BRACCIOLINI, Poggio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 13 (1971)

BRACCIOLINI, Poggio (Poggius, Poggius Florentinus)

Armando Petrucci
Emilio Bigi

Nacque a Terranuova nel Valdarno Superiore (oggi Terranuova Bracciolini) l'11 febbr. 1380 da Guccio, speziale, e da Iacoba Frutti, figlia di un notaio. Ricevuti i primi insegnamenti ad Arezzo, dove la sua famiglia si era trasferita, passò verso la fine del secolo a Firenze per compiervi gli studi del notariato, provvedendo al proprio sostentamento mediante lavori di copista. La sua abilità in questi lavori gli offrì l'occasione di farsi, notare e apprezzare da Coluccio Salutati già vecchio, e da Leonardo Bruni, di qualche anno più anziano di lui e col quale era forse entrato in relazione fin dal suo soggiorno in Arezzo. Proprio per esortazione del Bruni, Poggio decise, nel 1403, di recarsi a Roma in cerca di fortuna. All'inizio dovette accontentarsi di un posto di segretario presso il cardinale Landolfo Maramaldo, vescovo di Bari; ma alcuni mesi dopo, aiutato da una calda raccomandazione del Salutati, riuscì a entrare, con l'ufficio di scrittore apostolico, nella Curia papale. Durante il tempestoso decennio che mise capo al concilio di Costanza, il B. seguì nei loro spostamenti prima i papi legittimi Bonifacio IX, Innocenzo VII e Gregoriò XII, e poi i papi pisani Alessandro V e Giovanni XXIII, che lo promosse segretario apostolico.

Deposto Giovanni XXIII a Costanza il 29 maggio 1415 e disciolta la Curia, Poggio preferì restare nella città tedesca in attesa delle ulteriori decisioni del concilio, dedicandosi, durante tale attesa, alla ricerca di manoscritti di opere classiche. A questa attività di ricercatore egli non era del tutto nuovo: già nel 1407aveva compiuto indagini, non sappiamo precisamente con quali risultati, nelle biblioteche di Montecassino e di Napoli; e nella primavera del 1415, forse approfittando di una missione affidatagli da Giovanni XXIII, aveva potuto scoprire in un codice cluniacense le orazioni ciceroniane Pro Murena e Pro Sexto Roscio. Ma ben più fruttuose furono le ricerche appositamente effettuate, durante il 1416 e il 1417, nelle biblioteche, ancora in gran parte inesplorate, dei conventi e delle cattedrali della Svizzera, della Germania e della Francia. Dal monastero di San Gallo, dove si recò con Cencio de' Rustici e Bartolomeo Aragazzi da Montepulciano nel giugno e nei primi di luglio del 1416, trasse alla luce un manoscritto contenente il testo completo delle Institutiones oratoriae di Quintiliano, fino ad allora conosciute solo in esemplari gravemente lacunosi; i primi tre libri e mezzo degli Argonautica di Valerio Flacco; il commento di Asconio Pediano a cinque orazioni di Cicerone e un altro anonimo a quattro Verrine;e ancora nuovi manoscritti di opere già note, quali il De ira Dei e il De opificio hominis di Lattanzio, e il De Architectura di Vitruvio. Un secondo viaggio nel gennaio 1417, sempre con Bartolomeo da Montepulciano e ancora a San Gallo e ad altri monasteri vicini, fruttò la scoperta di nuovi codici dell'Epitoma rei militaris di Vegezio e di molti altri manoscritti. In una terza indagine, che il B. compì da solo in Germania e in particolare a Fulda nella primavera dello stesso anno, la fortuna e più il suo fiuto acutissimo lo condussero a disseppellire il poema lucreziano, gli Astronomica di Manilio, i Punica di Silio Italico, le storie di Ammiano Marcellino, vari scritti di Tertulliano, e alcune opere grammaticali. In un quarto viaggio, infine, compiuto nell'estate attraverso la Francia e la Germania, scoprì a Langres l'orazione Pro Caecina, e nella biblioteca del duomo di Colonia - ritrovamento di cui particolarmente si compiaceva - altre sette orazioni ciceroniane (Pro Roscio comoedo, tre De lege agraria, Contra Rullum, Pro Rabirio, In Pisonem, Pro Rabirio Postumo). Sempre a questa ultima gita pare che vadano assegnate le scoperte delle Silvae di Stazio, della Vita Aristotelis, di un secondo esemplare completo di Quintiliano, e di un nuovo codice del De re rustica di Columella. Nel complesso una serie di ritrovamenti per numero e per importanza veramente eccezionali, e paragonabili solo a quelli che, intorno agli stessi anni, veniva effettuando, nel campo della letteratura greca, Giovanni Aurispa. Né va dimenticato che di parecchi dei manoscritti scoperti egli trasse copie personalmente con la sua scrittura nitida e precisa, copie che in più di un caso, smarritosi in seguito il codice da lui trovato, rimangono l'unico testo pervenutoci dell'opera antica.

