CALDARA, Polidoro

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 16 (1973)

CALDARA, Polidoro (detto Polidoro da Caravaggio)

Giulietta Chelazzi Dini
M. G. Ciardi Dupré Dal Poggetto

Molto scarsi sono i dati biografici del C., di cui è incerta anche la data della nascita (cfr. Thieme-Becker, V, P. 377) avvenuta a Caravaggio: oggi gli studiosi accettano generalmente quella che si deduce dal racconto del Vasari, oscillante tra il 1499 e il 1500, a eccezione della Borea (p. 224 n. 2), che l'anticipa di alcuni anni. Narra infatti il Vasari (p. 142) che Polidoro, "venuto a Roma nel tempo che per Leone [Leone X] si fabbricavano le loggie del palazzo del Papa con ordine di Raffaello da Urbino, portò lo schifo, o vogliamo dir vassoio pieno di calce, a i maestri che muravano, infin a che fu di età di diciotto anni", nella "vita" di Raffaello egli lo ricorda fra i collaboratori della decorazione della loggia del secondo piano. Sempre secondo il Vasari, Polidoro avrebbe cominciato a far pratica di disegno insieme a Maturino, quando Giovanni da Udine iniziò la decorazione pittorica della loggia del primo piano, cui poi avrebbe collaborato, secondo un vago accenno del Vasari.

Esclusa la Pacchiotti (pp. 189-196), che sulla base delle incisioni di Cherubino Alberti (Bartsch, XVII, pp. 79-88) ha tentato di riconoscere la presenza del C. nella loggia del primo piano, tutti gli altri critici hanno creduto di individuarla nelle storie bibliche della loggia del secondo piano, anche se con risultati incerti e discordi. Ad esempio, per la Borea (p. 217)sono del C. gli affreschi con Giosuè che divide le terre e col Trionfo di David; per il Freedberg (1961, pp. 414, 421), l'Incontro di Salomone e la regina di Saba e la Costruzione del Tempio;ilMarabottini (1969, pp. 24-27)respinge le attribuzioni della Borea e accetta quelle del Freedberg, allargando la collaborazione del C. anche ad altri scomparti.

Sempre dal Vasari sappiamo che il C., insieme con Maturino, iniziò subito la decorazione a chiaroscuro - sull'esempio di Baldassarre Peruzzi - delle facciate dei palazzi, attività che lo impegnò nel periodo romano e alla quale èeegata la sua fama. I loro primi lavori sono antecedenti il 1523, perché in quell'anno tornò in patria Pellegrino da Modena, che aveva partecipato all'esecuzione di una facciata, ora non più esistente, a Montecavallo. Nel marzo del 1524 il C. era di certo a Napoli, secondo la testimonianza del Summonte che lo ricorda "famoso di chiaro e obscuro, benché jovene assai, dipinge oggi le quattro mura del cortiglio e una loggia nella casa del signor Ludovico di Montalto, dove sono di vaghe cose, per la maggior parte cavate dall'exemplo della colonna di Traiano". Tornato a Roma, egli proseguì con Maturino a lavorare in chiaroscuro a imitazione dei bassorilievi antichi, specializzandosi in questo genere di decorazione. Innumerevoli furono le facciate decorate fra il 1524 e il 1527, quando in seguito al sacco di Roma Polidoro si allontanò dalla città, ma di esse rimangono solo le descrizioni del Vasari e molte copie e derivazioni grafiche.

Ricordiamo le principali: palazzo Capranica (Virtù teologali e, nel fregio, Allegoria dell'universalità della Chiesa cattolica), palazzo Spinola (Lotte antiche e, Morte di Tarpea), palazzo in via dei Coronari (Storia di Perillo), palazzo Buonaguri (Storie di Romolo), palazzo presso Corte Savella (Ratto delle Sabine, ecc.), palazzo vicino a S. Agata (Storie di Tuzia e di Camillo), due facciate in Campomarzio (una con le Storie di Anco Marzio e l'altra con le Feste dei Saturnali), palazzo Gaddi (Scene di sacrificio, Figure allegoriche e Storie romane, tutte di argomento non ben definibile), palazzo Milesi (nel fregio inferiore, Storia di Niobe;in quello superiore, sei Scene mitologiche, vasi, ecc.). Rimangono invece frammenti della decorazione dell'esterno di pal. Ricci (da poco restaurata) e, staccati, pochi frammenti autografi, ma largamente ritoccati, della facciata sul giardino del casino Del Bufalo (Museo di Roma) e della facciata di un palazzo in piazza Madama (ora pal. Barberini, Museo naz. d'arte antica). In confronto a questa attività decorativa di cultura e di gusto antichizzante così straordinariamente ricca, poche sono le opere del C. a soggetto religioso in questi anni romani: il Vasari ricorda una facciata, quella di S. Pietro in Vincoli, con Storie di s. Pietro e profeti (p. 146), già guasta al tempo del Mancini; una "cappellina con figure" in S. Eustachio (p. 145), oggi non più esistente; e, infine, nella cappella di fra' Mariano Fetti in S. Silvestro al Quirinale, le pitture parietali a olio e tempera con Storie di s. Maria Maddalena e di s. Caterina e altre figure (pp. 142 s.), ora restaurate (L. Mortari, in Mostra dei restauri, 1969, Roma 1970, pp. 14 s.).

