Pisa

Enciclopedia Dantesca (1970)

Pisa

Giovanni Cherubini
Eugenio Ragni
Pier Vincenzo Mengaldo
Isa Barsali Belli

Comune ghibellino della Toscana, le cui vicende politiche, sociali e culturali sono strettamente legate alla storia di Firenze, e in qualche modo alla vita stessa di D., e ricorrono nel panorama della Commedia in virtù, soprattutto, del celebre episodio di Ugolino della Gherardesca (v.) e dei suoi figli e nipoti, la cui tragica morte strappa al poeta una violentissima invettiva contro la città (Ahi Pisa, vituperio de le genti / del bel paese là dove 'l sì suona, If XXXIII 79) cui dà l'epiteto di novella Tebe (v. 89), e gli fa invocare una specie di cataclisma naturale, con isole che si muovono verso la foce dell'Arno a provocare una terribile ecatombe: muovasi la Capraia e la Gorgona, / e faccian siepe ad Arno in su la foce, / sì ch'elli annieghi in te ogne persona! (vv. 82-84). I Pisani vengono anche giudicati volpi sì piene di froda, / che non temono ingegno che le occupi (Pg XIV 53-54). Accusa, questa, per la verità, abbastanza diffusa, almeno nelle città avversarie, se la troviamo ripetuta dal cronista genovese Iacopo Doria (" ut moris est eorum, qui unum dicunt et aliud faciunt "; cit. in E. Cristiani, p. 245) e che trova forse una radice nel comportamento non sempre rettilineo e chiaro che la città dovette tenere nella per lei difficilissima situazione della fine del XIII e dell'inizio del XIV secolo. I più antichi commentatori della Commedia tendono, del resto, spiegando, a confermare l'accusa. Nel commento di Pietro si legge: " Pisanos cautelis, malitiis et fraudibus multiplicibus plenos, vulpibus merito comparandos ". Più perspicuamente così spiega la froda pisana Francesco da Buti: " Trova le volpi, cioè li Pisani, li quali assimiglia alle volpi per la malizia: imperò che li Pisani sono astuti, e co' l'astuzia più che co' la forsa si rimediano dai loro vicini ". Scarsissimi sono invece gli accenni alla città e al paesaggio del territorio pisano. Oltre alla Capraia e alla Gorgona, si ricordano i pelaghi cupi (Pg XIV 52) che il corso dell'Arno incontra tra Firenze e P., e il Monte Pisano, per che i Pisan veder Lucca non ponno (If XXXIII 30). Al carattere selvaggio di una parte del territorio su cui si stendeva la supremazia pisana, o almeno della sua estrema fascia meridionale accenna D. allorché descrive l'intero litorale maremmano: non han sì aspri sterpi né sì folti / quelle fiere selvagge che 'n odio hanno / tra Cecina e Corneto i luoghi colti (XIII 7-9). Della città, del suo porto, dei suoi palazzi, delle sue vie, delle sue splendide chiese D. non ci dice nulla, salvo un cenno alla torre della Muda dove fu rinchiuso il conte Ugolino con i suoi. Nessuna traccia si ha, del resto, nel poema e nelle opere minori di un soggiorno dantesco a P., anche se par difficile escluderlo. Giovanni Sforza credette possibile, solo su basi induttive, che il poeta si trovasse là al seguito di Enrico VII nel 1312: questa tesi trova un'indiretta conferma in un passo petrarchesco. In un'epistola a Giovanni Boccaccio il Petrarca infatti, difendendosi dall'accusa d'invidia nei confronti di D. che gli era da più parti mossa, così replica: " in primis quidem odii causa prorsus nulla est erga hominem numquam michi nisi semel, idque prima pueritiae meae parte, monstratum " (Fam. XXI XV 7). Il luogo più probabile di quest'incontro è P., ove il Petrarca soggiornò nel suo ottavo anno di vita (cfr. Posteritati, ediz. Ricciardi, Milano-Napoli 1955, p. 8 r. 7 " octavum Pisis "), quindi fra , il 1311-1312, dato che è praticamente impossibile che avvenisse prima, e difficile in seguito dato che il Petrarca si stabilì in Provenza. Altri critici pensano, come Francesco Flamini, che D. si recasse a P., forse da Lucca, intorno al 1315, in pellegrinaggio alla tomba dell'imperatore; ma è ipotesi difficilmente sostenibile, se, come pare, D. era ormai in quell'epoca a Verona.