Questa attività di scopritore, di cui egli dava in volta in volta notizia agli amici italiani, al Niccoli, al Bruni, al Traversari, a Guarino, a Francesco Barbaro, contribuì a rendere il suo nome assai famoso; ma tale fama non fu sufficiente a farlo riammettere nella Curia del nuovo papa Martino V (eletto a Costanza l'11 nov. 1417) con la stessa carica di segretario cui lo aveva promosso Giovanni XXIII. Per il momento si accontentò del posto di scrittore apostolico: dopo un anno, però, svanita ogni speranza di migliore sistemazione, accettò l'invito del cardinale Enrico Beaufort, vescovo di Winchester, che lo condusse con sé in Inghilterra. Qui rimase dal 1418 all'inizio del 1423, ma non furono anni sereni: il clima, il paese, l'indole dei "Britanni", "quorum deus venter est", le cattive notizie da casa, e soprattutto la solitudine, la mancanza della società di amici e letterati in cui era abituato a vivere, lo condussero a uno stato di inquietudine e di malinconia, che gli faceva preferire la lettura dei Padri della Chiesa ai già prediletti studi di umanità: "Libri sacri, quos legi et quotidie lego", così scriveva al Niccoli (Epistolae, ed. Tonelli, I, p. 63), "refrixerunt studium pristinum humanitatis, cui deditus fui, ut nosti, a pueritia. Nam horum studiorum principia inania sunt, partim falsa, omnia ad vanitatem. Sacri vero eloquii principium est veritas, qua amissa, nihil rectum tenere, nihil operari possumus". Non c'è ragione di sottovalutare questa crisi, che vale anzi a mostrare quanto nell'animo del B., come del resto in quello degli altri umanisti contemporanei, fosse radicata e pronta a riaffiorare, sotto l'impulso di particolari circostanze, la componente religiosa. Sta il fatto, però, che, una volta lasciata l'Inghilterra e riottenuto da Martino V il posto di segretario apostolico, Poggio ritornò a essere, come prima, uno dei più brillanti funzionari della Curia, spettatore attento e curioso e talora partecipe attivo delle agitate vicende politiche ed ecclesiastiche del suo tempo; e soprattutto riprese a dedicarsi con rinnovato impegno a quegli studi di umanità che gli erano sembrati falsi e vani.

Proprio durante il viaggio di ritorno in Italia scoprì il frammento principale di Petronio; e più tardi, nel luglio 1429, si mosse da Roma per trarre alla luce dalla biblioteca di Montecassino il trattato De aquaeductibus di Frontino e i Matheseos libri di Firmico Materno. Ma piuttosto che attraverso indagini personali, egli svolgeva, in modo non meno intenso e fruttuoso, la sua attività di ricercatore nel suo stesso ufficio romano, dove, valendosi senza scrupolo della sua posizione, raccoglieva e talora carpiva codici o almeno utili notizie da quanti per qualsiasi ragione passavano per la Curia. Né meno attivamente si dedicava a ricerche archeologiche, collezionando, statue, gemme e monete antiche e copiando iscrizioni, che poi trascriveva in una "silloge", il cui autografo ci è pervenuto.

