinoso incendio del 1485 (Paoletti, 1929).

Al L., in società con G. Buora, toccò l'incarico delle parti lapidee del monumentale edificio, tanto nella sala terrena che nella facciata, senza dubbio iniziata su un modello del L., dati gli stretti legami tra il primo ordine della facciata e la contemporanea chiesa dei Miracoli. Dopo una perizia di Rizzo e Codussi sull'eseguito, nel novembre del 1490, la fabbrica fu conclusa su disegno di Codussi, ma con pezzi ornamentali sempre preparati nella bottega lombardesca. La definizione della figura artistica di Buora, spesso collaboratore del L., ha permesso di fare chiarezza: a lui sono state ascritte molte opere considerate in passato caratteristiche del L., come la Madonna delle Biade in palazzo ducale, il rivestimento marmoreo del coro agostiniano di S. Stefano (1488), l'epitaffio funebre di Jacopo Marcello (Venezia, Frari) e quello di Agostino Onigo (Treviso, S. Nicolò).

Alla bottega del L. appartengono sicuramente, invece, parte dell'altare per Zannetta Grimani (Venezia, Ss. Giovanni e Paolo), iniziato dalla bottega di Andrea del Verrocchio solo dai primi anni Ottanta e concluso entro il 1486 (Markham Schulz, 1977), nonché il più tardo e importante altare ordinato dall'abate benedettino G. Trevisani nei primi del Cinquecento con i Ss. Giovanni Battista, Benedetto e Zaccaria per Murano (Moschini). Tra gli altari, tuttavia, resta di maggior rilevanza quello per la cappella Colleoni a Bergamo, scolpito dai veneziani per completare la mole marmorea di G.A. Amadeo.

Nel novembre del 1490 l'ancona e le statue erano state abbandonate in casse presso il confine di Crema a causa degli eventi bellici di quegli anni; verosimilmente il complesso fu montato solo l'anno successivo dallo scultore medesimo (Meli). Delle tre statue, l'unica che dovrebbe appartenere al L. è il S. Marco leggente (ancora racchiuso in una complessa e sofisticata linea di contorno di ascendenza mantegnesca), poiché le altre rivelano lo stile maturo di Tullio e Antonio.

Un capitolo da indagare ancora è quello degli edifici civili di stile lombardesco dell'ultimo ventennio del secolo a Venezia: tra i palazzi con una facciata marmorea decorata all'antica quello per il quale è stata proposta con più verosimiglianza la paternità è la casa del ricco segretario Giovanni Dario a S. Vio, in costruzione intorno al 1487. Anche in questo caso un edificio preesistente è rivestito da una facciata riccamente policroma, nel quale le asimmetrie distributive sono compensate da motivi figurativi presenti anche a S. Maria dei Miracoli (Puppi - Olivato, p. 50).

Al 1495 risale il rifacimento del chiostro del capitolo del monastero benedettino di S. Giustina a Padova che, come afferma Cavacio, fu iniziato su un progetto del L. per ordine dell'abate Simone da Pavia. Del nuovo chiostro con pilastri quadrati di pietra d'Istria fu costruito solo un lato a causa, forse, del costo eccessivo della prevista ornamentazione arricchita di incrostazioni di marmo greco (Gervasi). L'opera fu distrutta nel rifacimento della fine del Cinquecento (Rigoni, 1942-54). Poco dopo la battaglia di Fornovo (6 luglio 1495), il marchese di Mantova Francesco Gonzaga ordinò al L. una cappella marmorea, l'altare dei Voti o dell'Incoronata in duomo, forse su suggerimento di Mantegna stesso, mentore artistico della corte mantovana, che conosceva il L. fin dagli anni padovani.

Non è affatto certo che il progetto fosse del L., e comunque il modello lo si doveva conservare a Mantova presso la corte se il L. lo richiese a Isabella d'Este nel 1496 (Brown - Lorenzoni). La commissione si trascinò penosamente negli anni a venire tra richieste di pagamenti, solleciti e inadempienze (Luzio - Renier; Brown, 1969). Nel 1511 il marchese inviò il pittore L. Leombruno a verificare lo stato dei lavori; alla morte del L., tuttavia, le pietre, in buona parte già pronte, erano ancora nella bottega veneziana (Bertolotti).

Nel maggio del 1495 il L. fu pagato dai deputati di Udine con a capo Antonio Savorgnan per il modello da lui approntato per l'ampliamento della loggia comunale di Udine. Non è stato ancora chiarito quanta parte del progetto lombardesco sia in effetti stata eseguita (Battilotti, p. 55). Sempre nel 1495 il L. fu chiamato anche a Vicenza a "consigliare nel metere delle scalle" alla basilica cittadina (Zorzi, 1937).

La destituzione da proto di palazzo ducale e la fuga da Venezia di A. Rizzo nell'aprile del 1498 costituirono per il L. l'occasione per accedere al più alto incarico previsto dalla committenza pubblica. Il L. operò come proto, infatti, forse già nel maggio di quell'anno (Lorenzi, p. 119).