Negli anni della maturità di D., per quanto avesse ormai perduto a favore di Firenze la supremazia in Toscana, P. era ancora una grande piazza mercantile e, secondo le dimensioni urbanistiche del Medioevo, una grande città, che l'attività del porto rendeva particolarmente vivace. Secondo i calcoli del Cristiani la popolazione cittadina sarebbe stata non inferiore ai 40.000 abitanti nel 1284 e ai 50.000 nel 1315. Tra le città della regione queste cifre collocano P. in posizione forse abbastanza simile a quella di Siena e a circa metà strada dalla popolazione di Firenze. Nel 1228, viceversa, con i suoi forse 30.000 abitanti P. doveva essere ancora molto vicina a Firenze o addirittura ancora avanti. Il che porterebbe a credere che, nonostante l'innegabile espansione urbanistica e l'emigrazione in città di popolazioni campagnole nella seconda metà del Duecento, il ritmo di crescita sia stato in questi anni a P. sensibilmente inferiore a quello che si verificò a Firenze, a conferma del progressivo rovesciamento di equilibrio fra le due potenze rivali.

Dopo il 1266, nel quadro del progressivo spostamento dell'equilibrio politico in Toscana, P. dovette seguire una politica di patteggiamenti con la lega guelfa. Nel 1270 un trattato di pace costringeva i Pisani, fra l'altro, a promettere agevolazioni nell'uso del porto. Al momento della stipulazione del trattato le fazioni dei Gherardesca (pars comitum) e dei Visconti (pars vicecomitum) provocarono un grave tumulto che indusse il comune a espellere i capi dell'una e dell'altra fazione. Fino al 1284 tutti gli avvenimenti interni pisani e gli stessi rapporti verso l'esterno appaiono largamente condizionati e intrecciati con il comportamento delle due grandi consorterie. Per quanto le organizzazioni popolari avessero fatto dalla metà del secolo dei passi decisivi verso la presa del potere e la magistratura popolare dell'Anzianato si fosse affermata alla testa del comune, la nobiltà e le famiglie magnatizie non erano del tutto estromesse dal governo della città. Tra il 1272 e il 1275 Giovanni Visconti, giudice di Gallura, e il conte Ugolino della Gherardesca di Donoratico, fuorusciti, si collegarono con le forze guelfe che inflissero ai Pisani la sconfitta di Asciano (9 settembre 1275). Il rientro in città di Ugolino e degli altri fuorusciti guelfi non condusse tuttavia a un immediato capovolgimento della tradizione politica ghibellina di P., della quale fu espressione il conflitto con Genova fra il 1282 e il 1284. Dopo una serie di scontri minori, si giunse, il 6 agosto 1284, alla battaglia decisiva, presso le secche della Meloria. La flotta pisana fu quasi interamente distrutta e il predominio navale passò definitivamente a Genova, dove furono condotti prigionieri migliaia di Pisani. Come dimostrano gli elenchi rimasti, fra costoro numerosi erano gli appartenenti alle famiglie più ragguardevoli, sia del ceto nobiliare-magnatizio, sia della borghesia, che tutti insieme avevano portato il loro contributo al decisivo sforzo antigenovese.