Gli anni passati in Curia sotto Martino V sono forse tra i più tranquilli e sereni della vita di Poggio. Più movimentato, ma non meno positivo, il periodo corrispondente al pontificato di Eugenio IV (1431-1447), che egli seguì nei suoi spostamenti da Roma a Firenze a Bologna a Ferrara, e poi ancora a Firenze, a Siena e infine di nuovo a Roma. Questi spostamenti, infatti, gli consentirono non solo di riallacciare, durante i soggiorni a Firenze, le sue relazioni sia con i suoi vecchi amici letterati sia con i Medici e in particolare con Cosimo e il fratello di lui Lorenzo; ma anche di concedersi lunghi periodi di riposo, nei quali compì o iniziò alcune delle sue opere più importanti. Cadono altresì in questo periodo il suo matrimonio, avvenuto nel 1436, con la fiorentina diciottenne Vaggia de' Buondelmonti, da cui ebbe sei figli e con la quale visse in perfetto accordo fino alla morte; e l'acquisto, nel 1438, di una casa di campagna, la "Valdarnina", situata presso il paese nativo, e che egli venne sistemando come un ideale rifugio umanistico, portandovi i suoi libri e le sue statue antiche. Nel 1447 l'elezione a pontefice, col nome di Niccolò V, del suo amico Niccolò Parentucelli, sembrò aprirgli nuove e più brillanti prospettive. Né gli mancò invero il favore del nuovo papa: ma sia la situazione sempre inquieta di Roma e della Curia, sia l'amarezza per le violente polemiche che ebbe a sostenere con il Valla, il Trapezunzio e con altri, sia infine il desiderio di provvedere con più agio alla sistemazione dei figli, lo indussero, nel 1453, a lasciare Roma per Firenze, accettando di assumere quella carica di cancelliere che prima di lui avevano tenuto il Salutati, il Bruni e il Marsuppini. Il mutamento non si rivelò tuttavia così vantaggioso come egli aveva creduto. Gli umanisti fiorentini della sua generazione erano morti da tempo; né la sua fama bastava a tutelarlo dalle critiche e dalle malignità dei suoi irritabili concittadini; critiche e malignità che ferivano profondamente il suo carattere, rimasto, anche in vecchiaia, vivo e risentito. Perciò, malgrado le affettuose insistenze di Cosimo, che lo stimava e gli voleva bene, decise, verso il 1458, di ritirarsi a vita privata, lasciando la sua carica a Benedetto Accolti. Si spense il 30 ott. 1459, e fu sepolto, accanto agli amici Bruni e Marsuppini, nella chiesa di S. Croce in Firenze.