Dopo il sacco di Roma e la morte per peste di Maturino, il C. si trasferì per breve tempo, a Napoli, dove, secondo il Vasari (pp. 150 s.), eseguì un S. Pietro in S. Maria delle Grazie a Caponapoli, oggi perduto, e in S. Angelo della Pescheria dipinse "una tavolina a olio nella quale è una Nostra Donna e alcuni ignudi di anime cruciate e alcuni quadri in quella dell'altar maggiore di figure intere sole". Tutte le opere del C. anche del secondo soggiorno napoletano possono considerarsi perdute e queste notizie sono confuse e inesatte, come ha dimostrato il Marabottini (1969, pp. 153-156), confrontandole con la storiografia locale. Ben presto egli si trasferi (definitivamente) a Messina, come testimonia una sua lettera a Giov. Antonio Milesi, inviata da Messina e datata 7 ott. 1528 (G. Amati, in Il Buonarroti, II[1867], pp. 10-14). L'evoluzione stilistica dei dipinti messinesi del C. rende tuttavia plausibile sia la conoscenza dello Spasimo di Sicilia di Raffaello (in origine a Palermo, in S. Maria dello Spasimo, e ora a Madrid, Museo del Prado), notata già dal Susinno (p. 56), sia un breve ritorno a Roma affermato dal Bologna (p. 83), sulla base di due disegni del British Museum (n. 1918-6-15-2 e n. 1936-10-10-3) per la perduta Trasfigurazione in S. Maria del Carmine a Messina, dove sono studi di nudi che derivano dal Giudizio finale di Michelangelo.

Fatta eccezione per gli apparati in occasione dei festeggiamenti per l'ingresso di Carlo V (1535), per i quali rimangono numerosi schizzi e disegni, i dipinti del C. nella città siciliana furono esclusivamente di soggetto religioso: L'Adorazione dei Magi per la chiesa d'Altobasso, ora nel Museo naz. di Messina, commissionata nel febbraio del 1533 (la qualità è diminuita dalla larga presenza di un collaboratore); l'Andata al Calvario, già nella chiesa dell'Annunziata de' Catalani, ora nella Pinacoteca di Capodimonte a Napoli, eseguita sicuramente entro il 1534; l'Incredulità di Tommaso, ora nella coll. Seilern a Londra, e il disperso polittico del Carmine, di cui facevano parte il frammentario S. Alberto in coll. priv. (Susinno, pp. 56 s., 59, 60, 62; Longhi, 1970) e il S. Angelo carmelitano della Pinacoteca Sabauda di Torino.

A Messina il C. risiedette fino alla morte, che avvenne tragicamente nel 1543: come ci narra il Vasari (p. 152), fu ucciso e derubato da un suo "garzone".

Nonostante l'alto numero di opere ricordate dalle fonti storiche, la personalità del C. è oggi tutt'altro che chiara. Contribuiscono a ciò molte cause: fra le principali la notevole dicotomia esistente fra l'attività romana e quella meridionale; la difficoltà di precisare il suo stile nella decorazione delle facciate su di un gruppo autografo, dal momento che esse sono andate quasi completamente perdute; infine la presenza costante del suo collaboratore Maturino da Firenze, del quale non conosciamo assolutamente nulla.