Nel difficilissimo momento attraversato da P., quando le città della lega guelfa cercavano di vibrare il colpo decisivo, Ugolino della Gherardesca, che era stato uno dei tre capi supremi alla Meloria, rimase in città come l'unico in grado, per i suoi precedenti contatti con i guelfi, di condurre a termine delle trattative. La cessione de le castella per cui Ugolino aveva voce / d'aver tradita la città (If XXXIII 85-86) e per cui, D. lo condanna come traditore della patria, pare fosse in realtà, in quel momento (maggio 1285), l'unico mezzo per evitare schiaccianti condizioni di resa. La signoria di Ugolino prende corpo in questa situazione di emergenza. Nel febbraio del 1286 gli viene conferita la nomina a podestà e capitano per dieci anni e nel luglio viene associato al potere il nipote (figlio di una figlia) Nino Visconti, giudice di Gallura. Alla breve durata della signoria contribuirono i difficili rapporti con le città nemiche, soprattutto Genova. Alla fine del 1287, fra i due signori, parve che Nino fosse il più disposto a concludere una pace con i Genovesi, invocata da migliaia di cittadini perché avrebbe ricondotto in città i prigionieri di Genova. A Ugolino si attribuiva invece una certa resistenza all'accordo anche perché le cessioni territoriali richieste dai Genovesi coinvolgevano le sue grandi proprietà della Sardegna. Per timore d'impopolarità il conte dovette tuttavia arrendersi alle trattative e nell'aprile del 1288 furono inviati a Genova dei rappresentanti ufficiali. Una parte determinante negli accordi la ebbero i prigionieri pisani, che in vista del rientro a P. avevano eletto una loro rappresentanza e attraverso un messo segreto avevano preso contatto con l'arcivescovo Ruggieri. I Gualandi, che facevano parte di questa rappresentanza, furono proprio, come dice D., insieme ai Sismondi e ai Lanfranchi (If XXXIII 32), i principali promotori della congiura contro Ugolino (30 giugno - 1 luglio 1288), che portò, dopo una prigionia di molti mesi, alla fine tragica di lui e dei congiunti. Essi costituirono il nucleo essenziale nel successivo governo dell'arcivescovo Ruggieri.

Nel 1289 giunge a P. un altro grande personaggio dantesco, il capo ghibellino Guido da Montefeltro, la cui iniziativa contribuisce subito a rialzare le fortune militari dei Pisani. A lui fu chiamato a succedere, nel 1292, il figlio Galasso. All'interno della città tuttavia, un partito, espressione soprattutto degl'interessi mercantili, spingeva ormai alla pace, in particolare con Firenze, agitata del resto da gravi conflitti interni e perciò essa stessa interessata all'accordo. P. non poteva più a lungo permettere che il suo porto, la cui tradizionale funzione di transito diventava ancor più vitale con il progressivo passaggio in mano ai Genovesi dei lontani mercati mediterranei e della supremazia marittima, rimanesse chiuso alle correnti commerciali dell'interno. La pace di Fucecchio (luglio 1293) portò così, oltre che al congedo dei Montefeltro, alla concessione di ampie agevolazioni ed esenzioni per le merci fiorentine in transito da Porto Pisano. Un'analoga politica conciliatrice condusse nel 1299 a un nuovo trattato con Genova, nel quale oltre al rientro dei pochi prigionieri sopravvissuti nelle carceri genovesi, erano contemplate ampie franchigie ai Genovesi nel porto di P. e in quelli della Sardegna, la consegna della Corsica e del giudicato di Torres, il versamento di una forte indennità.

