PITATI, Bonifacio, detto Bonifacio Veronese

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 84 (2015)

PITATI, Bonifacio, detto Bonifacio Veronese

Francesco Trentini

PITATI (de’ Pitati), Bonifacio, detto Bonifacio Veronese. – Nacque a Verona, nell’anno 1487 circa, da Marzio de’ Pitati figlio di Bonifacio e da Benvenuta, d’ignota famiglia (Ludwig, 1901, p. 67).

Le sole notizie utili a illuminare i primi anni di vita di Bonifacio Pitati provengono dagli estimi della città di Verona, che informano sulla professione del padre – indicato come armiger, ossia uomo d’armi di rango non elevato –, fugando ogni dubbio circa possibili legami con la nobile famiglia veronese dei Pitati. Dai libri del 1491 si viene a sapere inoltre che Bonifacio Pitati, al momento della registrazione, aveva all’incirca quattro anni e risiedeva con i genitori nella contrada di S. Vitale. Dieci anni più tardi, gli estimi del 1502 segnalano la famiglia nella contrada dell’Isolo Inferiore: Pitati, rimasto figlio unico, viveva ancora in casa dei genitori. Rimane invece assai problematica l’individuazione della data e delle circostanze che portarono al trasferimento della famiglia Pitati a Venezia. L’evento, infatti, fu fissato da Gustav Ludwig al 1505, sulla base dell’interpretazione controversa di un atto notarile, forse neppure riferibile a Pitati (ibid., pp. 67 s.; Cottrell, 2004, p. 6).

La grave mancanza di documenti relativi al trentennio 1501-28 rende difficoltosa la ricostruzione del percorso di formazione del pittore. Le caratteristiche formali e tipologiche della prima produzione paiono tuttavia spiegabili solo presumendo la sua presenza a Venezia entro il 1510-15. Il dato stilistico conferisce inoltre credibilità alla notizia, riportata da Carlo Ridolfi (1648, 1914, p. 284), che Pitati avesse trascorso un periodo di apprendistato nella bottega di Jacopo Palma il Vecchio: un rapporto che, dopo i cinque anni legali, dovette tramutarsi in un effettivo vincolo di collaborazione tra colleghi.

A partire dagli anni Venti, Bonifacio Pitati cominciò a strutturarsi un proprio mercato, producendo quadri di devozione privata che, pur sotto il complessivo ascendente palmesco, presentano evidenti caratteri di autonomia. Lavori come la Madonna con il Bambino e i ss. Giovannino, Girolamo, Dorotea e Caterina dell’Ermitage, a San Pietroburgo (circa 1520), l’Adorazione dei pastori del Birmingham Museum and Art Gallery (circa 1525) o la Sacra Famiglia e i ss. Antonio da Padova, Antonio abate, Maria Maddalena, Anna e Giovannino del Louvre (c. 1526), si caratterizzano soprattutto per l’ispirazione nordica dei paesaggi, in netta alternativa al solenne lirismo di Palma. Sul piano dei contenuti, in questi dipinti Bonifacio si concentra su alcuni temi ricorrenti, come la prefigurazione della Passione di Cristo e la negatività del mondo, cui contrappone la positività del locus amoenus verdeggiante popolato da divine presenze.

Capolavoro di questa prima fase è Lot e le figlie, ora al Chrysler Museum of Art di Norfolk, un’opera che per ragioni di stile e di contenuto si deve anticipare al 1520 circa (Cottrell, 2004, p. 10), rigettando la tradizionale datazione alla metà degli anni Quaranta.

Diversamente perderebbero di significato le citazioni dalle Ninfe al bagno e dalla Giovane donna di profilo di Palma il Vecchio (Vienna, Kunsthistorisches Museum), riconoscibili rispettivamente nella posa scomposta della fanciulla arrampicata sulle ginocchia di Lot e nella torsione della sua compagna (Lucco, 1996, p. 74). L’opera riflette tutto il dramma della Venezia del doge Leonardo Loredan nel terribile incendio in laguna dipinto sullo sfondo, rivisitazione bonifacesca dei fuochi che avevano infiammato i fondali dell’inquieta pittura veneziana nel secondo decennio del Cinquecento, da Tiziano a Savoldo.

