DELLA TOSA, Pino

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 37 (1989)

DELLA TOSA, Pino (Pinaccio, Pinuccio)

Franca Allegrezza

Nacque probabilmente a Firenze, unico figlio o unico dei figli di Vanni di Napoleone entrato nella vita politica, intorno al 1280: la prima notizia certamente riferentesi a lui riguarda la sua partecipazione, nel 1307, ad un Consiglio della Signoria.

La famiglia, un potentissimo ramo della consorteria dei Visdomini, che aveva assunto il cognome dalla sposa di Davizzo Visdomini, Tosa di Migliorello, partecipava da protagonista alla vita politica cittadina dai tempi del Comune consolare. Abitanti nel sestiere di Porta Duomo, popolo di S. Maria in Campidoglio, i Della Tosa, o Tosinghi, erano guelfì da sempre e, per la loro potenza, dovevano essere particolarmente invisi alla fazione ghibellina, che già nel 1248 aveva distrutto il loro palazzo in Mercato Vecchio, e con quello una torre alta m 75. Anche dopo lo scontro di Montaperti - i Della Tosa vi avevano partecipato con un capitano ed alcuni ufficiali - i ghibellini si erano di nuovo accaniti contro i loro beni, tanto da arrecare danni per una cifra stimata, nel 1269, superiore di molto alle 1.500 libre. Dichiarati nel 1293, in seguito all'approvazione degli ordinamenti di giustizia, magnati, i Della Tosa, benché uniti da complessi vincoli consortili ai Donati, si erano, nel 1300, divisi tra guelfi bianchi e neri, contando nel primo schieramento Baschiera e Biligiardo, nel secondo messer Rosso.

L'affermazione del D. coincise con la scomparsa di questo "cavaliere di grande animo" della sua famiglia. Messer Rosso, infatti, morì il 10 luglio 1309; pochi giorni dopo, il 20 luglio, i suoi due figli Simone e Gottifredi ricevettero la nomina a cavaliere della Parte e "con loro un giovane loro parente chiamato Pinuccio" (Compagni). Il D. era comparso sulla scena politica cittadina già il 6 ottobre dell'anno precedente, quando aveva partecipato - a fianco di Rosso Della Tosa, Pazzino de' Pazzi e Geri Spini - allo scontro finale con i Donati; e due anni prima, quando, l'11 gennaio, aveva preso la parola nel Consiglio dei cento.

Difficilmente, invece, si può riconoscere il D. nel "Pinuccius de la Tonsa" inviato dalla Signoria come podestà a Casole nel 1297 e a Monte San Savino nel 1305; o nel Pinuccio Della Tosa schierato, nel maggio del 1300, accanto a messer Rosso dalla parte dei Donati contro i Cerchi: una presenza politica attiva così lontana dal 1309 e l'obbligo dei trent'anni per ricoprire cariche pubbliche sarebbero infatti in contraddizione conla giovane età, sottolineata dal Compagni, del Pino creato cavaliere nel luglio del 1309.Dalla nomina a cavaliere, mentre i figli di Rosso, "volendo tener gran vita per essere oriorati", vedevano diminuire la loro fortuna politica, quella del D., "il quale in poco tempo si fece grande" (Compagni), cominciò a crescere. Nel 1310, in agosto, il D. ricevette l'incarico di accompagnare Diego Della Rata, maresciallo del re di Napoli Roberto d'Angiò, comandante delle truppe fiorentine, nel giro di perlustrazìone per fortificare, in vista dell'attacco di Arrigo VII, la città.

