PIO III

Enciclopedia dei Papi (2000)

Pio III

Matteo Sanfilippo

Secondo la tradizione Francesco Tedeschini (Todeschini)-Piccolomini nacque in Siena il 9 maggio 1439, figlio quartogenito (ma i primi due erano presto scomparsi) di Nanni di Piero Tedeschini, giurista, e Laodomia, sorella di Enea Silvio Piccolomini (il futuro Pio II). Alcuni studiosi ritengono invece più probabile che sia nato a Sarteano, dove il padre risiedeva. Sappiamo ben poco della sua infanzia e giovinezza, se non che fu avviato agli studi dallo zio materno. Pare che la prima formazione gli fosse impartita a casa; in un secondo tempo fu invece inviato a Ferrara presso Giacomo de' Tolomei per approfondire la preparazione giuridica e umanistica. Nell'estate del 1451 accompagnò in Germania lo zio e nell'autunno dello stesso anno iniziò a frequentare l'Università di Vienna, dove non si sa, però, quanto sia restato. Era forse di nuovo in Italia agli inizi dell'estate del 1453, ma anche questo non è certissimo: può infatti darsi che fosse già a Ferrara qualche mese prima. In ogni caso si dedicò con rinnovata alacrità allo studio del diritto, sempre sotto la guida di Giacomo de' Tolomei, cui lo zio lo aveva nuovamente raccomandato a Roma, e più tardi di Andrea Benzi. In seguito, ma anche qui non si conoscono con esattezza le date, si trasferì a Perugia per affinare la propria cultura. Nel 1457 Enea Silvio Piccolomini sollecitò per lui un canonicato tedesco, ma non abbiamo alcuna certezza che sia riuscito ad averlo. Comunque le sorti (e anche la biografia) di Francesco si chiariscono con l'ascesa al soglio del cardinale Piccolomini. Il 3 settembre Francesco fu investito della prepositura di St.-Viktor a Xanten sul Reno e ricevette per sovrappiù quattro arcidiaconati in terra tedesca. In ottobre fu nominato protonotario apostolico e gli fu affidata l'amministrazione del monastero di S. Vigilio a Siena. A dicembre seguirono nuovi benefici tedeschi. Nel gennaio 1459 accumulò ulteriori prebende nelle diocesi di Grosseto e Milano. Ormai il papa lo definiva pubblicamente come proprio "notario" e come canonico senese. Il 18 aprile 1459 ricevette nuovi benefici ad Acquafredda. L'8 novembre morì Antonio Piccolomini, arcivescovo di Siena, e Francesco compì il primo grande balzo della sua carriera divenendo, ad appena ventitré anni, amministratore di quella diocesi con prospettiva immediata di successione, come in effetti si verificò neanche un anno dopo, il 19 febbraio 1460. Poiché non era stato ordinato sacerdote, gli fu affiancato come suffraganeo Antonio Fatati, che lo sostituì nelle funzioni episcopali. Il mese successivo conseguì la berretta cardinalizia (5 marzo), con il titolo diaconale di S. Eustachio, e il dottorato a Perugia. Fu quindi designato protettore dei Camaldolesi. Il 14 aprile 1460 morì a Macerata il cardinal Giovanni Castiglioni, legato pontificio nella Marca d'Ancona, e il giovane cardinale fu designato a sostituirlo il 22 dello stesso mese, affidato alle cure del più esperto Angelo Maccafani. Rientrò a Roma soltanto nel febbraio dell'anno successivo e fu successivamente rimandato nella Marca d'Ancona, dove rimase con la sola eccezione dei mesi invernali, quando ottenne di poter nuovamente risiedere a Roma. Per permettergli di affrontare le spese della Legazione il pontefice gli accordò una provvigione di 300 ducati, nonché la prepositura di alcune chiese nelle diocesi di Strasburgo e Coblenza e l'arcidiaconato di Brabante nella diocesi di Cambrai, cui si sommarono nuovi benefici nella penisola italiana nel 1461 e altri ancora negli anni successivi. Nel 1460-1461 Francesco Tedeschini-Piccolomini fu quindi spesso lontano da Roma, tuttavia nel giugno 1461 lo zio dichiarò di avergli comprato un palazzo nel rione Pigna tra le chiese di S. Biagio "de Anulo" e S. Sebastiano "de Via Pape". Il cardinale avviò allora la ristrutturazione di questa sua residenza romana, ma i lavori dovevano prendere ben dodici anni. Di conseguenza mantenne un proprio domicilio nel Palazzo Vaticano, come già in precedenza. Il 28 agosto 1462 Pio II costituì con una bolla il diritto di patronato nella cattedrale di Pienza a favore dei nipoti Antonio, Francesco, Giacomo e Andrea. Anche i fratelli del cardinale avevano nel frattempo beneficiato dell'ascesa al soglio dello zio. Il primogenito Antonio aveva sposato nel 1461 Maria d'Aragona, figlia naturale del re Ferrante di Napoli, ottenendo così l'investitura dei Ducati di Sessa e di Amalfi, cui si aggiunse nel 1463 la Contea di Celano per volontà dello zio. Giacomo ricevette il vicariato di Senigallia e Mondavio, dopo che Federico di Montefeltro ebbe sconfitto Sigismondo Malatesta nell'agosto 1462. Ad Andrea andarono alcuni piccoli feudi. Il 4 febbraio 1464 Tedeschini-Piccolomini fu nominato vicario generale "in temporalibus" per la città di Roma e per il Patrimonio di S. Pietro, cosicché Pio II potesse dedicarsi liberamente alla preparazione della crociata contro i Turchi. L'11 giugno gli fu confermata la designazione, estesa a tutto lo Stato della Chiesa. Poco più di due mesi dopo era avvertito della morte dello zio, spirato ad Ancona nella notte tra il 14 e il 15 agosto 1464. Alla successiva elezione il partito piesco non ebbe peso nel Collegio cardinalizio, anche se qualcuno ipotizzò che si potesse designare il giovane cardinale come successore del defunto zio, e fu escluso dalla gestione del potere sotto Paolo II, prescelto il 30 agosto 1464. Tuttavia Francesco Tedeschini-Piccolomini seppe districarsi nella reazione contro i familiari del papa defunto e soprattutto contro i troppi Senesi che si erano avvantaggiati del pontificato appena terminato. Decise infatti di tornare alla propria arcidiocesi e di attendere che si calmasse la tempesta prima di rientrare in Roma. Riprese la sua attività nel Sacro Collegio soltanto quando fu sicuro che le acque si erano calmate. In neanche due anni fu di nuovo in gioco, grazie alla crescente amicizia con il cardinal Marco Barbo, a lui accomunato dagli interessi umanistici. Nel 1466 impose, assieme al cardinale Iacopo Ammannati-Piccolomini, la necessità di una risposta risoluta a Giorgio Podiebrad, re di Boemia, già indicato da Pio II come protettore degli scismatici locali: di conseguenza il Concistoro del 23 dicembre di quell'anno depose il sovrano boemo da ogni dignità regale ed aristocratica, privò i suoi discendenti di ogni eredità e prosciolse i suoi sudditi dal giuramento prestato. Questo successo rafforzò la fama di Tedeschini-Piccolomini, ormai stimato profondo conoscitore dell'Europa centrale, ed al contempo convinse i colleghi delle sue qualità in materia di politica internazionale. Inoltre sul finire del 1468 egli fu assai attivo in occasione della visita romana dell'imperatore Federico III. In particolare si recò con il cardinale Guillaume d'Estouteville incontro all'imperatore a Otricoli e assieme al seguito imperiale discese il Tevere sino a Castel Valca. Negli anni successivi Tedeschini-Piccolomini mantenne la fiducia o quantomeno il rispetto di Paolo II e questi, considerando che il cardinale conosceva bene il tedesco e sembrava il più esperto dei problemi della Germania, gli affidò la Legazione del Nord il 18 febbraio 1471 e il compito di riallacciare i negoziati con il Podiebrad, che aveva chiesto la convocazione di un concilio per definire le questioni pendenti tra Roma e gli scismatici boemi. Il 18 marzo il cardinale abbandonava Roma, il 1° maggio era a Ratisbona assieme a Giannantonio Campano, vescovo di Teramo, cosicché poté prendere parte alla Dieta che si aprì nella città tedesca il 24 giugno. In essa si oppose con successo a qualsiasi espressione di ostilità verso la Chiesa, ma non riuscì a ottenere appoggi per la guerra contro i Turchi, che, attraversando la Croazia, minacciavano la Stiria. I delegati germanici si opposero fermamente alle sue proposte, mentre l'imperatore Federico III evitò accuratamente di prendere posizione. Inoltre proprio il ritardo dell'imperatore, giunto a Ratisbona il 16 giugno, mentre vi era atteso per la fine di aprile, mise il legato in difficoltà: toccò infatti a lui giustificare il rinvio della Dieta. Nonostante il parziale insuccesso il pontefice lo lodò assai in una lettera personale del 26 giugno e ripeté i suoi elogi in una seconda missiva del 13 luglio 1471. Paolo II morì durante la prolungata permanenza in Germania del cardinale. Il conclave riunitosi nel Palazzo Vaticano il 6 agosto 1471 designò, dopo appena tre giorni, Francesco della Rovere, che assunse il nome di Sisto IV.