Risulta chiaro, anche da queste brevi indicazioni biografiche, come nel B., non meno che nei grandi umanisti suoi contemporanei e amici, dal Salutati al Bruni, dall'Aurispa a Guarino, sia intenso il gusto della vita pratica; ma non meno chiaro appare come in lui tale gusto, più volentieri che nel campo propriamente civile o educativo o magari economico, tenda a esplicarsi attraverso una varia ed estrosa attività di curioso e attento viaggiatore e ricercatore, di accanito polemista, di brillante conversatore: una attività che in nessun altro luogo poteva meglio essere esercitata che in quella Curia romana, dove non a caso egli rimase mezzo secolo, e che rimpiangeva quando era impegnato nelle più importanti ma più onerose mansioni di cancelliere fiorentino. Questo particolare aspetto della personalità del B. va tenuto presente per intendere e valutare la sua opera letteraria. Anche alla base di tale opera c'è la convinzione, comune a tutti i grandi umanisti della prima metà del Quattrocento, che la cultura, e in particolare la cultura letteraria, debba essere perseguita non come fine a se stessa, ma quale elemento integrante di una operosa vita civile e sociale. "Licet... etiam sine litteris civem esse praeclarum", egli afferma, per esempio, nell'orazione scritta in morte del Bruni (cfr. L. Bruni Epistolarum libri VIII, ed. Mehus, Firenze 1741, p. CXXV) "et eum rem publicam tum consilio atque opere iuvare. Nam, et apud priscos illos et apud posteriores fuere permulti absque ulla doctrina excellenti virtute praediti, qui res et bello et pace praeclaras magna cum laude gessere... Verum litterae, si accedant, minime sunt repudiandae, sed appetendae potius, si desint, quoniam afferunt summum ornamentum earum cultoribus et ad res agendas doctiores ac perfectiores solent reddere. Illi vero, quibus Musae sunt cordi quique bonarum artium, studiis deduntur, ... in primis autem virtutem colant et habeant vitae ducem, sine qua et litterae contemnendae sunt et doctrina omnis videtur esse repudianda. Nam quibus pluris est scientia quam virtutis indagatio, ii viri evadunt callidi et perniciosi et tum reipublicae tum ceteris inutiles". Questo senso del valore formativo della cultura e delle lettere si configura non di rado, anche negli scritti del B., esplicitamente come meditazione o ammonizione o satira. Ma l'aspetto davvero caratteristico del Poggio scrittore va indicato piuttosto nella sua singolare capacità di osservare con spregiudicata attenzione e cordiale partecipazione la varia scena del mondo terreno e specialmente del mondo degli uomini nelle loro molteplici manifestazioni; e in una disposizione, altrettanto singolare, a comunicare ai lettori tutto il tesoro di fresche e personali impressioni e opinioni in tale modo raccolte. A questo stesso atteggiamento non è certo estraneo un contenuto morale, una fiducia viva nel contributo che quella osservazione e comunicazione possono offrire alla formazione dell'uomo integrale; ma è anche vero che tale atteggiamento, per la sua intima natura, tende a tradursi in disinteressata rappresentazione artistica, in un'arte cordialmente realistica, che assume volentieri la forma del colloquio, della descrizione, della narrazione, del bozzetto, dell'aneddoto, del "motto" calzante e arguto. Adeguato strumento stilistico di questa disposizione morale ed artistica è la prosa latina del B.: una prosa in cui molti lettori, dal Valla in poi, ora con severità ora con indulgenza, rintracciarono "errori" di lingua e di grammatica, ma che nella libera imitazione del modello ciceroniano, nella ricca varietà di lessico e di costrutti, nella aderenza, specie sintattica, al volgare contemporaneo, si rivela felicemente idonea a esprimere la dignità etica e insieme l'agile concretezza di quel fervido spirito di osservazione e comunicazione che è al centro della personalità dello scrittore.

Gli scritti più utili a determinare così i legami come i caratteri specifici del B. rispetto alla cultura contemporanea sono forse i dialoghi. Tipici di questa cultura sono i temi in essi trattati: il problema del retto uso del denaro nel De avaritia (1428-29); quello dei vantaggi e degli svantaggi del matrimonio nell'An seni sit uxor ducenda (1436); il confronto fra la vita splendida ma inquieta dei potenti e quella misurata e serena dei letterati nel De infelicitate principum (1440); la definizione del concetto di nobiltà nel De nobilitate (1440); la satira degli ipocriti, specialmente ecclesiastici, nel Contra hypocritas, (1447-48); la discussione intorno alla fortuna e al suo potere sugli uomini nel De varietate fortunae (1448) e nel De miseria humanae condicionis (1455); il paragone fra la giurisprudenza e la medicina, e la questione della lingua parlata nella Roma antica e dei suoi rapporti con il latino letterario nella Historia tripertita disceptativa convivalis (1450). Alla cultura contemporanea Poggio si riallaccia anche per il metodo della trattazione, piuttosto retorico che rigorosamente filosofico, e altresì, non raramente, per singole argomentazioni e conclusioni. Ciò che invece distingue questi dialoghi e assicura a essi un posto importante nella storia del pensiero umanistico è l'acuto interesse con cui vengono individuati e riconosciuti, sia pure in modo non sistematico, certi aspetti della concreta realtà politica, sociale ed economica. Particolarmente notevoli, in tale senso, la giustificazione, nel De avaritia, della brama del denaro, in quanto elemento insopprimibile per la formazione e il mantenimento delle città e degli Stati; la caratterizzazione, nel De nobilitate, del diverso contenuto che il concetto di nobiltà assume nelle singole nazioni e città in rapporto, di volta in volta, con la loro diversa situazione psicologica e storica, e ancora, nello stesso dialogo, l'insistenza sulla necessità che la virtù, che costituisce la vera radice della nobiltà, si estrinsechi nella vita pratica; la realistica rappresentazione dello scontro fra fortuna e virtù nel De varietate fortunae;l'ammissione, nella terza conversazione dell'Historia tripertita, della violenza illegale come momento positivo di rinnovamento e di progresso; l'analisi sottile e curiosa con la quale nel dialogo Contra hypocritas, l'autore distingue, mentre ne fa la satira, i molteplici aspetti sotto i quali quel vizio si presenta. Sono pagine anche artisticamente pregevoli, soprattutto quando il B. può abbandonarsi alla sua vena di descrittore e di narratore, come nel De avaritia e nel Contra hypocritas, e specialmente nel De varietate fortunae, che si apre con una commossa e attenta contemplazione delle rovine di Roma, e si configura poi come un tessuto di esempi tratti soprattutto dalla storia recente e contemporanea e in particolare dalle agitate vicende del papato di Eugenio IV, fino a concludersi, nel quarto e ultimo libro, con la colorita narrazione, raccolta dalla viva voce del protagonista, dei viaggi effettuati in India dal veneziano Niccolò de' Conti.