Podestà di Brescia nel 1311, durante l'assedio posto da Arrigo VII a quella città ribelle (23 febbraio-10 ottobre), il D. ricevette l'anno seguente dalla Signoria l'incarico di svolgere una missione diplomaticiassai complessa e delicata. Nell'estate del 1312, insieme con Geri Spini, avviò infatti trattative segrete in vista di una pace separata tra Firenze ed Arkigo VII, che, incoronato imperatore a Roma il 29 giugno, aveva preso la decisione di muovere contro le città toscane ribelli. Intermediario fu il sovrintendente generale della Zecca imperiale, Riccardo Uguetti, il quale si recò apposta a Tivoli, dove risiedeva allora il sovrano. Tali trattative, però, furono poi lasciate cadere dagli stessi Fiorentini, per essere più tardi riprese - ma senza risultati concreti - durante l'assedio posto da Arrigo VII a Firenze (19 sett.-30 ott. 1312), quando il D. e lo Spini presentarono al sovrano, a nome del loro governo, un'ipotesi di intesa, sulla base di precisi impegni reciproci. Si consentiva all'insediamento, nei Comuni guelfi, di vicari imperiali, che avrebbero dovuto però essere tratti da elenchi predisposti dagli stessi Fiorentini e dai loro alleati. Arrigo VII, in cambio, doveva impegnarsi a toghere l'assedio a Firenze a lasciare col suo esercito la Toscana, a non attraversare coi suoi il territorio di alcuna delle città alleate di Firenze. Erano condizioni che il sovrano difficilmente avrebbe potuto accettare, e che infatti respinse.

La notizi a, fornita da alcune fonti cronistiche, che il governo di Firenze fosse l'ispiratore di tali iniziative, o che ne fosse comunque informato e lasciasse fare, è stata revocata in dubbio, in quanto priva di riscontri obiettivi, dalla critica storica. Anzi, è stato fatto notare che "ì priori di Fìrenze dichiararono solennemente ai Comuni alleati, quando corsero di nuovo voci sulla riapertura delle trattative con l'imperatore, che essi sino allora non le avevano intavolate e, anche in avvenire, non lo avrebbero fatto senza informarne prima "i fratelli di Lucca e di Siena" (Davidsohn, IV, p. 684). In realtà non esistono fonti ufficiali che attestino l'avallo della Signoria ai tentativi per giungere a un accordo compiuti dal D. e dallo Spini. Tuttavia, proprio l'assenza di riferimenti in proposito riscontrabile nei documenti di Cancelleria può fornire, e contrario, la prova dell'impegno del governo fiorentino: impegno che, coperto dalle più accese proteste di fedeltà e di adesione a oltranza alla causa guelfa e all'alleanza col re di Napoli, doveva rimanere del tutto segreto, comportando ovviamente come corollario il rischio, per i due emissari, di venire smentiti - cosa che effettivamente avvenne - dai loro stessi mandanti, qualora delle trattative si fosse venuti prematuramente a conoscenza. Del resto anche in seguito il D., "grande imprenditore di gran cose per avanzarsi", come lo definisce il Villani (IX, XXXIX), si mostrerà pronto ad assumersi difficili e delicati incarichi diplomatici.

In quegli anni il D. divenne uno degli uomini di fiducia dei nuovo re di Napoli, Roberto d'Angiò, che aveva avuto occasione di conoscere nell'ottobre del 1310, quando il sovrano, di ritorno dalla sua incoronazione avignonese (agosto del 1309), si era fermato a Firenze per quasi un mese. Nel giugno del 1314 il re Roberto lo inviò come suo vicario a Ferrara, in un momento assai critico per la situazione interna di quella città. Appena entrato in carica, infatti, il D. dovette fronteggiare un tentativo di colpo di Stato compiuto dagli sbanditi ghibellini per rovesciare, con la connivenza di alcuni "intrinseci", tra cui Albertino Mainardi e Lanzalotto Fontana, il regime guelfo. Il D. represse con esemplare durezza la sollevazione, che era capeggiata da Francesco Menabuoi, e procedette inesorabilmente, una volta avuta ragione del moto, contro tutti i responsabili che riuscì a raggiungere. Fece infatti impiccare alcuni dei cittadini che, dall'interno, avevano appoggiato l'azione dei fuorusciti; altri ne condannò a pene pecuniarie. Nel luglio, col consenso delle autorità locali e del vescovo di quella città, Alessandro Novello, fece catturare a Feltre, dove si erano rifugiati "putantes se tutos esse in illa libera civitate", come riferisce Benvenuto da Imola, tre giovani appartenenti alla famiglia Fontana ed altri fuorusciti ferraresi, coinvolti nel tentativo di rivolta. Con l'aiuto dei Padovani li fece tradurre a Ferrara: i tre Fontana furono decapitati; i loro complici furono impiccati nell'agosto.