Il legato, del quale in precedenza si era parlato come possibile successore di Paolo II, intraprese il viaggio di ritorno alla fine di agosto. Giunse a Milano il 13 dicembre dopo numerose tappe in città tedesche e svizzere. Il 27 dello stesso mese varcò infine la porta del Popolo a Roma e si apprestò a riferire il proprio operato al nuovo pontefice. Ripeté quindi in Concistoro il suo racconto e in seguito ne ridiscusse con il cardinal Marco Barbo, prescelto da Sisto IV quale nuovo legato presso l'imperatore. Durante il pontificato di Sisto IV, Tedeschini-Piccolomini ebbe a Roma pochi incarichi e di secondaria importanza. Il suo unico ruolo fu quindi quello di promuovere presso la Curia le richieste dell'imperatore, di appoggiare le petizioni di numerosi prelati tedeschi, come aveva d'altronde fatto sin dal pontificato dello zio. Di conseguenza trascorse lunghi periodi a Siena, pur avendo inaugurato agli inizi del 1472 la sua residenza romana finalmente terminata, il cosiddetto "palazzo di Siena" che, come si è visto, gli era stato donato nel 1461. Era adesso una dimora sontuosa, che ospitava la ricchissima biblioteca del cardinale, bibliofilo appassionato, nonché alcuni preziosi codici appartenuti allo zio pontefice: la biblioteca di quest'ultimo era stata infatti divisa tra i quattro nipoti Antonio, Giacomo, Andrea e Francesco (R. Avesani, Per la biblioteca di Agostino Patrizi Piccolomini, vescovo di Pienza, in Mélanges Eugène Tisserant, VI, Città del Vaticano 1964, p. 61). Il cardinale vi tenne anche una ricchissima collezione di statue antiche, tra le quali il celebre Ercole Borghese-Piccolomini, che avevano fatto parte dell'eredità lasciata dal cardinale Prospero Colonna. Nel palazzo ricevette numerosi emissari tedeschi, legati sia alle diocesi, sia ai circoli umanistici, mentre intratteneva anche una seguita corrispondenza con il re d'Ungheria, Massimiliano I, conosciuto in occasione del viaggio a Roma del padre di questi, il già menzionato imperatore Federico III. Ospitò anche Ernesto, duca di Sassonia, quando questi si recò a Roma nel 1482. Nell'ottobre 1474 il cardinale si oppose, con l'aiuto dei colleghi Gonzaga e Ammannati, alla decisione del papa d'investire dei vicariati di Senigallia e Mondavio il nipote Giovanni della Rovere in occasione dell'annuncio delle nozze di quest'ultimo con una figlia di Federico d'Urbino. I due vicariati erano stati in effetti posti da Pio II sotto la signoria di Antonio Tedeschini-Piccolomini, ma l'opposizione del cardinale non smosse il pontefice. Nella primavera del 1484 la tensione fra il pontefice e la consorteria dei Colonna e dei della Valle, impegnata in una lotta senza quartiere contro gli Orsini, condusse alla devastazione dei palazzi delle due prime famiglie. Tedeschini-Piccolomini provò a proporsi come paciere e sembrò aver ottenuto la grazia per gli avversari di Sisto IV, ma, alla fine di maggio, la situazione divenne esplosiva. Il cardinale, sorpreso e intimorito, decise di abbandonare la città e si rifugiò a Viterbo. Il 12 agosto 1484 Sisto IV morì e la sua morte permise ai sostenitori dei Colonna di devastare impunemente il palazzo di Girolamo Riario, il gran favorito del defunto pontefice. Riario abbandonò allora l'assedio di Paliano, roccaforte colonnese, e marciò su Roma, accampandosi prima a ponte Milvio e poi più a nord, fuori città, a Isola Farnese. Nel frattempo i Colonna consolidarono le loro posizioni nella Città Eterna. Sembrava la vigilia di uno scontro assai violento, che invece fu impedito dalla mediazione di Marco Barbo. I cardinali poterono quindi entrare in conclave il 26 agosto 1484, mentre i contrasti interni a Roma sembravano smussati. Nel conclave Tedeschini-Piccolomini apparve uno dei papabili, grazie all'appoggio del re di Napoli, mentre l'amico e sodale Marco Barbo era sostenuto dal duca di Milano. Senonché i candidati erano molti e soprattutto le due fazioni guidate da Rodrigo Borja e da Giuliano della Rovere erano in grado di spegnere le speranze di qualsiasi altro aspirante, pur non essendo abbastanza forti da imporre il proprio leader. Le trattative furono lunghe e tortuose e alla fine della Rovere guadagnò buona parte dei colleghi in favore di Giovan Battista Cibo, che prese il nome di Innocenzo VIII.

