MASETTI, Pirro

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 71 (2008)

MASETTI, Pirro (Mastri, Pietro)

Alice Cencetti

– Noto con lo pseudonimo anagrammatico di Pietro Mastri, nacque a Firenze il 24 apr. 1868 da Enrico ed Emilia Bolognesi, entrambi originari del Mugello.

L’infanzia e la prima giovinezza del M. trascorsero tra Livorno, la Sicilia, la Sardegna, Milano e Firenze a causa del lavoro del padre, che, direttore di dogana, fu costretto a ripetuti spostamenti per la penisola. A Livorno il M. frequentò il ginnasio e due anni di liceo; a Siracusa, dove, ancora adolescente, aveva iniziato a pubblicare alcuni scritti in riviste locali, terminò gli studi liceali, mentre a Catania compì il primo anno di università assistendo alle lezioni di M. Rapisardi. Dopo aver conseguito la laurea in giurisprudenza a Pisa nel 1888, si stabilì definitivamente a Firenze, dove intraprese la carriera di avvocato.

Lo pseudonimo e il nome anagrafico, dunque, rappresentano la realtà di due vite parallele vissute in una, Masetti l’avvocato e Mastri il poeta: il primo «creatura diurna e feriale», il secondo «notturna domenicale e festiva» (Orvieto).

Il M., letterato sui generis anche per formazione, pubblicò il suo primo sonetto, Nel fondo delle Cascine, il 6 apr. 1890 nella Vita nuova, la stessa rivista che aveva dato accoglienza anche ad alcuni dei primi componimenti poetici pascoliani. E proprio nel 1892, l’anno della consacrazione delle Myricae, venne data alle stampe a Firenze la prima raccolta del M., dal titolo Frammenti poetici.

La raccolta, incentrata sul tema della natura, rivelava il carattere ancora immaturo della poesia del M., che, in cerca di una misura stilistica sicura e originale, concedeva molto alla letterarietà e risentiva dell’inevitabile influsso dei maggiori poeti di fine Ottocento: G. Pascoli, G. Carducci e G. D’Annunzio.

La celebrazione della natura quale tema predominante caratterizza anche Maggiolata (ibid. 1895), un poemetto che il M. compose in collaborazione con l’amico A. Orvieto. E proprio nel côté culturale fiorentino di quegli anni, con lo stesso Orvieto ed E. Corradini, G.S. Gargano e D. Garoglio, troviamo il M. tra i fondatori e gli animatori della rivista Il Marzocco, che si cominciò a pubblicare a Firenze il 2 febbr. 1896.

Fu soltanto all’inizio del nuovo secolo che, dopo l’Ode africana (ibid. 1895), il M. pubblicò le prime raccolte in cui è possibile scorgere una personalità artistica peculiare e originale, sebbene non ancora nettamente definita.

L’Arcobaleno (Bologna 1900) si apriva con una lettera dedicatoria alla sorella nel ricordo dei loro avi contadini, che introduceva una serie di poesie attraverso cui l’autore si proponeva di compiere un percorso per tornare nel seno della grande madre natura. Era infatti un impulso panteistico, tradotto di frequente in bozzettismo, a costituire il motivo ispiratore dell’intera raccolta; per quanto, come già nella prima opera, non fossero rari i momenti in cui si avvertiva quella malinconica meditazione che tanta parte avrebbe avuto nella produzione della maturità e che rappresentò la cifra più autentica dell’arte del Masetti. I temi erano destinati a mutare di lì a pochi anni e già ne Lo specchio e la falce (Milano 1907) si assiste a un fare poetico più misurato e riflessivo, che – sulla scia della grande elegia cosmica pascoliana dei Canti di Castelvecchio (1903)– aveva per oggetto il destino del mondo perso nell’infinito, l’essenza dell’esistenza umana e il suo senso ultimo, ovvero il ruolo che la morte (la falce) gioca nella realtà della vita.

Fu a proposito di questa prima produzione che i critici contemporanei parlarono di un’evidente matrice pascoliana, ma di un pascolismo da epigono, marchiando così il M. con un’etichetta che fu sempre il suo cruccio, e di cui riuscì solo in parte a liberarsi nella maturità. Certo, soprattutto nei Frammenti poetici, si trovano scoperti richiami all’opera di Pascoli, in specie nella tendenza alla rappresentazione dell’elemento naturale coniugata a quell’ancora soffusa e indefinita percezione del mistero umano. Tuttavia, come poi meglio si comprese nel prosieguo della sua carriera poetica, se analogie vi furono, esse – a giudizio di altri – si dovettero in gran parte a una «certa affinità di temperamento […] e anche dell’atmosfera in cui erano entrambi quasi contemporaneamente cresciuti» (M. Gastaldi, Scrittori del tormento, Bologna 1928, p. 195), e non a consapevole e voluta imitazione. Resta comunque innegabile che «il Pascoli agreste aiutò il giovane Mastri a vedere la natura in concreto, a vederla con occhi nuovi, con spirito nuovo, più fresco, più ingenuo, diciamo pure più umile» (Capria, p. 80).