L'episodio viene ricordato nel canto IX del Paradiso, vv. 52-60, da Dante, il quale, se per bocca di Cunizza da Romano ha fiere parole di condanna per il vescovo Alessandro Novello, "l'empio pastor" cui risaliva la responsabilità di aver fatto scorrere "per mostrarsi di parte" tanto sangue ferrarese, non ne trae però spunto per un'invettiva contro il D., di cui omette anzi di ricordare la parte avuta nella vicenda e di cui tralascia perfino di fare il nome.

Rientrato in patria, nell'agosto del 1315 il D. combatté nella battaglia di Montecatini: nello scontro finale del 29 agosto venne, fatto prigioniero dalle truppe di Uguccione Della Faggiuola, tradotto a Pisa e rinchiuso nella torre della Fame. La disfatta di Montecatini ebbe un grave contraccolpo in Firenze, causando la scissione dei guelfi in due partiti, fedele l'uno al re, Roberto, decisamente avverso, il secondo, all'Angioino, cui rimproverava di lasciare ai Fiorentini il peso maggiore della lotta, data l'eccessiva parsimonia con cui vi contribuiva in truppe e in danaro. Al primo, detto dei pugliesi, aderì, dopo essere stato liberato, il D.; il secondo contava tra i suoi aderenti i Magalotti e altri grandi, e tra i suoi capi un parente del D., Simone Della Tosa. Creato dal re Roberto, nel giugno del 1319, vicario regio in Pistoia, il D. resse il governo di quella città per oltre un anno e mezzo - contro ogni consuetudine tale carica gli venne infatti rinnovata di sei mesi in sei mesi fino al 20 febbr., 1321 -, proprio quando, a causa-delle continue e devastanti incursioni cui era sottoposto il suo territorio, nella città sembrava venir meno la volontà di opporsi ai progetti annessionistici ed agli attacchi di Castruccio Castracani, il vicino signore di Lucca. In quella difficile situaiione il D. adottò una strategia di massima fermezza sul piano militare, cercando di contenere con sortite l'iniziativa avversaria, ma non esitò ad adoperarsi contemporaneamente anche sul piano diplomatico per raggiungere un accordo col Castracani, se si accetta quanto riferiscono le Storie pistoresi.

L'anonimo autore di quella cronaca scrive infatti che "messer Pino s'intendea con Castruccio, ed era da lui spesso presentato ...". Alla luce di precedenti ed analoghe congiunture sembra però più probabile che l'incarico di trattare con Castruccio fosse stato affidato al D. dalla stessa Signoria fiorentina, che, come già nell'agosto del 1312, non poteva e non doveva figurare ufficialmente. Troppo compromettente, infatti, sarebbe stato per un capo guelfò, per un fedelissimo del re Roberto, giocare in proprio una così rischiosa partita.

Podestà a Prato due anni dopo questi avvenimenti, il D., cui dal novembre del 1324 Roberto d'Angiò aveva assegnato una cospicua pensione annua di 50 once d'oro, sedeva nel maggio del 1325 come "banderarius banderie regalis" nel Consiglio dei capitani di guerra di Firenze. Nel settembre di quello stesso anno combatté come feditore, accanto a suo figlio Ciampi, nella battaglia di Altopascio, che si concluse con la sconfitta dei Fiorentini. Tre anni dopo svolse una serie di importanti missioni nel quadro del problema del reclutamento di truppe per la lotta contro Ludovico il Bavaro. L'8 dic. 1328 venne infatti inviato, insieme con Donato Acciaiuoli, presso il duca di Brunswick, uno dei capi delle milizie mercenarie che avevano lasciato il servizio dell'imperatore, perché questi tardava a versare loro il soldo: dovevano avviare, a nome della Signoria, trattative in vista di un possibile arruolamento, sebbene forti dubbi permanessero tra i Priori circa la lealtà dei Tedeschi. Per dare un peso maggiore alle loro offerte, i governanti fiorentini affidarono subito dopo ai due un nuovo incarico, quello di convincere il legato pontificio Bertrando del Poggetto, che si trovava allora a Bologna, a concludere lui stesso l'accordo col duca di Brunswick. Il D. e l'Acciaiuoli giunsero nella città emiliana verso la fine del mese: nonostante i loro sforzi, tuttavia, il legato si rifiutò di accogliere le loro richieste. Ai primi di gennaio, preso atto del fallimento della missione, i due venivano richiamati a Firenze dalla Signoria. Nel febbraio successivo il D. era di nuovo a Bologna, questa volta insieme con Tanaccio Cavalcanti, per trattare una questione di importanza minore, la concessione della cittadinanza bolognese ad un Albizzi, nato e residente in quella città. A appunto nel contesto di queste due legazioni bolognesi che deve essere inserito l'intervento del D. che valse a impedire, secondo il Boccaccio, che i resti di Dante venissero disseppelliti e bruciati in Bologna, come aveva invece deciso si facesse Bertrando dei Poggetto.