Tedeschini-Piccolomini ne annunciò la vittoria il 29 agosto e lo incoronò davanti a S. Pietro il 12 settembre. Il papa lo seppe rimeritare e già nel 1485 gli affidava l'amministrazione della diocesi di Fermo e in seguito anche la sovrintendenza di Massa Trabaria, con la presidenza dell'abbazia di Farfa. Di fatto il peso di Tedeschini-Piccolomini era di nuovo aumentato, anche se non fu mai notevole, e nel 1486 egli fece parte del gruppo di prelati che spinse il pontefice alla pace con Napoli, vincendo una dura polemica con gli uomini del partito filofrancese, i quali speravano in un intervento italiano di Carlo VIII. Il legame fra papa Cibo e il cardinale di Siena rimase stretto e il primo designò il secondo alla Legazione di Perugia nel novembre del 1488. Tedeschini-Piccolomini doveva sopire il contrasto tra le famiglie dei Baglioni e degli Oddi e smorzare le tensioni locali. In meno di un anno riuscì a ricondurre la città all'obbedienza, a piegare i Baglioni, principale motore delle violenze, e a risolvere le contese di confine tra Foligno e Spello. Durante il pontificato d'Innocenzo VIII, Tedeschini-Piccolomini continuò a prodigarsi in favore degli amici tedeschi e allargò la sua rete clientelare sino a comprendere anche Francesi, Polacchi e Inglesi. Il clero inglese in particolare lo ritenne una sorta di protettore, come risulta anche da alcuni documenti del decennio successivo, soprattutto dalle lettere di Enrico VII d'Inghilterra. Negli anni Ottanta e Novanta fu inoltre notevole la sua opera a favore di Siena e di Lucca. Nel caso della prima la corrispondenza del cardinale con le autorità cittadine mostra come questi si preoccupasse dei suoi concittadini, anche all'estero, e cercasse in cambio di ottenere vantaggi per amici e familiari.