Dopo il 1907 la voce del M. tacque improvvisamente ed egli mantenne una rigida consegna del silenzio per ben tredici anni, durante i quali la pratica di avvocato riprese il sopravvento. La lunga pausa nell’attività creativa si interruppe con La Meridiana (Ferrara 1920), che il M. dedicò alla moglie, sposata nel 1908. In questo intervallo temporale, esattamente nel 1916, il M. subì una delicata operazione che lo costrinse a sei mesi di ospedale e a due anni di continue sofferenze fisiche. Fu proprio l’esperienza del dolore ad alimentare una nuova fonte d’ispirazione poetica, accompagnata stavolta da un profondo sentimento religioso, che portò il M. ad affermare che la poesia stessa è soprattutto fede, cioè fervore.

La Meridiana si può considerare una raccolta di transizione, con la quale il M. tornò a prendere confidenza con il mezzo espressivo, e che preluse a La fronda oscillante (Firenze 1923), dedicata al figlio Enrico nato nel 1909. Quest’ultima, nella celebrazione degli affetti familiari e dei sentimenti più schietti della vita, nella riaffermazione della propria fede riconquistata, preannunciò a sua volta La via delle stelle (Milano 1927), la raccolta che la critica contemporanea ha concordemente giudicato l’esito migliore del Masetti.

Essa presenta l’andamento di un’autobiografia poetica, in cui le liriche, osservando una disposizione cronologica che ripercorre le tappe dell’esistenza, confermano il carattere unitario del libro, nonché un’efficace e matura sintesi dell’intera attività artistica del loro autore. Dominano una sensibilità genuinamente cristiana e la vibratile percezione delle difficoltà di un travaglio quotidiano che coinvolge anima e corpo. Non a caso E. Montale poté scrivere, al riguardo, che «in certe nervose contrazioni, in certi sussulti improvvisi, in un formarsi e ridistendersi di nodi, nella concitazione stessa del suo discorso, il Mastri è poeta dei nostri giorni» (Le poesie di Mastri, in La Fiera letteraria, 14 ag. 1927). I componimenti più riusciti sono L’isola della viva morte e la Canzone ermetica.

Non vi sono dubbi che il M. presenti un temperamento essenzialmente lirico e che prove narrative come La lingua del pappagallo. Cronache borghigiane di prima della guerra (Firenze 1922), o drammaturgiche come La casa alle Tre vie. Due atti e un intermezzo (ibid. 1926), preceduta da Valdeflores. Dramma lirico (Milano 1895), possano considerarsi decisamente fallite. Tuttavia, i due volumetti di critica letteraria Su per l’erta (Bologna 1903), che raccolse alcuni interventi apparsi nella Vita nuova e nel Marzocco, e Il Giovane e… l’Altro ovverosia «Poeti d’oggi». Bizzarria critica (Ferrara 1920) sono preziosi perché gettano luce sulla concezione artistica del M.: una concezione che, mantenendo nelle sue linee essenziali un solido legame con la tradizione, parve fungere da provocazione in anni in cui le avanguardie letterarie dettavano la moda culturale. Il M., tuttavia, senza mai cadere in tentazioni versoliberiste e nel rispetto della metrica tradizionale, si mostrò consapevole della necessità di svecchiamento della poesia e, pur proponendo l’utilizzo di metri canonici, cercò di creare nuove combinazioni di ritmi e di strofe, nuove corrispondenze di rime, essenziali per dare voce attraverso un’inedita musicalità alla sensibilità dell’artista moderno.

In Su per l’erta si ricordano almeno due interessanti interventi: quello sulla letteratura dialettale dal titolo La malerba dialettale, in occasione del quale iniziò uno scambio epistolare con L. Pirandello a proposito delle possibilità, e delle implicazioni sull’uso, della lingua o del dialetto in letteratura; e quello sui rapporti di derivazione delle Myricae pascoliane dai Bordatini di S. Ferrari (la raccolta di versi del poeta bolognese pubblicata ad Ancona nel 1885), che suscitò l’irritata reazione di Pascoli, il quale nell’occasione definì il M. uno dei «sacrilegi profanatori del tempio» (cfr. Lungo la vita di Giovanni Pascoli, pp. 714 s.), dove il tempio era ovviamente il sancta sanctorum della sua poesia.