Nel capitolo XXVI del suo Trattatello in laude di Dante il Boccaccio riferisce infatti che "il detto cardinale, non essendo chi a ciò s'opponesse", aveva fatto bruciare in pubblico, a Bologna, il De Monarchia di Dante, "sì come coseeretiche contenente". E prosegue: "E il simigliante si sforzava di fare dell'ossa dell'autore a eterna infamia e confusione della sua memoria, se a ciò non si fosse opposto un valoroso e nobile cavaliere fiorentino. il cui nome fu Pino della Tosa, il quale allora a Bologna, dove ciò si trattava, si trovò, e con lui Ostagio da Polenta, potente ciascuno assai nel cospetto del cardinale di sopra detto". La notizia, fornita solo dal Trattatello, fu a lungo ritenuta scarsamente attendibile o addirittura rifiutata come falsa dalla critica storico-letteraria. Tuttavia, come già fece notare C. Ricci, il Boccaccio inquadra gli avvenimenti in un contesto storico ben preciso e ben noto, e, soprattutto, fa riferimento alla contemporanea presenza in Bologna del cardinal legato Bertrando del Poggetto, di Ostagio da Polenta, allora signore di Ravenna, e del D.: circostanze tutte che rendono perfettamente credibile l'episodio da lui narrato e lo riportano, appunto, alla fine del 1328 o ai primi del 1329. L'episodio stesso, infine, non contrasta con la personalità del D., uomo capace, grazie alla lunga permanenza nella diplomazia, di sapersi elevare, all'occasione, al di sopra delle lotte di fazione, e quindi in grado di essere più lungimirante del suo stesso governo.

Altra prova della sua perspicacia politica il D. dette di lì a pochi mesi, quando, tra l'aprile e il maggio del 1329, più volte e a lungo si fece mediatore, insieme con il vescovo di Firenze Francesco Silvestri, presso il proprio governo dell'acquisto di Lucca, caduta il 15 aprile nelle mani delle truppe del duca di Brunswick ed offerta ai Fiorentini per 80.000 fiorini d'oro. L'affare non ebbe seguito per la decisa ostilità di una parte dei cittadini e, in particolare, per quella di Simone Della Tosa, il quale si oppose ad ogni possibilità di accordo, "come non amico del consorto, cioè di messer Pino" afferma Marchionne di Coppo Stefani.

Il D. morì il 9 giugno 1337, quasi certamente a Firenze.

Un nuovo rigurgito della vecchia ostilità interna nei confronti del D. esplose ed ebbe gravi conseguenze per la sua famiglia poco. dopo la sua morte. Nel settembre del 1337, infatti, come riferisce il Villani, il capitano della guardia e conservatore della pace e stato della citta, Accorrimbono da Tolentino, "per cagione di setta fece una inquisizìone ... contra messer Pino della Tosa", per avere quest'ultimo, insieme con Feo di Odaldo Della Tosa e Maghinardo Ubaldini, "tenuto trattato con messer Mastino della Scala di tradire Firenze". L'addebito "non fu né si trovò vero, e il detto Maghinardo se ne venne personalmente a scusare", scrive il cronista. Tuttavia risultò dall'inchiesta che il D. "per mandato del re Ruberto, da cui tenea la terra, cercò con messer Mastino concordia con lui e col nostro Comune dando la città di Lucca libera"; su tale base Maghinardo poté modificare l'accusa in quella che il D. aveva agito di suo arbitrio, senza aver ricevuto ordini superiori e "condannò parte della casa di messer Pino a disfare, perché cominciò il trattato senza parola di priori". Secondo il Villani "ciò fu fatto per invidia, e chi disse per operazione di alcuno consorto del detto messer Pino".