Il 25 luglio 1492 morì Innocenzo VIII e Tedeschini-Piccolomini fu di nuovo considerato papabile, perché si riteneva che avesse sempre l'appoggio di Ferrante, re di Napoli. Siena lo invitò caldamente a partecipare, ma egli sapeva di non avere la forza economica per tenere testa ai candidati maggiori e soprattutto di non avere dietro di sé il sovrano napoletano. Non negò quindi di poter essere un candidato ed ebbe sette voti nel terzo scrutinio, ma non rivelò intenzioni serie, se non quella di guadagnare una posizione difendibile di fronte al nuovo pontefice. In effetti quando Borja ascese al soglio con il nome di Alessandro VI, Tedeschini-Piccolomini fu uno dei due cardinali che lo accompagnarono a S. Pietro, tenendogli il manto. Il cardinale di Siena non riuscì tuttavia a tenersi al di fuori dello scontro che ben presto spaccò la Curia. D'altronde lo stesso imperatore Federico III gli fece sapere che voleva mantenere una posizione defilata rispetto al nuovo pontefice, tramite una lettera datata 8 dicembre 1492 e redatta da Georg Altdorfer, vescovo di Chiemsee. In conclusione Tedeschini-Piccolomini fu subito ritenuto un esponente dell'opposizione ad Alessandro VI e di conseguenza ricorse alla vecchia tattica di ritirarsi a Siena. Nel 1494 era comunque di nuovo a Roma e, assieme ad altri porporati, convinse il pontefice ad opporsi all'avanzata di Carlo VIII di Francia o quantomeno a non concedergli il passaggio attraverso lo Stato della Chiesa. Quando i Francesi entrarono in Toscana e i Medici furono scacciati da Firenze, il papa decise d'inviare Tedeschini-Piccolomini a trattare con l'invasore. Il 1° ottobre Tedeschini-Piccolomini fu quindi designato legato "a latere" e mandato in Toscana. Senonché il cardinale non era l'ambasciatore adatto, poiché la sua famiglia era notoriamente filoaragonese e per di più egli aveva apertamente criticato il sovrano francese. Di conseguenza quest'ultimo non volle riceverlo a Lucca, dove il primate senese lo aspettava, pur essendo stato preavvertito da un breve pontificio datato 10 ottobre. Dopo aver comunicato al papa il fallimento dell'ambasceria, il cardinale tornò a Siena, dove si trovava quando il 2 dicembre giunse Carlo VIII. Quest'ultimo fu accolto con tutti gli onori e accettò finalmente d'incontrare Tedeschini-Piccolomini, ma in udienza privata e non come legato pontificio. Il cardinale gli espose la posizione pontificia, evitando qualsiasi asperità, ma non conseguì risultato alcuno. Carlo VIII non arrestò infatti la sua marcia su Roma, dove i Francesi entrarono il 27 dicembre e rimasero per un mese. Il cardinale di Siena rientrò nella Città Eterna soltanto il 5 marzo 1495 e in forma volutamente dimessa. Nel periodo immediatamente successivo si tenne al di fuori dello scontro con i Francesi e anche negli anni seguenti si preoccupò soprattutto della diocesi senese, dove si adoperò per trovare un accordo tra i capi del Monte dei Nove e la fazione dei Popolari. Inoltre nel 1496 fu designato amministratore della diocesi di Pienza e Montalcino, che resse sino al 1498. I suoi interessi furono quindi del tutto incentrati sulla Toscana e d'altronde la sua salute aveva iniziato a peggiorare per una forma violenta di gotta, che lo afflisse ai piedi e alle mani. Nel Concistoro segreto del 7 giugno 1497 Alessandro VI annunciò che avrebbe conferito al figlio Giovanni, duca di Gandía, e ai suoi discendenti il Ducato di Benevento e le Contee di Terracina e Pontecorvo. Tedeschini-Piccolomini fu l'unico che si oppose ad un progetto poi naufragato per l'assassinio del duca. La morte del figlio spinse il papa a meditare una riforma della Chiesa. A tal scopo formò il 19 giugno una commissione di sei cardinali, della quale facevano parte, oltre al presule senese, Oliviero Carafa, Jorge Costa, Antoniotto Pallavicini, Antonio Giovanni di Sangiorgio e Raffaello Riario. I sei erano coadiuvati dagli auditori di Rota Felino Sandei e Guillaume de Perriers e dai segretari pontifici Bartolomeo Florès e Ludovico Podocattaro. Di Tedeschini-Piccolomini abbiamo un appunto relativo ai lavori (B.A.V., Vat. lat. 3883, c. 169) e un memoriale (ibid., cc. 97-9): sappiamo inoltre che assieme al cardinale Carafa raccolse i decreti e gli abbozzi di riforma dei papi precedenti. Nei primi tempi la commissione si riunì quasi ogni giorno coinvolgendo anche altri cardinali. Una lettera del cardinale Ippolito d'Este al papa, datata da Ferrara il 28 settembre 1497, fa capire che tutti i porporati avrebbero dovuto incontrarsi ai primi di novembre per valutare i lavori sin allora eseguiti. Questi avevano infatti dato luogo a proposte poi trasformate in decreti, nonché all'abbozzo di una bolla probabilmente redatto tra giugno e luglio (se ne veda il sommario in L. von Pastor, III, pp. 1039-44). L'impegno profuso nelle prime riunioni non servì comunque a nulla e non si tenne neanche l'incontro preannunciato dal cardinale d'Este. La bolla prevedeva che si dovesse mettere freno a "una licenza che non si può più tollerare" e che tale freno dovesse partire dalla Curia stessa. Seguivano quindi regole volte a limitare la simonia, ad aumentare il controllo dei cardinali e a diminuire l'ingerenza dei principi. I cardinali avrebbero goduto di maggior dignità nella Curia, ma non dovevano amministrare più di un vescovato o detenere benefici per un reddito superiore a 6.000 ducati annui. Erano inoltre obbligati alla residenza e limitati nella vita mondana: era per esempio ripetuta la proibizione del gioco e della caccia, dei tornei e delle rappresentazioni teatrali non consone ai dettami religiosi, nonché la partecipazione alla vita di corte nei vari Regni e Principati. L'ampiezza delle loro famiglie era regolata strettamente; inoltre non potevano assoldare saltimbanchi o musicisti, né avere al proprio servizio fanciulli e giovinetti. A tutti, prelati e semplici servitori della Chiesa, erano proibiti la venalità degli uffici e il concubinaggio. Tedeschini-Piccolomini tornò di nuovo a Siena, dove si era fatto costruire un palazzo presso la chiesa di S. Vigilio, e si dedicò ad esaltare il nome della propria famiglia, abbellendo la città. Progettò quindi una biblioteca, nella quale raccogliere i codici ereditati da Pio II. Inizialmente quella che avrebbe preso il nome di Libreria doveva essere una grande aula rettangolare con semplici decorazioni a fogliame da erigere al posto della vecchia canonica, a fianco della cattedrale (E. Carli, Il Museo dell'Opera e la Libreria Piccolomini di Siena, Siena 1946). Al centro dell'aula doveva essere posta la scultura delle Tre Grazie, una copia romana di originale ellenistico, che il cardinale aveva comprato per il suo palazzo a Roma, dove per altro ancora si trovava nel 1496. I lavori per la Libreria iniziarono in sordina nel 1492, ma soltanto nel 1495 l'arcivescovo ottenne che i materiali occorrenti per la fabbrica fossero esentati dalla gabella. L'anno successivo fece intagliare i banchi che dovevano contenere i volumi di Pio II e nel 1497 Lorenzo di Mariano, detto il Marrina, eseguì e decorò il portale che permetteva l'accesso alla Libreria dall'interno del duomo. Più tardi il cardinale pensò di dare ancora maggior risalto alla sua creazione e nel giugno 1502 stipulò un minuzioso contratto con Bernardo di Betto, detto il Pinturicchio, per dipingere sulla volta decorazioni a grottesche e sulle pareti dieci affreschi con momenti della vita di Pio II. Il lavoro andò, però, per le lunghe e fu terminato dopo la morte di Tedeschini-Piccolomini. Nel frattempo questi era tornato a interessarsi di quanto avveniva a Roma, dove rimase gran parte della sua biblioteca privata. Nel 1500 fu fissato un tributo che i cardinali dovevano pagare a titolo di decima per la guerra turca. Il documento, commentato diffusamente dal Pastor, mostra quale fosse la ricchezza dei singoli prelati. Il primate senese risultava avere entrate annue per 9.000 ducati. Era quindi nella fascia inferiore della ricchezza media di un cardinale. Questa andava infatti da tale cifra a 18.000 ducati, mentre le punte massime e minime erano rispettivamente di 30.000 (Ascanio Sforza) e di 2.000 (sei prelati su quarantaquattro) ducati.