Il problema dell'identificazione di Maturino non è stato e forse non potrà mai essere risolto: il tentativo della critica (Pacchiotti, pp. 200-207) d'identificarlo basandosi sulla distinzione di qualità non è da considerarsi convincente anche se in effetti le fonti cinquecentesche ponevano il C. in una posizione preminente rispetto al compagno. Tutto ciò incide negativamente soprattutto sul periodo giovanile che permane oscuro, dal momento che nei tre cicli decorativi nei quali la critica ha cercato di scoprire l'intervento giovanile di Polidoro esso risulta in realtà talvolta problematico da riconoscere. Alludiamo alle logge del secondo piano nei palazzi Vaticani e agli affreschi per il salone della villa di Baldassarre Turini (poi Lante, staccati: ora Roma, palazzo Zuccari), ad eccezione dell'Incontrodi Gianoe Saturno, per il quale esiste un disegno autografo al Louvre (n. 6078), e che d'altronde si differenzia dalle altre storie, stilisticamente dominate da Giulio Romano; a quest'ultimo infatti, secondo il Vasari, spetterebbe quest'impresa (ma vedi F. Hartt, Giulio Romano, New Haven 1958, e recens. di J. Shearman, in The Burlington Magazine, CI[1959], p. 459 n. 15, oltre che E. Vermeyen, Die Sala di Ovidio im Palazzo del Te, in Römisches Jahrb. f. Kunstgesch., XII [1969], pp. 168 s.). Il terzo ciclo è costituito dai "chiaroscuri" nello zoccolo della "Stanza di Costantino", eseguiti nella seconda fase dei lavori, interrotti alla morte di Leone X e poi ripresi nel 1524: la loro attribuzione al C., quantunque abbia una origine abbastanza recente (Chattard, 1766, pp. 207-209), ha ottenuto larghi consensi. Questi chiaroscuri con Storie di Costantino a finto bassorilievo, nonostante le cattive condizioni di leggibilità, permettono di distinguere la presenza del C. su di uno sfondo stilistico prevalentemente legato a Giulio Romano. Una più sicura conoscenza dello stile di Polidoro negli anni fra il 1523-25 ci è offerta dalle tavolette con Ninfe, Satiri e Amorini di Hampton Court e quella con Psiche condotta da Mercurio alla presenza degli Dei nei depositi del Louvre, attribuite al C. già nella prima metà del sec. XVII. Gli affreschi con le Storie della Passione, già in S. Maria della Pietà in Camposanto nella Città del Vaticano (Marabottini, 1969, p. 33) -, attribuiti al C. non soltanto da una vecchia tradizione settecentesca ma anche recentemente, con molte argomentazioni, dalla Pacchiotti e dal Kultzen - sono opera di almeno tre artisti, come ha chiarito il Marabottini (1969, pp. 41 s.); i riquadri che sembrano appartenere al C., l'Orazione nell'orto e Cristo condotto davanti a Pilato, sono quasi illeggibili e per di più, oggi, sono di ubicazione ignota.

In linea di massima è opportuno, per ricostruire nelle linee essenziali la personalità dell'artista, partire dai dipinti del periodo messinese, che sono complessivamente autografi, e procedere quindi a ritroso. Nelle opere eseguite a Messina compaiono le qualità più tipiche del C.: "la sua sottile miscela di dolcezza struggente e di asprezza aggressiva, di monumentalità ideale e di esasperato realismo" (Marabottini, 1969, p. 174), il modo "lombardo" d'intendere la grande cultura classica e raffaellesca; nell'Andataal Calvario (Pinacoteca di Capodimonte a Napoli) l'intervento di un collaboratore forse fiammingo (Longhi, 1951, p. 46) ha reso analitici e descrittivi la composizione e il paesaggio, che appaiono invece unificati da zone d'ombra e di luce nei tre stupendi bozzetti conservati a Roma (pal. della Cancelleria: Marabottini, 1967, pp. 170-175), a Napoli (Pinac. di Capodimonte: Bologna, p. 82) e a Londra (coll. Pouncey: Pouncey-Gere, p. 116). Intorno a questi modelletti si raccoglie un gruppo di dipinti di piccole dimensioni, che appartengono al periodo meridionale e che sono da considerarsi anch'essi abbozzi per dipinti perduti oppure progetti per altri mai eseguiti: la Deposizione nel sepolcro con l'Adorazione dei pastori nella predella, la Guarigione del cieco e la Pentecoste, tuttenel Museo nazionale di Palermo (Delogu, p. 127), la Pentecoste e l'Adorazione dei pastori nella Pinac. naz. di Capodimonte (Bologna, p. 82; A. De Rinaldis, Catal. della Pinac.… di Napoli, Roma 1928, p. 476).

Se, procedendo a ritroso, passiamo alle opere romane, il percorso si snoda facilmente fra i dipinti messinesi e gli affreschi con le Storie di s. Caterina e di s. Maria Maddalena in S. Silvestro al Quirinale anche per il ductus cromatico, formato da tocchi che sfrangiano la trama del disegno: gruppi di piccole figure sono immersi in vastissimi paesaggi che per la prima volta diventano i protagonisti delle storie. In modo imprevedibile per un pittore di battaglie e di storie antiche, qui il C. fonda la pittura di paesaggio "ideale" che avrà un enorme sviluppo nel Seicento. Le restanti parti della decorazione della cappella di fra' Mariano non manifestano la stessa qualità.

