PLEBE

Enciclopedia Italiana (1935)

PLEBE

Plinio Fraccaro

. Il popolo romano, quando compare alla luce della storia, risulta di due classi di cittadini, i patrizî e i plebei. Erano patrizî i cittadini ingenui che appartenevano a un certo numero di gentes patrizie, erano plebei tutti gli altri. Dal principio dell'età repubblicana sino a Cesare e ad Augusto, che ebbero per legge facoltà di ascrivere famiglie plebee al patriziato, questo è una casta chiusa; e tutti gl'individui che entrano nella cittadinanza romana vanno ad accrescere la plebe, siano essi schiavi liberati e, recondo l'uso romano, divenuti in seguito alla manumissione cittadini, o liberi già appartenenti ad altre comunità, ai quali sia stata concessa, individualmente o in massa, la cittadinanza romana.

L'origine della divisione della cittadinanza in patrizî e plebei era dagli antichi spiegata in modo molto semplice: il re Romolo, fondatore della città, creò cento senatori, che si dissero patres, i cui discendenti furono i patricii (Dionys., II, 8; Liv., I, 8, 7: centum creat senatores... Paires certe ab honore patriciique progenies eorum appellati). Era inoltre opinione diffusa fra gli antichi, che i plebei sarebbero stati clienti delle genti patrizie (Cic., De republ., II, 16: habuit plebem in clientelas principum discriptam; e così Dionys. II, 9; Plut., Romulus, 13). Per gli antichi quindi la distinzione era opera del legislatore, e la plebe risaliva perciò alle origini della città ed era parte essenziale della cittadinanza: nessun antico ha mai pensato che i plebei in un certo tempo non facessero parte della cittadinanza e tanto meno che essi fossero di stirpe diversa dai patrizî. La questione fu molto dibattuta nei tempi moderni e sull'origine della plebe furono avanzate numerose ipotesi, la maggior parte delle quali hanno in comune questo concetto, che i patrizî avrebbero in origine costituito da soli la cittadinanza romana, mentre i plebei o sarebbero vissuti in Roma accanto ai patrizî senza che fosse loro riconosciuta la qualità di cittadini, o si sarebbero aggiunti più tardi e senza diritti ai primitivi cittadini patrizî. Così il Vico vedeva nei patrizî in generale gli uomini che primi avevano conosciuto gli dei e avevano quindi raggiunto un grado piu elevato di civiltà, mentre i plebei erano "famoli", uomini senza dei, che "non avevano la comunione delle cose divine, e in conseguenza delle quali, nemmeno la comunione delle cose umane insieme co' nobili" (p. 19, ed. 1744), "onde dovettero i soli nobili esser cittadini delle prime patrie" (p. 584) e i plebei avevano chiesto di vivere sotto la loro protezione. Il Niebuhr riteneva invece che la plebe avesse avuto inizio dai Latini conquistati dal re Anco Marcio e trasportati per buona parte in Roma. Il Mommsen derivava la plebe dalla clientela. Cittadini erano per lui originariamente solo i patrizî e tutti i non patrizî erano clienti; e quando i vincoli di clientela vennero meno, per lo spegnersi o per la decadenza economica di certe genti patrizie, i clienti, rimasti abbandonati a sé, avrebbero formato la plebe. Numerosi furono gli storici che assunsero una differenza etnica, come criterio di separazione fra patrizî e plebei; e questa opinione trovò molti seguaci specialmente dopo che le ricerche paletnologiche misero in luce anche per l'Italia centrale i diversi strati della popolazione. Volta a volta si dissero sabini, etruschi, umbrosabelli, terramaricoli i patrizî; latini, liguri, volsci, neolitici conquistati dai patrizi, i plebei; alla diversa origine etnica avrebbe corrisposto una diversa struttura sociale e diversa religione. Il Bonfante vedeva nella plebe una comunità politica autonoma sull'Aventino, assoggettata dalla civitas romana.