Con la morte del maestro e collega Palma il Vecchio, il 30 luglio 1528, scomparve una delle più importanti botteghe veneziane di primo Cinquecento. Il suo testamento, infatti, non offre elementi per parlare di un formale trasferimento dell’impresa a Pitati, che in effetti sembra piuttosto essere subentrato come professionista qualificato nella finitura di alcuni lavori (Cottrell, 2004, pp. 14-20). La Madonna con il Bambino e i ss. Caterina, Francesco, Giovanni Battista e Nicola della Pinacoteca Querini Stampalia di Venezia è rappresentativa in tal senso. Il quadro, registrato nell’inventario dell’aprile 1529 tra le opere rimaste incompiute nella bottega di Palma alla sua morte e destinato a Francesco Querini da S. Maria Formosa, fu completato da Pitati probabilmente nell’agosto 1529, quando il suo nome compare nel libro di spese di casa Querini (Cottrell, 2004, p. 33, n. 27). In simili casi il completamento delle opere di un collega defunto poteva rappresentare una valida opportunità per l’intercettazione di nuovi canali di committenza, e così fu per Bonifacio, che continuò a lavorare per i Querini fino al gennaio 1535 (ibid., p. 17).

A questo punto per Pitati si presentarono le condizioni, e forse addirittura la necessità, di proporsi da protagonista sul panorama artistico veneziano. L’occasione gli giunse con la commissione per la Pala di s. Michele ai Ss. Giovanni e Paolo. Destinazione dell’opera fu la cappella di famiglia di Sigismondo Cavalli, illustre esponente del patriziato militare veneziano, morto tra maggio e giugno del 1528.

Colpisce la notevole cultura e il buon aggiornamento dell’opera, che nella posa sbilanciata dell’arcangelo si rifà al Bacco e Arianna di Tiziano e nell’impostazione complessiva dialoga con la Pala dei Carmini di Lorenzo Lotto (1527), mentre sul piano del contenuto si ricollega al carattere di metafora politica attribuito all’immagine dello scontro fra l’angelo e il demone sin dal Medioevo. Vi s’intravede l’eternazione delle glorie di Sigismondo Cavalli, celebrato all’epoca per la virtù dimostrata nella difesa dell’integrità di Venezia al tempo della battaglia di Agnadello (1509).

Il 1528 fu anche l’anno del completamento del palazzo dei Camerlenghi. Eretto sulle ceneri del terribile incendio del 1514, che aveva devastato Rialto compromettendo il cuore economico della città, il palazzo era stato pensato dal doge Gritti per concentrarvi tutte le magistrature finanziarie della Repubblica.

Alla modernità dell’idea di un palazzo per uffici corrispose la novità del progetto di decorazione unitaria, che probabilmente sin dal principio si volle assegnare a una sola bottega (Cottrell, 2000, pp. 660 s.). Se la scelta cadde su Bonifacio non fu per ragioni economiche o per ripiego, data la cronica indisponibilità di Tiziano, che comunque avrebbe potuto vantare qualche diritto di precedenza in virtù del suo status di pittore ‘ufficiale’ della Serenissima. Pitati dovette apparire come un’opzione del tutto appetibile: moderno e colto sul piano figurativo, era dotato di chiarezza e fluidità nell’esposizione dei temi; garantiva affidabilità sul piano professionale per la lunga esperienza al fianco di Palma il Vecchio; soprattutto, era favorito da ricchi e potenti esponenti del patriziato veneziano quali i Querini di S. Maria Formosa e i Cavalli di S. Vidal (Cottrell, 2004). Non ultimo, offriva un trattamento economico di favore, con prezzi decisamente contenuti, come sembrerebbe risultare dalla pur esigua documentazione superstite (Cottrell, 2000, p. 660).

È probabile che da principio Bonifacio Pitati potesse contare quasi esclusivamente sull’aiuto del giovane Antonio Palma, che molto probabilmente dovette compiere il suo garzonato presso di lui a partire dal 1528 (Ludwig, 1901, p. 74). In breve, tuttavia, egli seppe adeguare la bottega alla peculiarità dell’appalto, che imponeva di garantire un elevato livello qualitativo con tempi di esecuzione rapidi, misurati sulla breve durata in carica degli ufficiali committenti. Approfittando del prestigio acquisito – che ben presto servì da richiamo per giovani capaci e ambiziosi, come Jacopo Bassano e Jacopo Tintoretto –, egli poté ampliare e arricchire la sua squadra accogliendo nuovi talenti, prima come garzoni (1530-35 circa) e poi come collaboratori semiautonomi (almeno fino al 1540).

Gli esordi ai Camerlenghi mostrarono Pitati impegnato a soddisfare una domanda che oscillava tra la disponibilità all’aggiornamento figurativo e l’esigenza di continuità con l’iconografia ufficiale, elaborata nel secolo precedente. Così tra il 1529 e il 1530, mentre per i governatori alle Entrate realizzò il Cristo in trono e santi (Venezia, Gallerie dell’Accademia) riproponendo un modello vecchio di quasi un secolo, alla cassa del Consiglio dei dieci consegnò un’Adorazione dei Magi (Venezia, Gallerie dell’Accademia), decisamente originale nella selezione delle fonti iconografiche di derivazione nordica e nei temi trattati, con il re nero letto in chiave negativa e associato alla figura del folle alla colonna.