Il 18 agosto 1503 morì Alessandro VI e Roma sembrò trovarsi nuovamente alla vigilia di una guerra intestina. In città i 12.000 armati di Cesare Borja tenevano a bada le forze degli Orsini e dei Colonna. I Francesi si erano attestati a Viterbo sotto il comando di Francesco Gonzaga. Gli Spagnoli, agli ordini di Consalvo di Cordova, si muovevano dal Garigliano. Francesi e Spagnoli credevano che il figlio del defunto pontefice avesse in pugno la situazione, ma il vacillante stato di salute impedì al Valentino di far valere la propria superiorità. Dovette quindi scendere a patti con i Colonna e con il Collegio cardinalizio. Quest'ultimo gli confermò il grado di capitano della Chiesa sino all'elezione del nuovo pontefice, ma si fece promettere dal condottiero che si sarebbe allontanato dalla città. Borja si ritirò di conseguenza a Nepi sotto la protezione francese, mentre gli Spagnoli, i Colonna e gli Orsini s'impegnarono a non entrare in Roma. Si poté allora preparare il conclave per la successione di Alessandro VI. I favoriti erano numerosi e tra loro si trovava ancora una volta Tedeschini-Piccolomini, ma sempre in posizione defilata. La sua candidatura, come quelle di Carafa e di Costa, appariva infatti legata ai meriti, del tutto teorici, della fallita commissione riformatrice della Curia e sembrava soprattutto una dichiarazione di buone intenzioni. Luigi XII di Francia voleva invece che fosse prescelto il cardinale Georges d'Amboise, arcivescovo di Rouen, e pensava di ottenerne l'elezione grazie al voto dei dodici cardinali spagnoli, ipoteticamente controllati da Cesare Borja. Il Valentino non era, però, in grado di condizionare le sue creature da Nepi. Per giunta Ferdinando il Cattolico, re di Spagna, propendeva per Giovanni de Castro o per Bernardino Lopez de Carvajal, ma era anche ben disposto verso Tedeschini-Piccolomini. A loro volta i cardinali spagnoli sapevano di non poter imporre uno di loro e temevano di essere vittime di un'aggressione ispirata all'odio per il defunto pontefice. Presero quindi seriamente in considerazione l'ipotesi di portare sul seggio il cardinale senese. In questa già complicata situazione Giuliano della Rovere rientrò nella città e si oppose con ogni mezzo al cardinale d'Amboise, che accusò di voler trasportare la Santa Sede in Francia. I cardinali italiani fecero mostra di condividere tale accusa, per convinzione o per opportunismo, e si batterono quindi per un papa italiano, ma non trovarono immediata unità sul nome. Il 16 settembre si aprì il conclave, dopo una vacanza di trenta giorni. Nel frattempo crescevano i pronostici favorevoli a Tedeschini-Piccolomini, in lizza secondo molti osservatori contro Antoniotto Pallavicini o Ludovico Podocattaro. I cardinali approvarono dapprima una capitolazione elettorale, nella quale si dichiarava che il nuovo papa dovesse convocare un concilio per la riforma della Chiesa entro due anni dalla propria elezione e che in seguito analoghi incontri dovessero tenersi ogni tre anni. Nel frattempo Ascanio Sforza lavorò per scalzare Amboise, cui pure aveva promesso il suo voto, e al contempo sconfiggere della Rovere. Non si candidò apertamente, ma contribuì a rendere completo lo stallo delle candidature apparentemente più forti. Come ricorda il Pastor, alla votazione del 21 settembre si vide che nessuno dei principali gruppi poteva imporsi, perché i voti erano polverizzati tra i vari candidati. Secondo Sigismondo Tizio in questo scrutinio Tedeschini-Piccolomini sarebbe stato votato da Antonio Giovanni di Sangiorgio, Giuliano Cesarini, Raffaello Riario e Alessandro Farnese (P. Piccolomini, Il Pontificato di Pio III, pp. 111-12). A questo punto Ascanio Sforza, Giovanni de' Medici e Giovanni Colonna decisero di appoggiare Tedeschini-Piccolomini: il cardinale senese era in fondo senza macchia e al contempo vecchio e malandato. Appariva quindi un ottimo candidato di transizione. Anche questa volta Siena e la famiglia avevano premuto per la candidatura, ma in un primo tempo il cardinale aveva dissuaso i parenti più stretti a interessarsi della faccenda, convincendo il fratello Andrea a non recarsi a Roma. Panvinio (Epitome Pontificum Romanorum a S. Petro usque ad Paulum III, Venetiis 1557) riporta, però, che la sera del 28 agosto giunse nella Città Eterna il fratello Giacomo e si occupò di pagare gli appoggi necessari, ma molti storici successivi hanno giudicato priva di fondamento tale accusa. Alcuni contemporanei avrebbero infatti dichiarato che Tedeschini-Piccolomini era stato eletto "sanza simonia" (lo annota il fiorentino Piero Paranti, riportato in J. Schnitzer, Zur Geschichte Alexander VI., "Historisches Jahrbuch", 21, 1900, p. 21, ma v. anche A.A. Strnad, Francesco Todeschini-Piccolomini, p. 391). In quei frangenti, che vi sia stata o meno compravendita di voti, il futuro pontefice ebbe l'appoggio di Niccolò Bonafede (a Roma per conto di Cesare Borja), che il neoeletto rimeritò poi con la nomina a governatore di Roma. I primi abboccamenti tra i cardinali di maggior peso rafforzarono le voci che davano Tedeschini-Piccolomini come sicuro vincente. Il 19 le riportava l'emissario veneziano Antonio Giustinian e il 21 lo stesso dava l'elezione per cosa fatta (A. Giustinian, Dispacci, a cura di P. Villari, II, Firenze 1876, pp. 198-99). Gli accordi definitivi furono in effetti