Fra gli storici più recenti (E. Meyer, G. De Sanctis, G. Beloch) prevale l'opinione che la distinzione fra patriziato e plebe sia secondaria e conseguenza della differenziazione economica e sociale che naturalmente si produce, quando un popolo passa dalla condizione di nomade alla vita sedentaria e al regime della proprietà fondiaria. Il patriziato romano era per questi storici una nobiltà fondata sulla ricchezza terriera, nobiltà divenuta ereditaria, che per la sua superiorità economica poteva armarsi meglio e combattente in prima linea per lo stato e in compenso ne aveva in fatto il governo e pretese poi e riuscì a trasformare questo stato di fatto in un suo diritto esclusivo di occupare le magistrature. Di fronte a questa nobiltà rimase la massa, la moltitudine (plebs, cfr. πλῆϑος), formata da contadini piccoli proprietarî, da giornalieri, da artigiani, da trafficanti. Parte di questa plebs entrò in rapporto di clientela con le grandi casate patrizie, ma parte rimase indipendente. S'intende che il cliente, il quale aveva perduto il patrono, o l'immigrato in cerca di lavoro e di fortuna nella città che rapidamente cresceva o i membri di una comunità annessa (in certi casi però la nobiltà venne accolta nel patriziato romano) andavano ad accrescere la massa della plebe romana; in questo senso hanno un parziale fondamento di verità alcune delle teorie sopra ricordate. La sanzione definitiva di questo stato di cose si ebbe con il divieto di connubium, di giuste nozze patrizio-plebee, mentre erano ammessi in seguito a trattato particolare matrimonî fra patrizî romani e patrizî di altre comunità.

L'esistenza di una plebe, nella quale erano comprese, accanto ai poveri, anche famiglie divenute col tempo agiate e ricche, e che non è quindi solo una folla di poveri clienti o di vinti assoggettati, è provata dal fatto che in epoca molto remota il patriziato accolse nel suo seno, e dalla plebe, come pare, genti che si dissero poi minores e che uno degli ultimi re creò quell'ordinamento timocratico, detto serviano, che presuppone l'esistenza, accanto ai patrizî, di una plebe di possidenti. E quando i plebei furono ammessi alle magistrature, c'erano nella plebe un certo numero di famiglie che avevano quel largo censo, senza il quale era difficile aspirare alla vita politica e mantenere in essa una posizione duratura. Anche l'addensarsi dei plebei sull'Aventino non deve far credere all'esistenza di una comunità plebea autonoma, ma va spiegato col fatto che quel colle stava sopra il Foro boario e la riva del Tevere sulla quale si svolgeva il commercio, ed era quindi naturale che vi si stabilissero molti immigrati. E poiché i plebei occupati nei traffici dovevano essere tra i più svegli e intraprendenti della loro classe, l'Aventino divenne uno dei centri plebei, ed ebbero grande importanza per la plebe i due templi aventinensi di Cerere, Libero e Libera e di Diana. Anzi i custodi del tempio di Cerere, gli aediles, erano, prima della creazione dei tribuni, i protettori e i capi di fatto, se non di diritto, della plebe e sorvegliavano il buon andamento dei traffici e dei mercati, e il tempio stesso divenne il centro dell'attività plebea, tesoro e archivio della plebe. Ma i plebei furono sempre partecipi della religione della città romana, come erano membri delle curie e militavano nelle file dell'esercito.