In questo stesso periodo Pitati consolidò la propria posizione all’interno della «fraglia» (la corporazione) dei pittori: nel 1530 il suo nome fu registrato nelle liste dei maestri dell’arte (E. Favaro, L’arte dei pittori in Venezia e i suoi statuti, Firenze 1975, p. 138) e il 29 settembre dell’anno successivo comparve assieme a Tiziano e a Lorenzo Lotto nel gruppo dei dodici ‘aggiunti’, nominati dalla corporazione per la gestione di un lascito dotale istituito dal pittore Vincenzo Catena (Ludwig, 1901, p. 69). Ancora, nel suo testamento del 1531, Lotto, memore del buon lavoro fatto dal pittore nella liquidazione degli incompiuti palmeschi, stabilì che le «opere de picture che restasseno imperfette» fossero affidate a «Bonifatio pictor de S. Aloise» (Cortesi Bosco, 1998, p. 9).

D’altra parte, la pittura di Pitati mostra in questi anni un evidente avvicinamento a temi di ricerca tipicamente lotteschi, e se ne può sospettare il coinvolgimento nei medesimi circuiti di committenza, data la registrazione di una Conversione di s. Paolo di Bonifacio (ora alla Galleria degli Uffizi di Firenze) all’interno della collezione di Andrea Odoni da parte di Marcantonio Michiel nel 1532 (Notizia d’opere del disegno, a cura di T. Frimmel, Firenze 2000, p. 52).

Sebbene Bonifacio si fosse mantenuto su richieste di salario decisamente economiche, grazie all’appalto dei Camerlenghi (tra il 1529 e il 1533 consegnò ben quattordici teleri, tre dei quali di circa 4×2 metri, ovvero l’Adorazione dei Magi, il Cristo in trono e santi e il Giudizio di Salomone, datato 1533), integrato con la produzione di dipinti di destinazione privata, egli dovette raggiungere nel giro di pochi anni una discreta agiatezza, se il 15 marzo 1533 risulta nel territorio di San Zenone presso Asolo a investire in quindici campi e in una casa con brolo e orto per uso personale (Dalla Santa, 1903, pp. 16 s.).

Il buon successo fu amministrato attraverso mosse molto avvedute, finalizzate all’inserimento in nuovi settori del mercato artistico veneziano. Il 9 novembre 1533 si presentò al pubblico delle confraternite e delle Scuole piccole con la Madonna col Bambino e i ss. Omobono e Barbara (Venezia, Gallerie dell’Accademia) per l’altare della sala terrena della Scuola dei Sartori presso il monastero dei crociferi. Il dipinto, uno dei pochi a recare la firma del pittore, ben presto fu accompagnato da un fregio con Storie di s. Barbara, perduto, che Marco Boschini descrisse come «opera della prima puerizia di Tintoretto» (M. Boschini, Le ricche minere della pittura veneziana, Venezia 1664, p. 425): un progetto unitario della bottega di Pitati (Cottrell, 2009, p. 54), finalizzato a ravvivare una domanda – quella delle scuole piccole – che taceva dal tempo dei cicli carpacceschi.

Contestualmente al mercato della borghesia artigiana, Bonifacio Pitati riuscì a intercettare alcune importanti commissioni ecclesiastiche, la più prestigiosa delle quali fu la decorazione dell’altare delle Reliquie nella chiesa di S. Maria dei Servi, databile al 1533. Regista della commissione fu il padre servita Anselmo Gradenigo, noto cronachista, personaggio ancora poco studiato, ma di indubbio interesse. L’altare, progettato da Jacopo Sansovino, era chiuso da due portelle di mano di Pitati (Venezia, Gallerie dell’Accademia) raffiguranti il dialogo tra l’apostolo Filippo e Gesù (narrato in Gv 14,8). In meno di due anni si aggiudicò anche la commissione delle tele per il refettorio del monastero certosino di S. Andrea di Lido, dove il pittore fu chiamato a realizzare una sorta di trittico composto da un grande quadro centrale con l’Ultima cena (Venegono, Varese, Seminario arcivescovile), affiancato da due laterali con i Ss. Beatrice e Girolamo e i Ss. Bruno e Caterina (entrambi a Venezia, Gallerie dell’Accademia).