Nei primi anni del Trecento P., come in precedenza aveva accolto gli esuli ghibellini, dette ricetto ai Bianchi fiorentini fuorusciti e inviò loro aiuti militari, fin dal 1304, a Pistoia e ad Arezzo. Qualche anno dopo, nel 1309, la città fu sul punto di sottomettersi al re aragonese Giacomo II, che svolgeva un'abile politica di penetrazione verso l'Italia e che da Bonifacio VIII aveva ricevuto un'investitura sulla Sardegna. Solo un nuovo avvenimento di vasta portata come la discesa in Italia di Enrico VII di Lussemburgo e il ridestarsi delle speranze ghibelline impedì questo atto di sottomissione. Dopo una serie di contatti - un'ambasceria pisana che andò incontro all'imperatore era composta da Federico da Montefeltro, Uguccione della Faggiuola e Castruccio Castracani - l'alto Arrigo giunse a Pisa nella primavera del 1312 fra l'entusiasmo della cittadinanza, che, sperando evidentemente di riconquistare per la città un ruolo di primo piano, si sottopose di buon grado a un oneroso finanziamento della spedizione imperiale. L'impresa non giunse a compimento per la morte dell'imperatore (24 agosto 1313), cui vennero tributate solenni onoranze a P. (Villani IX 53). I Pisani non abbandonarono la politica ghibellina e chiamarono subito (settembre 1313) Uguccione della Faggiuola, uno dei grandi condottieri ghibellini. Sotto di lui s'impadronirono, nel giugno successivo, della città di Lucca e riportarono contro l'esercito fiorentino, il 29 agosto del 1315, la vittoria di Montecatini. La battaglia, che ebbe una vasta risonanza, contribuì a rafforzare il momentaneo predominio ghibellino in Toscana, ma nell'aprile dell'anno successivo una rivolta, fomentata probabilmente dal ceto mercantile che voleva riallacciare i contatti con le città dell'interno, portò alla caduta di Uguccione. Subito dopo la sua cacciata a emergere sulla scena cittadina furono i conti di Donoratico del ramo ghibellino, prima attraverso forme larvate di signoria poi con connotati sempre più aperti. Durante i primi anni del loro governo - che sarebbe durato per più di un venticinquennio - fu perduta la Sardegna, che passò, nonostante una disperata difesa, agli Aragonesi (1322-23). La perdita dei proventi dell'isola, che costituivano oltre la metà degl'introiti del comune, recò un colpo gravissimo all'economia pisana e sanzionò definitivamente il tramonto della città come potenza marinara e come potenza di primo piano in Toscana e nel Tirreno.

La trama di questi avvenimenti cittadini, spesso realmente convulsa, non aveva che saltuariamente e lievemente modificato all'interno della città l'equilibrio delle forze sociali al potere. Nonostante qualche tentativo dei regimi signorili di venire incontro alle arti minori e alle classi inferiori, la magistratura dell'Anzianato rimase saldamente in mano alla più agiata borghesia artigianale e mercantile, che riusciva a controllare anche i consigli cittadini e a limitare, non senza l'erompere di qualche aperto contrasto, l'autorità del podestà e del capitano del popolo. Nel collegio degli Anziani, composto di 12 membri (3 per quartiere) che restano in carica per un bimestre, dispongono di otto posti, come mostrano le liste di Anziani rimasteci a partire dal luglio 1288, in primo luogo gl'iscritti alle tre grandi organizzazioni mercantili-industriali della Curia dei Mercanti, dell'Ordine del Mare e dell'Arte della Lana, e in ogni modo i membri della media e ricca borghesia (spesso imparentati con famiglie nobiliari-magnatizie), o professionisti come ‛ medici ', ‛ iurisperiti ', ‛ iudices ', ‛ physici '. Agli ‛ artifices ' rimangono nell'Anzianato solo quattro posti, ma va aggiunto che si tratta solo degli artefici organizzati politicamente nelle sette Arti ufficialmente riconosciute (cuoiai, tavernai, fabbri, notai, calzolai, pellicciai, setaioli).