stretti proprio la sera del 21, quando lo stesso cardinale d'Amboise decise che era meglio partecipare all'elezione di un pontefice italiano, piuttosto che esserne l'acerrimo nemico. La mattina seguente il cardinale di Siena fu debitamente plebiscitato e poche ore dopo venne dato l'annuncio ufficiale della sua elezione. Il re e i cardinali spagnoli ritennero di aver vinto la partita e i Francesi pensarono di non averla persa, anche se presto si resero conto che l'avevano soltanto rinviata viste le cattive condizioni di salute del nuovo eletto. Quest'ultimo sottolineò di non voler "esser papa de arme, ma tutto el studio nostro volemo sia in pacificar le cose de la Cristianità" (ibid., p. 208). Il 25 settembre ribadì nell'adunanza dei cardinali che il suo compito era la riforma della Chiesa e la restaurazione della pace. La proposta di un concilio per la riforma scatenò l'entusiasmo dei suoi interlocutori tedeschi: Berthold von Henneberg, arcivescovo di Magonza, stese, per esempio, un memoriale, nel quale chiedeva un intervento deciso in Germania. Il nuovo pontefice prese il nome di Pio III, in onore dello zio, ma alcune fonti segnalano che in un primo tempo avrebbe optato per quello di Clemente VI, poi rinunciando perché questo nome era troppo connesso con lo scisma. Fu ordinato sacerdote il 30 settembre da Giuliano della Rovere (il futuro Giulio II), consacrato vescovo il 1º ottobre e coronato l'8 ottobre. Le cerimonie che solitamente seguivano alla cavalcata si tennero inusualmente nel Vaticano il 28 settembre, poiché il neoeletto risentiva di un violento attacco di gotta. Si recò in Laterano solo il 7 ottobre e vi celebrò per la prima volta la messa; non poté, però, alzarsi in piedi, dato il suo stato di debilitazione. I Senesi esultarono per il secondo papa in neanche mezzo secolo e festeggiarono la sera dell'8 ottobre (C. Mazzi, La Congrega dei Rozzi di Siena nel sec. XVI, I, Firenze 1882, pp. 44-9). La famiglia e soprattutto gli ambiziosi e prolifici fratelli Giacomo e Andrea si rallegrarono per le numerose occasioni che sembravano ora aperte per i loro eredi. In effetti il pontefice si affrettò a nominare arcivescovo di Siena il nipote Giovanni, figlio di Andrea. Inoltre portò nel Palazzo Vaticano il seguito di quando era cardinale, in particolare Aldello Piccolomini, vescovo di Sovana, Antonio Alberti, vescovo di Nepi e Sutri, Bernardino da Torrita, vicario dell'arcidiocesi senese, Francesco di Nanni da Sarteano, che presiedeva il Capitolo del duomo senese, e Alberto Capacci, che divenne il suo datario. Per quanto riguardava la conduzione finanziaria P. si appoggiò sul banchiere senese Giulio Spannocchi, che fu il suo camerario e depositario, come lo era stato di Alessandro VI. Inoltre Ventura Benassai, vescovo di Massa, legato a doppio filo agli Spannocchi, fu confermato nella carica di tesoriere generale: P. specificò che avrebbe potuto essere rimosso soltanto se gli fossero stati resi i 4.500 ducati che aveva prestato al precedente pontefice. Altri benefici furono offerti al viterbese Prospero Gatteschi, scutifero del nuovo papa, che gli destinò le annate dei priorati dei SS. Giovanni e Vittore e di S. Maria in Carbonara di Viterbo. È interessante notare come il nuovo pontefice non rinnovò veramente la "familia" e il palazzo papali, provocando le proteste del cardinale della Rovere, contrario alla permanenza di tanti personaggi legati ai Borja. In effetti non pochi temevano che P. non fosse capace di rompere con il pontificato precedente e protestarono quando egli confermò a Cesare Borja l'autorità di gonfaloniere e vicario di Romagna. In ogni caso i nemici del Valentino erano ormai troppo agguerriti e questi dovette chiedere un salvacondotto per tornare a Roma il 3 ottobre. Borja aveva, però, perso la protezione francese e, temendo la vendetta degli Orsini, cercò rifugio in Castel S. Angelo, dove il papa lo fece in pratica imprigionare, sperando di indurlo a rendere parte delle ricchezze in precedenza incamerate. Nei giorni successivi si palesarono le prime opposizioni a P., impedendo ad un tempo il suo riavvicinamento alla Francia e le manovre a favore dei parenti. Nel Concistoro dell'11 ottobre P. propose la porpora per François-Guillaume Castelnau de Clermont-Lodève, arcivesco di Narbona e nipote del già menzionato Georges d'Amboise. I cardinali insorsero e bloccarono questa designazione e quella del nipote del pontefice, arcivescovo di Siena. La discussione continuò sempre più violenta sino alle ventitré, senza pause e senza possibilità di mangiare, stremando un pontefice già assai debilitato. La gotta gli aveva infatti procurato una profonda ulcera alla gamba, che peggiorò rapidamente, anche perché mal curata nei giorni seguenti. Il papa fu preso da violente febbri e il 15 i dottori iniziarono a temere per la sua vita. Morì il 18 ottobre, senza essersi mai ripreso. Fu sepolto in S. Pietro, nella cappella di S. Andrea, e in seguito traslato nella chiesa di S. Andrea della Valle. Nelle Grotte vaticane si trova il suo cenotafio. P. non ha goduto di una grande fortuna storiografica, nonostante che la sua elezione fosse stata apprezzata a Roma e in tutta la penisola. Di certo gli è nuociuta la brevità del pontificato, lapidariamente commentata da un ignoto contemporaneo: "Vixit Alexander crudelis multos ad annos; / At