La serrata del patriziato, divenuto casta chiusa, fu causa della singolare forma di organizzazione, che alla sua volta si diede la plebe romana. Di fronte al patriziato che deteneva tutti gli organi dello stato, la plebe si organizzò come un'altra comunità a sé, con proprî capi, e ricorse spesso alla minaccia di separarsi addirittura dalla comunità romana e varie volte la minaccia pose in atto con le secessiones. L'elemento motore di questa organizzazione è il tribunato della plebe. L'origine dei tribuni della plebe, che si sovrapposero come capi della plebe agli edili, è oscura, ma risale indubbiamente al sec. V (data tradizionale 494 a. C.) e molto per tempo i tribuni, da due o quattro che erano in origine, salirono a dieci (457). La plebe, che li eleggeva dal suo seno, si era impegnata con giuramento a procedere con ogni mezzo contro chiunque offendesse i tribuni, i quali erano perciò sacrosancti e intangibili, e perciò il loro intervento (intercessio) in favore di un plebeo, che si ritenesse vittima di soprusi dei magistrati patrizî e chiedesse il loro auxilium, arrestava gli atti dei magistrati stessi, che non potevano passare sopra la persona intangibile del tribuno. Pare che dapprima questo intervento si limitasse alle questioni che singoli plebei potevano avere con i magistrati, ma poi i tribuni estesero il loro diritto d'intervento a qualsiasi questione politica generale e particolare. In seguito bastava che il tribuno esprimesse la sua intenzione di "mettersi in mezzo", perché di solito il magistrato sospendesse l'atto progettato. Per fare comunicazioni alla plebe i tribuni la convocavano in assemblee, che non erano comitia, come quelle del popolo, ma concilia. E volendo in esse eleggere i suoi capi per mezzo di votazione, come faceva il populus nei suoi comizî, cioè ordinandosi per gruppi votanti all'uso romano, la plebe si dispose prima per curie, poi, in seguito ad una decisione proposta da Volerone Publilio nel 471, per tribù, cioè secondo i distretti amministrativi nei quali il territorio romano era da tempo diviso ed entro ai quali si stringevano più facilmente vincoli di solidarietà. In queste assemblee, la plebe, oltre ad eleggere i suoi capi, con evidente imitazione delle assemblee del populus, prendeva deliberazioni, che non erano però leges ma scita (plebiscita) e i tribuni pretesero presto di trarre in giudizio dinnanzi alla plebe qualunque cittadino, anche patrizio, avesse offeso il tribuno o gl'interessi della plebe e poi anche dell'intero populus. Le XII Tavole dovettero affermare l'esclusiva competenza dei comizî centuriati per le condanne capitali, certo di fronte alle pretese di giustizia criminale dei concilî plebei. Le condanne per ordine dei tribuni o del concilio non venivano eseguite con le scuri, ma precipitando il colpevole dalla rupe Tarpea. Le deliberazioni della plebe non avevano valore per l'intero populus, ma poiché molte volte esse si riferivano ai rapporti fra i plebei e i patrizî, i primi avanzarono la pretesa che i secondi vi si conformassero. E questa pretesa i plebei sarebbero riusciti a far riconoscere da leggi del comune (449, leggi dei consoli Valerio e Orazio; 339, leggi del dittatore Publilio Filone; di queste due leggi si dubita dai moderni, ma per la seconda forse a torto) e la videro definitivamente accolta intorno al 287, dopo un'ultima secessio della plebe armata sul Gianicolo (per alcuni moderni l'unica secessio storica: le altre cadrebbero negli anni 494, 449, 445, 342), dalla legge del dittatore Ortensio. In questo tempo i tribuni ottennero anche il diritto agli auspici (legge Publilia o Ortensia) e mentre dapprima essi, per conurollare le deliberazioni del senato, dovevano porre i loro banchi fuori dell'aula dinnanzi alla porta, finirono poi per essere accolti nella curia e per farsi riconoscere il ius referendi in senato.