Forse più ancora che nel dialogo il B. si sente tuttavia a suo agio nell'epistola, genere letterario, si sa, diffusissimo nell'Umanesimo, ma specialmente congeniale a chi, come lui, intendesse la letteratura soprattutto come strumento di comunicazione di personali esperienze di vita: congenialità di cui doveva rendersi conto l'autore stesso, che provvide personalmente a riunire e a pubblicare le sue lettere, dopo averle riviste e corrette, in varie raccolte successive. Dell'epistola il B. si vale anche per trattare, in modo più agile e disinvolto, impegnativi argomenti di carattere teorico o pratico: sia che egli vi accenni temi filosofici, come l'avarizia o la fortuna, che poi svolgerà più ampiamente nei dialoghi, sia che vi manifesti il suo atteggiamento intorno a questioni religiose, come nelle lettere polemiche ad Alberto da Sarteano e ad altri intorno agli osservanti; o vi esponga le sue idee su problemi storici allora assai vivi, come in quelle anticesariane a Guarino; o infine vi chiarisca la propria posizione politica, come nel famoso elogio, inviato a Filippo Maria Visconti, della "fiorentina libertas" o nella consolatoria rivolta a Cosimo quando fu esiliato da Firenze. Ma l'epistola è soprattutto per il B. il campo ideale per esprimere senza specifiche preoccupazioni teoriche o pratiche, e quindi con particolare efficacia artistica, le sue impressioni su fatti concreti della propria vita o della storia o della cronaca del suo tempo: come quando egli racconta le avventurose visite nelle biblioteche svizzere, tedesche e francesi ed elenca entusiasta le avvenute scoperte; o confida le sue malinconie durante il soggiorno in Inghilterra, le sue tristi o liete vicende familiari, le sue speranze di potersi un giorno ritirare in un sereno "otium cum dignitate"; o descrive con penetrazione e umorismo abitudini e costumi stranieri, la allegra vita, per esempio, dei bagni di Baden; o tratteggia con mordace ironia tipi e scene della Curia papale; o rappresenta, apertamente esprimendo il suo giudizio, il comportamento di qualche grande personaggio contemporaneo in drammatiche circostanze, come nella famosa lettera sul processo e il supplizio di Girolamo da Praga, piena di franca ammirazione per il "virtuoso" eretico.

Questo gusto del fatto concreto si ritrova, per così dire, allo stato puro, ma con risultati moralmente e artisticamente meno notevoli, in quelle Facetiae che il B. venne sparsamente pubblicando fra il 1438 e il 1452: una serie di aneddoti, storielle, motti arguti e favolette, ora spiritosi ora soltanto grossolani o addirittura osceni, spesso relativi a personaggi del suo secolo o del precedente, ma non raramente costruiti con elementi di fonti medioevali o classiche od orientali. Non è assente invero, neppure in questi brevi raccontini, un fondo morale, soprattutto quella sua volontà di osservazione e comunicazione dei molteplici aspetti del mondo degli uomini: e vi si avverte anche un intento letterario, il proposito cioè, dichiarato dall'autore stesso nella prefazione e in effetto non raramente raggiunto, di voler mostrare le capacità espressive del latino nella trattazione di argomenti umili e quotidiani. Vero è tuttavia che le Facetiae sono prima di tutto, come il B. stesso ammette, un'opera di piacevole intrattenimento, quasi un'eco scritta delle barzellette e delle maldicenze che i segretari e gliscrittori apostolici si raccontavano, quando, nei momenti d'ozio, si raccoglievano a conversare liberamente in una stanza che essi stessi chiamavano "bugiale", cioè, come spiega Poggio, "mendaciorum officinam".