Intanto i lavori ai Camerlenghi procedevano a ritmo regolare con brani di eccezionale intensità emotiva. Un pagamento di dieci ducati, effettuato il 31 gennaio 1536 more veneto dal cassiere del Consiglio dei dieci, consente di datare la drammatica Strage degli innocenti delle Gallerie dell’Accademia, certificando la perfetta tenuta della bottega in questi anni, il cui volume di traffici impose il reperimento di ulteriori aiuti. Si deve leggere in questa chiave il coinvolgimento di Stefano Cernotto nel completamento della seconda stanza del Monte novissimo (Cacciata dei mercanti dal tempio; Venezia, Gallerie dell’Accademia), avvenuto nel 1536. Seguì un periodo di circa tre anni, segnato da una singolare rarefazione del catalogo di Pitati e da una lunga interruzione della sua attività ai Camerlenghi, dove rientrerà soltanto nel 1539 per mettere mano alla decorazione nella Camera degli imprestidi (Moltiplicazione dei pani e dei pesci; Venezia, Gallerie dell’Accademia), nel Monte novissimo (Caduta della manna e delle coturnici; Venezia, Gallerie dell’Accademia) e nella seconda stanza dei governatori alle Entrate.

Il 6 marzo 1539, Pitati concorse, assieme a Paris Bordon, Vittore Brunello e Giovan Pietro Silvio, all’assegnazione di un grande telero raffigurante lo Sposalizio della Vergine per la sala dell’albergo della Scuola grande della Carità, ma gli venne preferito proprio il bergamasco Silvio (Ludwig, 1905, pp. 146 s.). Fallito questo tentativo, non riuscì più a inserirsi nel circuito delle Scuole grandi. Intanto all’interno della bottega crebbe la posizione di Antonio Palma, che in data non precisata, ma di sicuro precedente al 1544, si profilava come legittimo erede della ditta Pitati sposando Giulia, una nipote che il maestro aveva acquisito mediante il matrimonio con la giovane Marietta Brunello, già vedova di un De’ Grassi (Ludwig, 1901, p. 71).

Il passaggio agli anni Quaranta segnò per Pitati anche l’apertura a nuove tematiche e nuove tipologie di produzione come, ad esempio, i quadri da portego. Nel suo catalogo si contano diversi pezzi ascrivibili per dimensione e soggetto a questo genere. Di particolare interesse è la Parabola di Lazzaro e il ricco (Venezia, Gallerie dell’Accademia), databile al 1535-40, forse di committenza Bragadin (Cottrell, 2005, pp. 132 s.). Ancora più ambizioso dovette essere il ciclo, in parte perduto, dei Trionfi del Petrarca (tele superstiti sono al Kunsthistorisches Museum di Vienna e alla Kalssik Stiftung di Weimar).

In origine composto da sei grandi teleri, si proponeva come alternativa economicamente vantaggiosa alle serie di arazzi fiamminghi, in cui questo tema aveva conosciuto una discreta fortuna (Cottrell, 2013). Con questi prodotti Bonifacio sembrò anche voler intercettare il gusto di un collezionismo colto, offrendo inedite moralistiche rappresentazioni di fonti letterarie per lo più estranee alla pittura di grande formato.

Analoghe istanze si intravedono nella decorazione a soffitto per una camera in palazzo Barbarigo a San Polo (Ridolfi, 1648, 1914, p. 294), composta da due ottagoni con le Allegorie del Giorno e della Notte (Sarasota, Ringling Museum of art), databile al 1545 circa.

Il pragmatismo riscontrabile nella disponibilità di Bonifacio Pitati a entrare sul mercato con prodotti alla moda e relativamente economici è confermato da una lettera a lui indirizzata da Pietro Aretino nel maggio del 1548, in cui si parla di «alcune istoriette del cavaliere da Legge» (Pietro Aretino, 1550, 2000). La fonte getta luce sulla produzione bonifacesca di opere di piccolo formato, come le tavolette mitologiche già alla Hallsborough Gallery di Londra (Cimone e Ifigenia, Perseo e Andromeda), destinate a collezionisti talora di grande raffinatezza come appunto il cavalier Giovanni da Lezze.

Stando alle parole di Pietro Aretino, inoltre, Pitati doveva avere ancora, alla data 1548, diverse commissioni ecclesiastiche in corso d’opera. Ma di lì a poco Bonifacio avrebbe drasticamente ridimensionato la propria attività, probabilmente limitandosi alla gestione economica della bottega, e lasciando ai suoi collaboratori (Antonio Palma, Domenico Biondo, Giovanni Gallizzi) l’onere dell’esecuzione degli ultimi teleri ai Camerlenghi. Nel testamento del 6 giugno 1547, e nei successivi del 14 e 26 luglio 1553, si trovano solo poche disposizioni ordinarie, ma nessun riferimento alla bottega.

Morì senza figli a Venezia, nella contrada di San Marcuola, «amalà longamente» (Ludwig, 1901, p. 73), il 19 ottobre 1553.

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