Nulla rispecchia meglio la varietà degli elementi che componevano la plebe, e che andavano dai ricchi possidenti agl'indigenti, che le varie richieste affacciate dalla plebe stessa ai patrizî e sulle quali s'impegnò quella che è detta la lotta per il pareggiamento degli ordini; naturalmente di fronte al patriziato chiuso, i varî elementi della plebe erano solidali e ciò costituiva la loro forza. Da tempo molto antico, tanto che della data di tali concessioni non si è serbata memoria, i plebei potevano essere ufficiali nell'esercito (tribuni militum) e membri aggiunti del senato (conscripti), senza diritto però a partecipare all'approvazione degli atti dell'assemblea popolare, riservata ai senatori patrizî (auctoritas patrum). La richiesta che il diritto consuetudinario fosse messo in scritto e sottratto quindi, almeno in parte, all'arbitrio dell'interpretazione dei magistrati patrizî, fu soddisfatta nel 450 con le XII Tavole. Nel 445 un plebiscito Canuleio abolì il divieto del connubium, che interessava naturalmente i ricchi plebei, al pari della richiesta per l'ammissione dei plebei alle magistrature, che ebbe nel 444 una parziale soddisfazione, con il deferimento della potestà consolare a tribuni militum consulari potestate, che potevano essere anche plebei, e nel 367 soddisfazione intera con le leggi Licinie-Sestie, che riservarono ai plebei uno dei posti di console: l'osservanza continua di questa legge si ebbe però solo dal 343. A queste concessioni non si giunse senz'aspra resistenza dei patrizî; ma questi avevano bisogno dei plebei per l'esercito, strumento della grande politica di Roma, che mai essi sacrificarono alla conservazione dei loro privilegi (per es., le leggi Publilie furono approvate durante la grande guerra latina). Era naturale che, resa nel 421 elettiva, cioè magistratura, la questura, vi fossero ammessi i plebei, che potevano essere tribuni militum consulari potestate. L'ammissione al consolato portò seco quella a tutte le altre cariche, per quanto la tradizione dica che la censura e la pretura sarebbero state create per riservarne le funzioni a patrizî: il primo censore plebeo è del 351, il primo pretore del 337, il primo dittatore del 356. La norma che uno dei consoli doveva essere plebeo, e l'altro poteva essere patrizio o plebeo, risalirebbe al 342, ma un collegio di due consoli plebei si ebbe solo nel 172; la stessa norma per la censura è fatta risalire alle leggi Publilie del 339 ma due censori plebei si ebbero solo nel 131. I patrizî pretendevano contro i plebei il monopolio delle pratiche religiose pubbliche; ma già nel 367 un plebiscito Licinio-Sestio aveva elevato da 2 a 10 membri il collegio degl'interpreti dei libri Sibillini (Xviri sacris faciundis) e l'aveva reso accessibile ai plebei. Il passo decisivo in questo campo fu fatto dal plebiscito Ogulnio del 300, che, secondo Livio, crebbe da 4 a 8 e 9 rispettivamente i membri del collegio dei pontefici e degli auguri, e stabilì che 4 pontefici e 5 auguri fossero plebei. Nel 254 si ebbe il primo pontefice massimo plebeo e nel 209 il primo curio maximus plebeo. Accanto agli edili plebei, furono istituiti nel 367 due edili curuli, e poco dopo fu stabilita la norma che i due edili curuli fossero ad anni alterni ambedue patrizî o ambedue plebei. Il coronamento dello sforzo della plebe è rappresentato dalla riduzione a pura formalità dell'auctoritas patrum per opera delle leggi Publilia e Ortensia. In sostanza si venne non a un pareggiamento degli ordini, ma a una serie di deroghe in favore della plebe al principio che magistrature e sacerdozî spettassero ai patrizî, deroghe che esaurirono in gran parte il principio e diedero in un certo senso il dominio nel comune alla plebe. Infatti i patrizî mantennero il diritto esclusivo ad alcuni vetusti sacerdozî, scaduti d'importanza, e potevano concorrere coi plebei a uno soltanto dei posti di console e di censore e promiscuamente alle altre cariche; erano, s'intende, esclusi dalle cariche plebee e potevano votare solo nelle assemblee generali. I plebei votavano invece in tutte le assemblee e un posto di console e di censore e le cariche plebee erano riservate esclusivamente ad essi. E in città il tribuno della plebe era in realtà superiore al console, finché a questo non fu in certi casi attribuito col senatoconsulto ultimo l'antico potere del dittatore.