Il M., secondo un personale manifesto di poetica, affermava che la poesia stava nelle cose, che doveva scaturire «dalle cose che più ci son familiari, che abbiamo tutti i giorni sotto gli occhi, perché la lunga consuetudine potrà più facilmente farcene comprendere […] l’intimo e recondito significato. […]. Ma cercare la poesia in cose fugacemente nuove e straniere è tempo perso» (Su per l’erta, cit., p. 171). E il senso di continuità con il passato, una sorta di carducciano «innovare conservando», era teorizzato anche ne Il Giovane e… l’Altro, in cui all’«Altro», suo alter ego, il M. faceva dire che «il senso dell’umano e del divino, che solo può far grande la poesia, non si acquista troncando ogni legame col passato […] con l’illusione di trasformarti in uomo nuovo sopra un mondo nuovo. […]. Bisogna sentirselo gravare sulle spalle, questo nostro vecchio mondo […] e quanto più ti curverai sotto il peso, tanto più la tua anima si eleverà; e quanto più affonderai le radici in questo suolo di millenni, e tanto più metterai fronde nuove» (pp. 32 s.).

«Poeta galantuomo», come fu una volta definito da Orvieto, per la sincerità della sua arte e l’onestà della sua ispirazione, il M. morì improvvisamente a Firenze il 20 febbr. 1932.

L’anno successivo vennero pubblicati postumi – e incompiuti – i suoi Ultimi canti (Milano-Roma 1933), a opera del fraterno amico B. Cicognani.

Fonti e Bibl.: Necr., B. Tecchi, In morte di Pietro Mastri, in L’Italia letteraria, 28 febbr. 1932; A. Orvieto, La poesia di Pietro Mastri, in Il Marzocco, 28 febbr. 1932; B. Cicognani, Il fratello d’esilio, in Corriere della sera, 1° marzo 1932; G. Fanciulli, Pietro Mastri, in La Tribuna, 11 marzo 1932; P. Pancrazi, Ricordo di Pietro Mastri, in Pegaso, IV (1932), marzo, pp. 354-359; Lettere di Luigi Pirandello a Pietro Mastri, a cura di E. Providenti, in Nuova Antologia, CXXIX (1994), 1, pp. 231-254; L. Pirandello (Giulian Dorpelli), Fra libri vecchi e nuovi, in Minerva, XI (1901), pp. 403 s.; G.S. Gargano, Tra il contingente e l’assoluto, in Il Marzocco, 15 ag. 1920; Id., Ristampe, ibid., 10 apr. 1921; T. Rovito, Letterati e giornalisti italiani contemporanei. Diz. bio-bibliografico, Napoli 1922, p. 254; G.S. Gargano, L’altro volto delle cose, in Il Marzocco, 26 ag. 1923; E. Montale, Le poesie di Mastri, cit.; G.S. Gargano, Un poeta umano. «La via delle stelle» di Pietro Mastri, in Il Marzocco, 18 sett. 1927; A. Garsia, Pietro Mastri, in L’Italia che scrive, X (1927), pp. 213 s.; L. Tonelli, La poesia di Pietro Mastri, in Riv. d’Italia, XXXI (1928), pp. 42-54; M. Gastaldi, Scrittori del tormento, Bologna 1928, pp. 187-203; B. Croce, La letteratura della nuova Italia, II, Bari 1929, pp. 302-304, 307 s.; L. Tonelli, Alla ricerca della personalità. Seconda serie, Catania 1929, pp. 109-129; G. Ravegnani, I contemporanei. Dal tramonto dell’Ottocento all’alba del Novecento, Torino 1930, pp. 253-259; J. Busoni, Interpretazioni, Firenze 1932, pp. 69-81; S. Benco, Chiara poesia, in Il Piccolo della sera, 17 ag. 1933; D. Lupi, Scrittori e poeti. Conferenze, Firenze 1934, pp. 125-142; P. Pancrazi, Scrittori italiani del Novecento, Bari 1939, pp. 81-93; R. Capria, La critica letteraria e la poesia di Pietro Mastri, Milano 1958; M. Pascoli, Lungo la vita di Giovanni Pascoli, Milano 1961, pp. 425, 714-716; Enc. Italiana, Appendice I, sub voce.

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