Dei personaggi di primo piano implicati nelle vicende interne della città D. ricorda, oltre a Ugolino, all'arcivescovo Ruggieri, ai Gualandi, ai Sismondi, ai Lanfranchi, anche Ugolino Visconti, il giudice Nin gentil (Pg VIII 53) signore del giudicato sardo di Gallura e associato, per qualche tempo, al conte Ugolino nel governo di Pisa. L'amicizia affettuosa che il poeta rivela nei riguardi di Nino fa pensare che tra loro fosse intercorsa una conoscenza non superficiale. D. può avere incontrato il Visconti, intorno al quale si erano stretti gli esuli guelfi di P. dopo la morte del conte Ugolino, all'assedio del castello pisano di Caprona: così vid'ïo già temer li fanti / ch'uscivan patteggiati di Caprona, / veggendo sé tra nemici cotanti (If XXI 94-96). Alle cose del Visconti e più in particolare al suo grande dominio sardo ci riconducono i versi relativi a frate Gomita, il vicario di pochi scrupoli di cui si era servito in Gallura (If XXII 81-87). Agli anni e all'ambiente ugoliniano par riconducibile infine anche l'ultimo personaggio pisano ricordato da D., il figlio (Farinata o Gano) di Marzucco Scornigiani, che era stato fatto uccidere dal conte Ugolino. Marzucco avrebbe trovato la forza - cosa abbastanza straordinaria per quel tempo - d'impedire alla famiglia di trarne vendetta o, come vogliono altri, si sarebbe recato di persona dal conte per chiedere di dare sepoltura al figlio (Pg VI 17-18).

Bibl. - Su P. al tempo di D.: D. Herlihy, P. in the early Renaissance. A Study of urban Growth, New Haven 1958; E. Cristiani, Nobiltà e popolo nel comune di P. - Dalle origini del podestariato alla signoria dei Donoratico, Napoli 1962. Si vedano inoltre: Davidsohn, Storia II II e III, passim; G. Rossi-Sabatini, L'espansione di P. nel Mediterraneo fino alla Meloria, Firenze 1935; ID., P. al tempo dei Donoratico (1316-1347), ibid. 1938. Su D. e P., oltre al sempre utile G. Sforza, D. e i Pisani. Studi storici, Pisa 1873², da vedere il breve articolo di F. Flamini, D. e P., nel vol. collettivo D. - La vita. Le opere. Le grandi città dantesche. D. e l'Europa, Milano 1921, 191-203.

A P., " in contrata dicta Carraia di San Gilio ", dal gennaio al giugno 1347 (" anno nativitatis Domini MCCCXLVII in primis sex mensibus de dicto anno "), " Tomazus olim filius Petri Benecti civi et marcatori lucano " esemplò il più antico codice pisano conosciuto della Commedia, l'attuale Hamilton 203 della Deutsche Staatsbibliothek di Berlino, già appartenuto alla biblioteca parigina del duca de la Vallière.

Del pisano Paolo di Duccio Tosi sono quattro codici di buona importanza nel quadro della tradizione testuale della Commedia: l'Italiano 73 della biblioteca Nazionale di Parigi, finito di esemplare il 30 ottobre 1403 per il " nobile huomo Francesco di Bartolomeo de Petrucci da Siena nel tempo ch'egli era honorevole executore della città di Pisa "; il Trivulziano 2263, terminato il 25 aprile 1405; il n. 3 della biblioteca Bodmer di Cologny (Ginevra), già appartenuto a sir Thomas Phillips, datato 11 gennaio 1412; e il Riccardiano 1046, terminato l'8 settembre 1429, scomparso nel 1832.

Di un altro codice della Commedia esemplato dal Tosi nel 1457 e appartenente nell'Ottocento alla collezione Kirkup dà notizia il Batines (cfr. n. 144); ma si tratta probabilmente di errore dello studioso, giacché il nome del Tosi non appare in nessuna delle sue descrizioni dei manoscritti danteschi del fondo Kirkup (i nn. 187-190), e l'unico codice di quel fondo datato 1457 - l'attuale Ital. 54 della Harvard College Library di Cambridge (Massachussetts) - risulta al Batines stesso (n. 189) esemplato dal lucchese Bartolomeo di Andrea Mazzoni (" Scriptum per me, Bartolomeum filium Andree Maççonis de Luce ").