Pius ad nullos. Quid iuvat esse pium?" (A. Pieper, Das Original des Diarium Burchardi, "Römische Quartalschrift für Christliche Altertumskunde und Kirchengeschichte", 7, 1893, p. 394). Fu presto considerato pontefice di scarsa importanza da liquidare con poche battute, come testimonia la breve biografia tracciata da Panvinio (Vita di Pio III, in Platinae Historia de vitis Pontificum Romanorum, Venetiis 1562, pp. 272-73). Di fatto i curiali lo avevano ritenuto una scelta di ripiego o almeno questa è la tradizione riportata da Giovanni Burcardo (Diarium sive rerum Urbanarum commentarii [1483-1506], a cura di L. Thuasne, III, Paris 1885, pp. 253 ss.) e soprattutto dai Veneziani (A. Giustinian, pp. 200 ss., 218 ss.; M. Sanuto, I diarii, V, a cura di F. Stefani, Venezia 1881, coll. 80-3, 141-42 e passim). Tale giudizio divenne corrente in tutta la tradizione posteriore e fu riportato nei grandi repertori dei secoli successivi, da Ciacconio (Vitae et res gestae Pontificum Romanorum et S.R.E. Cardinalium [...], III, Romae 1677, pp. 210 ss.) a G. Moroni (Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica, LIII, Venezia 1852, pp. 70-3). Tuttavia quest'ultimo ne sottolineò la "sollecitudine" e "gl'illibati [...] costumi", preparandone una rivalutazione dovuta soprattutto ad autori d'ambito senese. Questi fecero largo uso di fonti e testimonianze locali, quali per esempio le opere manoscritte di Sigismondo Tizio e i documenti dell'Archivio di Stato di Siena. Combatterono inoltre la tradizione tardottocentesca che accusava P. di costumi non così illibati. Sulla scia degli studiosi senesi, il Pastor giudicò assurde le accuse che attribuivano al pontefice uno (Diario di Ser Tommaso di Silvestro Notaro, a cura di L. Fumi, Orvieto 1891, col. 166) o più figli (F. Gregorovius, Lucrezia Borgia, Stuttgart 1875, p. 270) e fece emergere una lista impressionante di contemporanei che ne testimoniavano la morigeratezza a tavola, il desiderio di evitare gli eccessi nepotistici, la disponibilità verso il clero e i fedeli e soprattutto la passione per lo studio, cui dedicava sempre le ore mattutine. Recenti ricerche hanno sottolineato il ruolo di committente e di mecenate di P., già iniziato durante il cardinalato. Si è accennato all'acquisto della collezione statuaria di Prospero Colonna. Meno noto, ed evidenziato da A.A. Strnad, il suo intervento per il restauro interno ed esterno della chiesa di S. Saba a Roma. Buona parte del suo mecenatismo fu esercitato in Toscana: il palazzo di famiglia e il duomo (altare Piccolomini, commissionato ad Andrea Bregno nel 1481; statue per l'altare del duomo, commissionate a Michelangelo nel 1501) a Siena, il convento di S. Francesco a Pienza, ricordato nel suo testamento. Altri interventi furono romani, ma destinati alla gloria familiare: il monumento funebre per lo zio Pio II (prima a S. Pietro nella cappella di S. Andrea e oggi a S. Andrea della Valle) e una statua di S. Andrea per l'omonima cappella nella basilica vaticana, anche questi affidati ad artisti della cerchia di Andrea Bregno. In tutti gli studi risalta l'importanza della sua collezione di libri, tanto più che la sua biblioteca si arricchì grazie a lasciti dello zio Pio II, già menzionati, dell'amico Marco Barbo e di Agostino Patrizi, vescovo di Pienza e segretario di P. nella Legazione in Germania. L'eredità di quest'ultimo gli permise di recuperare altre opere dello zio pontefice. Si aggiunga l'importante acquisto, grazie a un prestito degli Spannocchi, della biblioteca di Giovanni Andrea Bussi, vescovo di Aleria in Corsica e primo bibliotecario della Vaticana. Possedette anche vari manoscritti del cardinal Nicola Cusano, in seguito pervenuti alla Biblioteca Apostolica Vaticana (v. B.A.V., Vat. lat. 4193 e 8090). A.A. Strnad ha abilmente ricostruito le relazioni di P. con i maggiori autori della sua epoca. Apposite dediche ci permettono di sapere che aveva stretti legami con Marsilio Ficino (che gli donò un esemplare personalizzato del trattato In convivium Platonis de amore), Ludovico Odasio da Padova (Quo pacto quispiam amicum ab adulatore discernat, traduzione da Plutarco), Giovanni Cantalicio (Interpretatio in sacros hymnos), Bonifacio Bembo (traduzione delle Vite di Nerva e Traiano da Cassio Dione), Carlo Valgulio (De Virtute morum da Plutarco), Giannantonio Campano (Censuras in varios auctores, nonché le sue edizioni di opere di Plutarco, Cicerone, Svetonio e Quintiliano), Antonio Lolli (Vita sancte Eugenie). Bartolomeo Sacchi, il Platina, gli dedicò ovviamente la sua Vita Pii II e altre opere gli furono inviate da Poggio Bracciolini e Francesco Patrizi. La sua cerchia trascendeva la cultura italiana: Guillaume Fichet gli dedicò la sua Oratio de divi prothomartiris Stephani laudibus, pronunciata davanti a Sisto IV il 26 dicembre 1476 (cfr. P.O. Kristeller, An Unknown Humanist Sermon on St. Stephen by Guillaume Fichet in Mélanges Eugène Tisserant, VI, Città del Vaticano 1964, pp. 460-87); lo spagnolo Fernando de Córdoba gli dedicò un esemplare del Tractatus philosophicus de pontificii pallii misterio. Inoltre quel che resta del suo archivio ci mostra lettere indirizzate a o ricevute dai più importanti nomi dell'umanesimo coevo: Ficino in primo luogo, ma anche Francesco Filelfo, Angelo Poliziano, Marcantonio Coccio (Sabellico), Ermolao Barbaro.