Anche le invettive del B. conservano il segno della loro origine pratica nella malignità e nella ferocia delle accuse, spesso false, nella volgarità degli insulti, nella plebea virulenza del linguaggio. Bisogna però riconoscere che anche in questo genere il B. si distingue tra gli umanisti contemporanei per un estro fantastico e una felicità stilistica che trovano riscontro forse soltanto in qualche pagina polemica (di carattere comunque alquanto diverso, più raffinatamente letterario) del Poliziano. Queste qualità, meglio che nelle quattro invettive contro il Filelfo, o in quelle composte rispettivamente contro Tommaso Morroni da Rieti, contro l'antipapa Felice V e contro i magistrati fiorentini (In fidei violatores), che gli avevano tolto il privilegio, a lungo goduto, dell'esenzione dalle tasse, hanno modo di manifestarsi nelle cinque scagliate contro il Valla; il quale nella prima è rappresentato come eroe di un burlesco trionfo, nella seconda e nella terza quale protagonista di una truculenta avventura infernale, e nella quarta è sottoposto a una feroce canzonatura, modellata sulla Apokolokyntosis senechiana.

Questo maggiore impegno artistico si spiega anche tenendo presente la natura della polemica cui esse si riferiscono: una polemica, in cui Poggio sentiva di rappresentare e difendere non soltanto la sua persona, quanto tutta una cultura letteraria, quella del primo umanesimo, contro gli assalti baldanzosi della nuova, storico-filologica, iniziata appunto dal Valla e destinata a prevalere nella seconda metà del secolo. Alla volontà di rendere omaggio a quella cultura rispondono più esplicitamente le orazioni funebri che il B. scrisse per alcuni illustri personaggi del suo tempo, e in particolare quelle dedicate ai due più cari suoi amici e corrispondenti, Niccolò Niccoli e Leonardo Bruni. Ai gusti e ai metodi del Bruni e in genere del primo umanesimo si riallacciano meno originalmente altre opere che il B. compose pure negli ultimi anni della sua vita: le traduzioni in latino della Ciropedia (1443-47), dei primi cinque libri di Diodoro (1449), e dell'Asino e delle Vere storie di Luciano (1455), traduzioni condotte assai liberamente e non senza fraintendimenti, e in cui la personalità del B. si riconosce soprattutto nella scelta dei testi, tutti di carattere storico o narrativo; e le Historiae Florentini populi, che la morte impedì all'autore di rivedere, e che si distinguono dall'opera analoga del Bruni quasi soltanto per le più esplicite ambizioni letterarie.

La maggior parte dei dialoghi e delle orazioni funebri, le più importanti invettive, parecchie epistole e le Facetiae sono raccolte nelle seguenti edizioni complessive: Poggii Florentini Opera, Argentinae 1511 e 1513, a cura di T. Aucuparius, e Basileae 1538. Dei dialoghi ricordiamo le seguenti edizioni particolari: Historiae de varietate fortunae, a cura e con note di D. Giorgi, Parigi 1723 (comprende anche 57epistole inedite), rist. anast., Bologna 1969; An seni sit uxor ducenda, Liverpool 1805, e Firenze 1823; Contro l'ipocrisia, testo latino e traduzione a cura di G. Vallese, Napoli 1946; la seconda Convivalis disceptatio della Historia tripertita e una Oratio in laudem legum, nel vol. La disputa delle arti nel Quattrocento, a cura di E. Garin, Firenze 1948, pp. 11-33; il De avaritia (e tre epistole), nel vol. Prosatori latini del Quattrocento, a cura di E. Garin, Milano-Napoli 1952, pp. 218-301.L'unica edizione complessiva delle Epistolae è quella in tre volumi, a cura di T. Tonelli, Florentiae 1832-1861. Altre epistole nel vol. del Walser, cit. più oltre, pp. 428-556, dove sono stampate anche alcune orazioni e invettive prima di allora inedite. Delle molte edizioni delle Facetiae va ricordata quella stampata a Londra 1798, con un'appendice che raccoglie le imitazioni, latine e francesi; e delle traduzioni le italiane, con introduzioni e note, di G. Lazzeri, Milano 1924, e di F. Cazzamini-Mussi, Roma s.a. (ma 1928), e la tedesca, pure con introduzione e note, di A. Semerau, Leipzig 1905.Le Historiae Florentini populi si leggono in L. A. Muratori, Rer. Ital. Script., XX, Mediolani 1731, pp. 194-454;di esse esiste una traduzione italiana del figlio del B., Iacopo, pubblicata a Venezia 1476, e più volte ristampata. È in corso a Torino, Bottega d'Erasmo, una ristampa di tutte le opere del B., curata da R. Fubini: sono usciti finora i seguenti tomi: I, 1964 (Scripta ineditione Basilensi anno MDXXXVIII collata; con una importante premessa del curatore); II, 1966 (Opera miscellanea edita et inedita;contieneanche vari opuscoli finora inediti); III, 1964(Epistolae, ed. Tonelli).