Pisani probabilmente (o comunque della Toscana occidentale) sono il ben noto Ashburnhamiano 828, detto l'" Antichissimo ", della Laurenziana di Firenze, del 1335 o derivato da un codice di quell'anno; il codice Mediceo Palatino 74, sempre alla Laurenziana, esemplato alla fine del sec. XIV, contenente il Paradiso col commento del Lana; e II I 29 della biblioteca Nazionale di Firenze, quasi certamente del 1400 (la data che il copista, " Johannem domini... di Nicolao ", segnò nell'explicit, che oggi si legge " MCCC " per il taglio delle carte, sembra mutila di una sola cifra), ov'è trascritto l'intero testo della Commedia col commento del Buti, arricchito di preziose miniature di scuola lombarda tardo-gotica.

Del 1428, infine, è un altro codice pisano, l'attuale Laurenziano Strozziano 163, contenente il testo del Paradiso col commento del Buti (sono cadute la prima e l'ultima carta, e mancano pertanto i passi I 1 - II 45 e XXXIII 115-145).

Non sembra che a P. sia stata stampata alcuna edizione delle opere di D. prima di quella curata da Giovanni Rosini nel 1804-1809 (e si tratta di edizione senza commento tirata in 250 esemplari).

Bibl. - Batines, Bibliografia 60, 144, 261, 431, 465, 508; Mambelli, Annali 90; Mostra di codici ed edizioni dantesche, Firenze 1965, 112, 128.

Lingua. - Il dialetto pisano, già menzionato in VE I IX 4 in contrapposto al padovano, come esempio della differenziazione delle parlate italiane al di qua e al di là dello spartiacque appenninico, è più direttamente chiamato in causa insieme con quelli delle altre principali città toscane in VE I XIII 2, e parimenti spogliato (depompare) del preteso vanto d'identificarsi con il volgare illustre.

A caratterizzare il pisano D. impiega una breve frase (o forse verso, alessandrino o doppio settenario, ma non ne discende che possa essere citazione da un " canto pisano ", come assume il Marigo): Bene andonno li fatti [ms. facti] de Fiorensa per Pisa (lezione di B; i cod. G e T danno fanti, lezione accolta dal Marigo, da cui però si ricava meno bene un senso); frase che sarà anzitutto da leggere, un po' come il successivo esempio lucchese, quale ironica rappresentazione di una deplorevole boria municipale (" Le cose di Firenze si sono svolte nel modo migliore per Pisa ").

In essa sono presenti due tratti caratteristici del pisano antico: la desinenza -on(n)o della terza plurale del perfetto, documentata del resto di buon'ora anche in testi fiorentini, anzi in D. stesso (terminonno: Pd XXVIII 105, sia pure in rima), ma originaria di P., e in un primo tempo solo di P. (il lucchese l'assume un po' più tardi); e l'esito s sorda per z sorda fiorentina, peculiarissimo di P. - e Lucca - fin dai primissimi documenti (basti scorrere il codice Laurenziano-Rediano 9). A questa penuria di z è probabile che D. opponga subito dopo specularmente l'abbondanza della stessa consonante nel dialetto genovese (v. MARCA GENOVESE).

Nell'elenco di poeti delle varie città toscane, incapaci di passare da un livello linguistico municipale a uno curiale, che precede il paragrafo ora discusso, D. nomina per P. Gallo o Galletto (v.), la cui scarsa produzione residua è infatti maculata da frequenti elementi vernacolari, come piò per ‛ più ' e appunto s per z sorda (intendansa e simili, solasso, altessa, sensa, forsa, ecc.).