Non è ancora del tutto chiaro il contributo del L. nella ricostruzione del palazzo dopo l'incendio del 1483, in particolare della grandiosa e ornatissima facciata orientale sul cortile in costruzione a cavaliere dei due secoli. Tuttavia, se i due ordini di logge sono evidentemente la continuazione dell'articolazione tardogotica del palazzo, nei piani superiori le monofore e le polifore inquadrate da tabernacoli col timpano curvilineo e arricchite da colonne alveolate sono un'invenzione che risente dei contemporanei cantieri veneziani, in particolar modo la facciata della Scuola grande di S. Marco. Le serie documentarie relative a palazzo ducale conservano il ricordo dei diversi compiti del proto, dalla stima del cantiere codussiano della torre dell'Orologio nel novembre del 1500 (Paoletti, 1893, p. 189), all'amministrazione dei materiali del palazzo (1498: Lorenzi, pp. 120 s.), alla costruzione delle case accanto alla torre dell'Orologio (1502: Cadorin, p. 164 n. 24), dal rifacimento dei tetti (1503: ibid., n. 23), fino all'allestimento di una prigione per rinchiudervi un suo antico committente, il marchese di Mantova (Lorenzi, pp. 150 s.). Nel 1506 Bernardo Bembo, divenuto capo del Consiglio dei dieci, si adoperò affinché, vista l'utilità e la quantità del lavoro svolto, venissero pagati i crediti accumulati dal L. nella carica di proto, e chiuse l'ordine commentando salomonicamente "imperochè el mercenario die haver la mercede sua" (ibid., pp. 133 s.). Contrariamente a quanto scritto anche di recente (Cocke), i camini con lo stemma Barbarigo, fatti approntare dal doge Agostino all'inizio del 1492, non sembrano attribuibili al L., innanzi tutto per ragioni di stile, né gli appartiene il bel rilievo votivo del doge Leonardo Loredan.

Non vi è traccia dell'opera del L. nelle sculture della cappella Badoer Giustinian a S. Francesco della Vigna decorata da J. Tatti (detto il Sansovino) con i materiali plastici ordinati da Gerolamo Badoer verso la metà degli anni Novanta del Quattrocento tanto per il rivestimento marmoreo del coro dei frati che per il proprio altare: data la presenza tra i riquadri plastici di opere di Tullio e di Antonio, oltre che di Bregno, è assai probabile però che tutta l'impresa sia stata progettata e coordinata dal L. (Markham Schulz, 2003).

Nuove ricerche hanno dimostrato che la grandiosa tomba dei due dogi Marco e Agostino Barbarigo in S. Maria della Carità fu appaltata da Agostino stesso nel 1492 a Buora e Bartolomeo di Domenico Duca (Roeck, pp. 31-33); in realtà anche il progetto generale dell'enorme parete incrostata di marmi non sembra mostrare affinità con lo stile architettonico del L. ma con quello di Rizzo. Molto probabilmente è un'opera assai più tarda il busto di terracotta di Marco Barbarigo nel Museo di belle arti di Budapest (Eisler).

Nel 1502 il L. ricevette l'incarico di ricostruire il duomo di Cividale.

Il lavoro comprendeva il consolidamento delle muraglie delle navate laterali, costruite da Bartolomeo delle Cisterne a partire dal 1457, e il rifacimento della navata centrale, in particolare la grande volta a botte, e soprattutto della zona presbiteriale. Quest'ultima, con la scarsella quadrangolare sopraelevata e cupolata e l'abside scandita da due ordini di paraste, è la parte dell'edificio che più chiaramente mostra i caratteri dello stile lombardesco.

Nel 1507 fu mallevadore per il figlio Tullio nell'incarico per la costruzione del S. Salvador, tanto che solo dopo l'eventuale morte del padre il più giovane Lombardo avrebbe potuto essere architetto unico della fabbrica (Tafuri, p. 44). Nello stesso anno il L. assistette con B. Bembo, P. Donà, P. Contarini, G. Lascaris, G.B. Egnazio e fra Giocondo alla prolusione di L. Pacioli nella chiesa di S. Bartolomeo a Venezia.

I confratelli della Scuola grande della Misericordia elessero, nel febbraio del 1509, il L. proto e gli affidarono, insieme con il figlio Tullio, l'esecuzione del modello scelto (Paoletti, 1893, p. 248). In questa occasione i due maestri furono fatti confratelli della Scuola, in parte probabilmente come forma di parziale compenso in parte per controllarne meglio l'operato. Nel 1514, come gastaldo della fraglia veneziana dei tagliapietra, il L. propose di costruire una nuova sede per la Scuola (Monticolo), ma l'anno seguente, quando il progetto si concretizzò con l'acquisto del sito presso la chiesa di S. Aponal, il L. non era più in carica, forse perché già malato.

Il L. morì a Venezia nella primavera del 1515, come attesta una lettera dell'8 luglio del marchese di Mantova, che, scrivendo ai figli per avere notizie dei marmi della sua cappella, aggiungeva: "dolene assai de la morte di maestro Petro; al quale per la singolare virtù sua […] portavamo singular amore" (Bertolotti, p. 73). Non è noto il luogo di sepoltura del L., ma del tutto priva di fede deve essere la notizia di Guarini, secondo il quale sarebbe sepolto a S. Domenico di Ferrara con il figlio Antonio.

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