fonti e bibliografia

L'A.S.V. (Reg. Vat. 464, 468-471, 475 e 515; Arm. XXIX, t. 10, e Arm. XXX, t. 52) e la B.A.V. (Vat. lat. 5641), nonché l'Archivio arcivescovile, l'Archivio capitolare e l'Archivio di Stato di Siena (in particolare la serie Lettere del Concistoro) sono ricchi di materiale su P., ma tutta la documentazione disponibile è censita dagli studi di A.A. Strnad, cfr. infra, che ricordano anche la lettera a Giovanni Burcardo oggi posseduta dalla Biblioteca Angelica di Roma (ms. 1077, c. 87v) attestante il suo grande amore per la Germania e la cultura tedesca. Il suddetto codice dell'Angelica è assai ricco e contiene molte lettere di P., tra le quali quella a Ottaviano Ubaldini, scritta agli inizi del 1471, analizzata in R. Avesani, Sulla battaglia di Varca nel 'De Europa' di Pio II: Battista Franchi e il cardinale Francesco Piccolomini, "Atti e Memorie della Deputazione di Storia Patria delle Marche", ser. VIII, 1964-65, pp. 85-103.

Per le fonti senesi e l'opera manoscritta di Sigismondo Tizio (Historiae Senenses, ms. nella Biblioteca Nazionale di Firenze, II.V.140), cfr. P. Piccolomini, Il Pontificato di Pio III secondo le testimonianze di una fonte contemporanea, "Archivio Storico Italiano", ser. V, 32, 1903, pp. 102-38, e Id., La vita e l'opera di Sigismondo Tizio, 1458-1528, Siena 1903.

Per l'incendio delle abitazioni dei Colonna e dei della Valle, nonché per gli avvenimenti che lo precedettero: Diario della città di Roma di Stefano Infessura Scribasenato, a cura di O. Tommasini, Roma 1890 (Fonti per la Storia d'Italia, 5), pp. 122-23, e Il Diario romano di Jacopo Gherardi da Volterra dal 7 settembre 1479 al 12 agosto 1484, in R.I.S.², XXIII, 3, a cura di E. Carusi, 1911, p. 133.

G. Marini, Degli archiatrii pontificii, Roma 1784, pp. 152-66, riporta la "familia" di Pio II del 1460.

F. Cancellieri, Storia de' solenni possessi de' sommi pontefici, ivi 1802, pp. 53-5, offre alcuni dati sull'incoronazione e la morte di Pio III.

Infine L. von Pastor, Storia dei papi dalla fine del Medio Evo, III, ivi 1932, pp. 645-79, è al solito ricco di notizie sull'elezione, da accompagnare con altro materiale anche documentario in questo e nel precedente volume (II, ivi 1932) sull'attività del cardinale. È inoltre oggi fondamentale I. Ammannati Piccolomini, Lettere (1444-1479), a cura di P. Cherubini, ivi 1997.

La letteratura su P. non è particolarmente abbondante né di spicco, con l'unica, notevole eccezione di A.A. Strnad, Pio II e suo nipote Francesco Todeschini Piccolomini, "Atti e Memorie della Deputazione di Storia Patria delle Marche", ser. VIII, 1964-65, pp. 35-84, e di Id., Francesco Todeschini-Piccolomini Politik und Mäzenatentum im Quattrocento, "Römische Historische Mitteilungen", 8-9, 1964-66, pp. 101-426.

Alcuni studiosi legati alla famiglia o comunque di ambito toscano hanno ricostruito aspetti minori, anche se non del tutto irrilevanti della biografia di P.: F. Piccolomini, Alcuni documenti inediti intorno a Pio II e Pio III, "Atti e Memorie della Sezione Letteraria e di Storia Patria della R. Accademia dei Rozzi", n. ser., 1, 1871, pp. 39-43; D. Bandini, Memorie piccolominee in Sarteano, "Bullettino Senese di Storia Patria", 57, 1950, pp. 107-30; Id., Gli antenati di Pio III, ibid., 73-5, 1966-68, pp. 239-51; C. Ugurgieri della Berardenga, Pio II Piccolomini con notizie su Pio III e altri membri della famiglia, Firenze 1973, pp. 504-23. Naturalmente l'epistolario e le biografie di Pio II, per i quali si rimanda alla voce in questo stesso volume, contengono ulteriori particolari sugli studi e sul cardinalato del nipote.

Per la crociata e il viaggio di Pio II ad Ancona, cfr. quanto riportato in P.O. Kristeller, Iter Italicum, II-III, London-Leiden 1977-83, in partic. II, p. 474b; III, p. 252.

Per la bibliofilia di P. e dello zio, cfr. E. Piccolomini, De codicibus Pii II et Pii III deque bibliotheca ecclesiae cathedralis, "Bullettino Senese di Storia Patria", 6, 1899, pp. 483-96, nonché F. Donati, Arredi sacri e libri posseduti dal cardinale Francesco Piccolomini, "Miscellanea Storica Senese", 1, 1893, pp. 150-53.

Per i legami con la cultura senese, cfr. Umanesimo a Siena, a cura di E. Cioni-D. Pasti, Roma 1994.

La letteratura sulla Legazione presso Carlo VIII è abbastanza copiosa, ma assai invecchiata; oltre alle opere generali già citate v.: J. Calmette, La légation du cardinal de Sienne auprès de Charles VIII, "Mélanges d'Archéologie et d'Histoire. École Française de Rome", 22, 1902, pp. 361-77; C. Maumené, Une ambassade du pape Alexandre VI au roi Charles VIII. Le cardinal François Piccolomini, "Revue de Deux Mondes", ser. V, 52, 1909, pp. 677-708; E. Vecchi-Pinto, La missione del cardinale Francesco Piccolomini legato pontificio presso Carlo VIII, "Archivio della R. Deputazione Romana di Storia Patria", 68, 1945, pp. 97-110.

Sul progetto di riforma della Chiesa sotto Alessandro VI e l'attività di P. nella commissione cardinalizia: L. Celier, Alexandre VI et la réforme de l'église, "Mélanges d'Archéologie et d'Histoire. École Française de Rome", 27, 1907, pp. 65-124.

Sui rapporti con la Chiesa tedesca: J. Schlecht, Pius III. und die deutsche Nation, in Festschrift Georg von Hertling, München 1913, pp. 305-28.

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