Bibl. - F. D'Ovidio, Sul trattato ‛ De vulg. Eloq. ', in Versificazione romanza. Poetica e poesia medievale, II (Opere di F. D'O., IX Il), Napoli 1932, 318-319; D.A., De vulg. Eloq., a c. di P. Rajna, Firenze 1896 (riprod. anastatica, Milano 1965) 72-73; Marigo, De vulg. Eloq. 113. Per i fenomeni dell'antico pisano sopra menzionati cfr. soprattutto: Castellani, Nuovi testi I 50; ID., in " Studi Ling. Ital. " IV (1963-64) 112-114, 136-137; V (1965) 129 ss.

P. ai tempi di Dante. - La città romana di Pisae sorse in zona di laguna costiera alla confluenza di due corsi d'acqua che troviamo, sia pur diversamente strutturati, anche nel Medioevo: l'Auser a nord, l'Arno a sud. Le profonde modifiche del sistema idrografico e l'insabbiamento della laguna rendono difficile la comprensione dei fatti topografici soprattutto di periodo romano. A questo si accompagna la scarsità dei resti: l'unico rudere in vista è l'edificio termale presso la Porta del Parlascio. Per la delimitazione della città, alla ricostruzione della Banti e del Neppi Modona, è da aggiungere che la fotografia aerea ha dato modo di apprezzare un ordinato reticolo viario nella zona della piazza del duomo, e che il toponimo civitate vetera, su cui ha giustamente attirato l'attenzione il Tolaini, si trova in una zona non considerata nella città romana dagli studiosi citati.

Nel Medioevo, perduta forse la nozione della P. romana, il passato romano era tuttavia ben presente per i numerosi pezzi di spoglio delle chiese e per le sculture.

È probabile una contrazione dell'abitato nell'alto Medioevo rispetto alla città romana. Il borgo (oggi Borgostretto) e i toponimi civitate vetera e Foriporta (il secondo darà poi il nome a un quartiere della città), la posizione delle porte Aurea, S. Martini, Picelle, Samuel, indicano una città assai ristretta, praticamente limitata all'attuale centro cittadino a nord dell'Arno.

Completamente sicura è invece la forma di P. nei secoli XII-XIV, individuabile nella cerchia muraria in gran parte ancora esistente, la cui costruzione fu promossa tra il 1155 e il 1161 da Cocco Griffi, lo stesso console che fece edificare il grande faro della Meloria. Nella cinta si aprirono numerose porte; tra le principali furono la porta Degathia (verso il mare, inclusa poi nella Cittadella), quella del Leone (presso la cattedrale); a nord la porta S. Stefano, quella del Parlascio e quella di S. Zeno; a est la Calcesana e la Spina. Nelle mura a sud dell'Arno si trovarono le porte S. Marco de Guatalongo, S. Martino de Guatalongo, S. Pietro.

A nord del fiume la città risulta divisa in Ponte, Mezzo, Foriporta, ma l'abitato si estese anche oltrarno, dove si trovavano chiese già prima delle mura del Griffi, nel quartiere di Chinzica, il cui nome è di origine germanica, collegato per mezzo dei ponti vetus e novus, del pons Spinae e del pons maris.

La ricostruzione cittadina ha uno dei suoi eventi più antichi nella cattedrale fondata in zona extraurbana da Buscheto nel 1063, al tempo del vescovo Guido da Pavia. Vi sarà sepolto Enrico VII di Lussemburgo; la tomba, eseguita da Tino di Camaino, è oggi smembrata, in parte nel duomo (figura dell'imperatore defunto), in parte nel camposanto monumentale (statue dell'imperatore in trono e dei consiglieri). Altri edifici sulla platea ecclesiae S. Mariae circondarono la cattedrale: il battistero di Diotisalvi, dal 1152; la torre campanaria di Bonanno, dal 1173; l'ospedale, post 1257; il camposanto, dal 1278. Nella cattedrale e nel battisteo lasciarono opere somme Nicola (pulpito del battistero, c. 1255-1260) e Giovanni Pisano (pulpito della cattedrale, dal 1302).