Grandissima è l'importanza del B. nella storia della scrittura latina, in quanto al suo nome è legata la nascita della scrittura detta "umanistica". Egli cominciò giovanissimo a copiare manoscritti per conto di Coluccio Salutati, il quale, indiretto discepolo del Petrarca anche in campo grafico, aveva decisamente avviato un processo irreversibile di abbandono delle forme gotiche e di ritorno all'imitazione della scrittura carolina. Il più antico manoscritto di mano del B. giunto sino a noi è il Laur. Strozz. 96, contenente il trattato De verecundia del Salutati, e scritto a Firenze fra il 1402e il novembre del 1403; esso, basato sull'imitazione diretta, e ancora stentata, di una tarda minuscola carolina del secolo XI, può essere considerato il primo manoscritto in umanistica finora noto. Del B., che continuò per parecchi decenni un'intensa attività di amanuense, prima per conto di altri, poi per sé, rimangono complessivamente diciotto codici autografi (ma il Dunston ha recentemente contestato l'autografia del Livio Vat. lat. 1843, 1849, 1852, nonché del Laur. 49.24), che possono essere distribuiti in tre diversi periodi cronologici. Il primo e iniziale costituisce quello della imitazione fotografica e ancora impacciata dei modelli antichi; il secondo, degli anni 1409-1414, è caratterizzato dall'uso di una umanistica compatta, alta e stretta, influenzata da esempi di pregotica del sec. XII. Il terzo e ultimo periodo noto rappresenta quello della definitiva canonizzazione di uno stile grafico, che, distaccandosi progressivamente dall'imitazione dei modelli, acquista una propria individualità e una grazia spiccata nell'armonia delle proporzioni, nell'accentuato rotondeggiamento, nel disegno sinuoso delle aste. Il B. fu un rinnovatore anche per quello che riguarda le maiuscole. Grande studioso di lapidi antiche, egli creò un nuovo alfabeto maiuscolo completamente diverso da quello della tradizione gotica, ancora adoperato dal Petrarca e dal Salutati. Le sue maiuscole, che ebbero larghissima fortuna, sono esemplate sul modello di quelle lapidarie romane e delle capitali epigrafiche di età romanica, ma sempre con liberi adattamenti di carattere soprattutto ornamentale. Il tipo di scrittura libraria creato dal B., che da vecchio ebbe al suo servizio diversi, anonimi copisti da lui istruiti all'uso della "umanistica", influenzò almeno due generazioni di scribi di scuola fiorentina e, per imitazione diretta o indiretta, incontrò larghissima diffusione in diversi centri dell'Italia centrale e meridionale.