Le famiglie plebee salite all'onore delle supreme magistrature furono riconosciute come illustri, nobiles, e formarono con le famiglie patrizie, che erano nelle stesse condizioni, la nobilitas. Da tempo molto antico, del resto, l'organizzazione gentilizia era stata adottata anche dai ricchi plebei. E di fronte a questa nobiltà patrizio-plebea il termine plebe assunse negli ultimi tempi della repubblica un significato diverso, quello di "folla" in contrapposizione all'ordine della nobiltà e all'ordine equestre.

Mentre le aspirazioni dei plebei più ricchi venivano così soddisfatte nel campo politico, in quello sociale le leggi Licinie-Sestie avrebbero cercato di portare sollievo ai debitori e frenato, limitandola in pro dei meno agiati, l'occupazione dell'agro pubblico da parte dei ricchi. L'indebitamento e l'alto interesse del danaro erano il tormento dei medî e piccoli proprietarî fondiarî romani, come delle società agricole d'ogni tempo; perciò le usure sarebbero state ridotte nel 347, e nel 342 un plebiscito Genucio avrebbe addirittura vietato come immorale il prestito con interesse. Un'era nuova per la piccola gente fu inaugurata dalla lex Poetilia Papiria de nexis, che mitigò la durezza della procedura contro i debitori, sostituendo l'esecuzione sui beni a quella sulla persona del debitore (eo anno plebi Romanae velut aliud initium libertatis factum est, quod necti desierunt: Liv., VIII, 28). E ai piccoli proprietarî, che non avevano molti giorni da perdere per recarsi in città, la legge Ortensia concesse che, per loro comodità, la giustizia potesse essere resa anche nelle nundinae, nei giorni di mercato. Ma reale sollievo alla classe dei medî e piccoli agricoltori recò la politica di conquista e la conseguente assegnazione su grande scala di terre conquistate nell'Italia centrale ai plebei poveri. Nel 300 infine fu approvata la lex Valeria de provocatione, che vietava di uccidere o di battere con le verghe un cittadino, se prima questi non avesse provocato al popolo. La legge avrebbe avuto due precedenti più antichi in altre due leggi Valerie, delle quali i moderni dubitano, e in una nota prescrizione delle XII Tavole; ed essa era considerata il palladio della libertà romana, anche se si limitava a dichiarare improbe factum un atto in contrario del magistrato.

Bibl.: La bibliografia sulla plebe è vastissima: v. le rassegne di G. Bloch, La plèbe romaine, in Revue historique, CVI-CVII (1911); J. Binder, Die Plebs, Lipsia 1909; G. Oberziner, Origine della plebe romana, Genova 1901 (cfr. anche Patriziato e plebe nello svolgimento delle origini romane, Milano 1912). Particolare importanza hanno: B.G. Niebuhr, Römische Geschichte, ed. Isler, I, Berlino 1873, p. 289; Th. Mommsen, Römisches Staatsrecht, III, Lipsia 1887, p. 54 seg.; E. Meyer, Geschichte des Altertums, II, Stoccarda 1893, p. 510 seg.; v. Plebs in Conrad, Elster ecc., Handwörterbuch der Staatswissenschaften, 3ª ed., VI, Jena 1910, p. 1049 seg.; G. De Sanctis, Storia dei Romani, I, Torino 1907, p. 224 seg.; P. Bonfante, Storia del diritto romano, 3ª ed., I, Milano 1923, p. 93; P. De Francisci, Storia del diritto romano, Roma 1926, p. 172; A. Rosenberg, Studien zur Entstehung der Plebs, in Hermes, XLVIII (1913), p. 359; W. Ridgeway, Who were the Romans?, in Proceedings of the British Academy, III (1907); A. Piganiol, Essai sur les origines de Rome, Parigi 1917, p. 247 seg.; H. Stuart Jones, in Cambridge Ancient History, VII, Cambridge 1928, p. 413 seg.; J. Beloch, Römische Geschichte, Berlino 1927, p. 333; H. J. Rose, Patricians and Plebeians at Rome, in Journal of Roman Studies, XII (1922), p. 106.