Fin dall'alto Medioevo le chiese sottolinearono i nodi di maggiore impegno viario; lungarno la chiesa di S. Salvatore (poi ricostruita) esternamente alla porta Aurea della penultima cerchia; la chiesa di S. Michele in Borgo, su cui poi gravitò la nuova arteria che congiunse la zona del ponte vecchio con la Porta del Parlascio; intorno a questa porta le chiese di S. Simone, dei SS. Giusto e Clemente, di S. Tommaso; la chiesa di S. Sisto, nella Corte Vecchia; oltrarno la chiesa di S. Cristina che segnalò il punto d'arrivo della via già romana (Aemilia Scauri). Particolarmente fitte furono le chiese di periodo romanico, di cui alcune sono sopravvissute in tutto o in parte, come S. Frediano, S. Zeno presso la porta omonima, S. Michele in Borgo, S. Pietro in Vinculis, S. Nicola Portae Maris, S. Matteo in podio, S. Paolo all'Orto. A sud dell'Arno, oltre S. Cristina, rimangono S. Paolo a Ripa e l'ottagono del S. Sepolcro, costruito nel XII secolo da Diotisalvi.

La città non ebbe mai un grande palazzo comunale sul tipo di quelli di Firenze e di Siena: la domus Antianorum si trovò nell'attuale piazza dei Cavalieri e fu distrutta nel secolo XVI dai Medici attenti a cancellare i ricordi della potenza della Repubblica. Se non è certo che qui si trovasse il forum come suppose la Banti, toponimi quali Castelletto e soprattutto Corte Vecchia - addizionato alla chiesa di S. Sisto e alla distrutta S. Pietro - fanno pensare che potrebbe trattarsi di zona già importante nell'alto Medioevo. La piazza, indicata come platea publica pisani communis, è detta nel 1319 ‛ piazza delle sette vie '. Vi si trovò il carcere comunale con la torre della Muda, dove fu chiuso Ugolino della Gherardesca, morto nel 1288.

P. ebbe così una piazza a carattere civile, nel centro, e una piazza a carattere religioso periferica, subito compresa nella nuova cerchia del Griffi, i cui lavori cominciarono proprio da questo lato. Oltre queste e i modesti larghi delle chiese è ricordata nel 1178 la platea Blade S. Clementis, disfatta nel 1344, che si trovava presso l'Arno e presso la località Petra.

La città medievale raggiunse il suo massimo sviluppo tra il sec. XIII e il XIV e fu caratterizzata dalle case-torri su pilastri in pietra congiunti da archi quasi sempre acuti e da numerose torri. Fu sede di uno Studio che ebbe il riconoscimento papale nel 1343.

Bibl. - C. Lupi, La casa pisana e i suoi annessi nel Medioevo, in " Arch. Stor. Ital. " XXVII-XXXI (1901-1904); A. Bartalini, L'architettura civile del Medioevo in P., Pisa 1937; L. Banti, Pisae, in " Atti Pontificia Accad. Romana Archeologia. Memorie " VI (1943); Carta d'Italia al 100.000, ediz. Archeologica, foglio 104, a c. di A. Neppi Modona, Firenze 1956; E. Tolaini, Forma Pisarum, Pisa 1967 (con bibl.); L. Borghi, Interrogativi sull'antico porto di P., in " Rassegna del Comune di P. " IV (1968); G. Casini, Sul percorso dell'Ozzeri in città, ibid., 19-21; E. Tolaini, La costruzione delle Mura di P. negli anni 1155-1161 secondo gli Annales del Maragone, in " Boll. Storico Pisano " XXXVI-XXXVIII (1967-1968) 15-36; L. Borghi, Le mura urbane di P., in " Rassegna del Comune di P. " IV (1968); V (1969); ID., Memoria sul ponte che dal sec. XII al XIV unì la via S. Antonio alla via S. Maria, ibid. VI (1970) 16-22.

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Ugolino della gherardesca

Enrico vii di lussemburgo

Uguccione della faggiuola

Federico da montefeltro

Camposanto monumentale