Ad ogni modo più di dieci anni dopo la sua scomparsa la memoria del "più sufficiente e valoroso cavaliere di Firenze, e il più leale a parte guelfa, popolo e comune", come il Villani definisce il D., non si era ancora spenta in Firenze. Nel luglio del 1348, o forse qualche tempo dopo, egli venne infatti ricordato, insieme con il figlio Ciampi, "militia insignes ambo prolisque Tosinghe", nell'epitafio composto dal Boccaccio per il loro sepolcro in S. Maria Novella.

Fonti e Bibl.: D. Compagni, Cronica delle cose occorrenti ne' tempi suoi, in Rer. Ital. Script., 2 ed., IX, 2, a cura di I. Del Lungo, pp. 260 s.; Storie pistoresi, ibid., XI, 5, a cura di S. A. Barbi, pp. 74, 75 e n. 1, 129 e n. 1; Corpus chronicorum Bononiensium, ibid., XVIII, i, t. 2, a cura di A. Sorbelli, pp. 337 s.; L. Bruni, Historiarum Florentinipopuli libri XII, ibid., XIX, 3, a cura di E. Santini, pp. 139 ss.; Cronaca fiorentina di Marchionne di Coppo Stefani, ibid., XXX, 1, a cura di N. Rodolico, pp. 161 s.; S. Della Tosa, Annali, in Cronichette antiche di vari scrittori del buon secolo della lingua toscana, a cura di D. Manni, Firenze 1733, pp. 165 s.; Necrologio di S. Maria Novella, in Delizie degli eruditi toscani, IX, Firenze 1777, p. 154; G. Cavalcanti, Istorie fiorentine, a cura di F. Polidori, II, Firenze 1939, pp. 572 s., G. Villani, Cronica, a cura di F. Gherardi Dragomanni, Firenze 1845-1847, III, pp. 119 s., 123 s., 254 ss., 266-269; IV, pp. 75 s.; Benvenuti de Rambaldis de Imola Comentum super DantisAldigherii Comoediam, a cura di G. F. Lacaita, V, Florentiae 1887, p. 10; R. Davidsohn, Forschungen zur Geschichte von Florenz, IV, Berlin 1908, pp. 574 s., 580; D. Velluti, Cronica domestica, a cura di I. Del Lungo-G. Volpi, Firenze 1914, p. 84; Consigli della Repubblica fiorentina, a cura di B. Barbadoro, Bologna 1921-1930, I, p. 303; F. Sacchetti, Il Trecentonovelle, a cura di E. Faccioli, Torino 1970, pp. 204 s.; G. Boccaccio, Opere in versi. Corbaccio. Trattatello in laude di Dante. Prose latine. Epistole, a cura di P. G. Ricci, Milano-Napoli 1965, pp. 638-640; A. Frizzi, Memorie per la storia di Ferrara, Ferrara 1823, pp. 259-264; D. Marzi, La Cancelleria della Repubblica fiorentina, Rocca San Casciano 1910, pp. 629 s.; C. Ricci, L'ultimo rifugio di Dante, Milano 1921, pp. 183 ss. e passim; R. Davidsohn, Storia di Firenze, Firenze 1956-1968, ad Indicem; D. De Robertis, Un nuovo carme del Boccaccio: l'epitaffio per P. e Ciampi Della Tosa, in Studi sul Boccaccio, IX (1975-76), pp. 55-90; G. Baruffini, Tosinghi (Della Tosa), Pino, in Enc. dantesca, V, Roma 1976, p. 670.

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