A. Petrucci

Bibl.: Opera complessiva tuttora fondamentale, anche se discutibile in qualche conclusione, è quella di E. Walser, Poggius Florentinus.Leben und Werke, Leipzig-Berlin 1914 (su cui cfr. V. Rossi, in Giorn. stor. d. lett. it., LXX [1917], pp. 312-17); altri lavori complessivi notevoli sono: W. Shepherd, Vita di P. B., trad. italiana, con importanti note e aggiunte di T. Tonelli, Firenze 1825; C. S. Gutkind, P. B.s geistige Entwicklung, in Deutsche Vierteljahrschrift für Literaturwissenschaft und Geistesgeschichte, X (1932), pp. 548-96; V. Rossi, Il Quattrocento, Milano 1938, pp. 25-30, 125 s., 147 ss., 154 ss., 208 s.; il buon profilo di M. Aurigemma nel vol. miscell. Letteratura italiana. I minori, Milano 1961, I, pp. 427-48; H. Baron, The Crisis of the early Italian Renaissance, Princeton 1966, passim; M. Pastore Stocchi, fasc. di saggio del Dizionario critico della letteratura italiana, Torino 1966, pp. 9-12; E. Garin, La letteratura degli umanisti, in Storia della letteratura italiana Garzanti, III, Milano 1966, pp. 74-100. In particolare sul pensiero del B. si vedano: G. Saitta, Il pensiero italiano nell'Umanesimo e nel Rinascimento, Bologna 1949, I, pp. 307-35; E. Garin, L'umanesimo italiano, Bari 1952, pp. 46 ss. e 59-64; Id., La cultura filosofica del Rinascimento italiano, Firenze 1961, pp. 26-27, Sulla sua attività di scopritore di codici: R. Sabbadini, Le scoperte dei codici greci e latini nei secc. XIV e XV, I, Firenze 1905, pp. 74-81, e passim; II, Firenze 1914, pp. 191 ss.; T. Foffano, Niccoli,Cosimo e le ricerche di Poggio nelle biblioteche francesi, in Italia medioevale e umanistica, XII (1969), pp. 113-28. Sui dialoghi: F. Tateo, Tradizione e realtà nell'umanesimo italiano, Bari 1967, pp. 223-277. Sulle epistole: A. Willmanns, Ueber die Briefsammlungen des P. B., in Zentralblatt für Bibliothekswesen, XXX (1913), pp. 289-463. Sulle Facetiae, oltre le introduzioni delle traduzioni cit. del Lazzeri, del Cazzamini e del Semerau, si vedano: P. Toldo, Note poggiane, in Giorn. stor. d. lett. it., XLIV (1904), pp. 117-25; S. Debenedetti, Il testamento cinico, in Dodici studi critici per nozze Neri-Gariazzo, Città di Castello 1912; L. Di Francia, Novellistica, Milano 1924, pp. 335-52. Sul IV libro del De varierate fortunae:M. Longhena, I manoscritti del IV libro del "De varietate fortunae" di P. B.,contenente il racconto dei viaggi di N. de' Conti, in Boll. d. Soc. geogr. it., s. 7, II (1925), pp. 191-215. Sul De avaritia:H. Harth, Niccolò Niccoli als literarischer Zensor,Untersuchungen zur Textgeschichte von Poggios "De avaritia", in Rinascimento, XVIII (1967), pp. 29-53. Su altre opere: R. Fubini, Un'orazione di P. B. sui vizi del clero scritta al tempo del concilio di Costanza, in Giorn. stor. d. lett. ital., CXLII (1965), pp. 2433; C. da Capodimonte, P. B. autore delle anonime "Vitae quorundam pontificum", in Riv. di st. d. Chiesa in Italia, XIV (1960), pp. 27-47, Sulla scrittura: A. Hessel, Die Entstehung der Renaissanceschriften, in Archiv für Urkundenforschung, XIII (1933), pp. 1-14; S. Morison. Early humanistic script and the first roman type, in The Library, XXIV (1943), pp. 11-16; G. Cencetti, Lineamenti di storia della scrittura latina, Bologna 1954, pp. 267 ss.; B. L. Ullman, The origin and development of humanistic script, Roma 1960, pp. 21-57; A. J. Dunston, The hand of Poggio, in Scriptorium, XIX (1965), pp. 63-70; B. L. Ullman, Poggio's manuscript of Livy,ibid., pp. 71-75; Id., More humanistic manuscripts, in Calligraphy and Palaeography. Essays presented to A. Fairbank, London 1965, pp. 47 s.; E. Casamassima, Trattati di scrittura del Cinquecento italiano, Milano 1966, pp. 19 s.

E. Bigi - A. Petrucci

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