La fortuna storica del C. è legata principalmente alle sue facciate, dalle quali trassero ispirazione e innumerevoli disegni non solo i maggiori artisti del Cinquecento, ma anche Rembrandt (cfr. K. Clark. Rembrandt, London 1966, p. 72), Rubens, Pietro da Cortona, Poussin, Le Sueur e Fussli, anche se ciò avvenne probabilmente perché esse fornivano uno straordinario repertorio di "antichità": di esse si è tentata una sistemazione cronologica suscettibile però di ulteriori studi e riflessioni (Marabottini, 1959, pp. 102-135, 351-376). Nei pochi frammenti delle facciate si intravedono lo stesso impeto compositivo, la stessa accentuazione fenomenica delle luci e delle ombre che caratterizzano gli affreschi di S. Silvestro.

Anche come pittore di soggetti religiosi, l'influenza del C. fu assai vasta soprattutto nell'Italia meridionale (testimoniata da alcuni artisti come Marco Cardisco a Napoli, il messinese Stefano Giordano, il calabrese Pietro Negroni e il napoletano Deodato Guinaccia in Sicilia) e nella Spagna.

La grafica del C. è di altissima qualità e documenta, senza dubbio più ampiamente delle pitture a noi pervenute, le sue grandi doti, poiché un notevole corpus di fogli, sicuramente autografi, è conservato nelle raccolte più importanti del mondo. Pochi sono i disegni che attestano lo studio dai bassorilievi antichi anche se certamente egli ne deve avere eseguiti molti in preparazione delle decorazioni a chiaroscuro delle facciate, come estremamente scarsi sono i fogli giunti fino a noi, direttamente preparatori per le facciate stesse. Tuttavia questi ultimi non sono di difficile individuazione fra le innumerevoli copie, proprio per l'alta qualità del ductus grafico. Nel disegno preparatorio (Louvre, n. 6078) per l'Incontro di Giano e Saturno, già a villa Lante (1524 c.), l'artista pare svincolato ormai dall'iniziale influenza di Baldassarre Peruzzi e di Giulio Romano (si vedano per es. il disegno giovanile con l'Adorazione dei Magi, n. 14947 F degli Uffizi, quelli con l'Adorazione dei pastori dell'Accademia di San Fernando a Madrid, e il n. 22473 del Kupferstichkabinett di Berlino-Dahlem), mentre sembra incline a certe deformazioni di tipo manieristico, tra Parmigianino e Rosso, che saranno ancor più acentuate in fogli da datarsi probabilmente intorno al 1525 (quali Una maestra con gli scolari, n. 1946-7-13-463, e quello con soggetto simile al n. 1957-4-13-1, recto e verso, entrambi del British Museum). Il Trasporto di Cristo al sepolcro degli Uffizi (n. 13396 F), penna lumeggiata di biacca, è disegno preparatorio per la tavoletta, sicuramente del periodo meridionale, ora nel Museo di Capodimonte (Longhi, 1970, pp. 5 s.). A Berlino-Dahlem (Staatl. Museen) si conserva un gruppo di disegni, alcuni dei quali eseguiti in occasione dell'entrata a Messina di Carlo V (1535), che facevano parte di un album in seguito smembrato (Cassirer, 1920). Vicino a questo gruppo si scalano nel tempo alcuni fogli, tutti eseguiti esclusivamente a rapidi tratti di penna, tecnica preferita dal C. nel tardo tempo siciliano: Scena di caccia (Uffizi, n. 13377 F), Figura dilaniata dalle fiere (British Museum, n. 1918-6-15-2), Studi per un s. Giovanni Battista (ibid., n. 1856-7-12-5) e quello della coll. Walter C. Baker di New York con due studi per una Madonna in trono, quattro santi e altre figure (cfr. Marabottini, 1969, dis. 166).

In numero minore, ma di straordinaria qualità, sono i disegni a sanguigna, come lo Sposalizio della Vergine (Albertina, n. Sc. R. 452, Inv. 380) e come la Processione degli incappucciati (Royal Library, Windsor Castle, n. 2349); quelli a penna, inchiostro acquarellato e biacca come la Circoncisione (Uffizi, n. 9004 S) e la Messa (Louvre, n. 6074), nei quali il C. si avvicina ai risultati luministici dei dipinti coevi. Un rilievo particolare meritano infine i disegni di paesaggio puro, cioè il Paesaggio con il ratto di Ganimede (British Museum, n. 1905-11-10-48), i due Paesaggi degli Uffizi (nn. 498 P e 500 P), il Paesaggio con Resurrezione di Lazzaro nella Kunsthalle di Amburgo (n. 21446), che si collegano alle Storie in S. Silvestro e confermano le parole del Vasari che "Polidoro veramente lavorò i paesi e macchie d'alberi e sassi, meglio d'ogni pittore".

Un gran numero di incisori, anche contemporanei al C., hanno inciso da sue composizioni, primi fra tutti i francesi (J. Prévost già nel 1535). In particolare va ricordato il Libro de diversi trophei de Polidoro cavati da gli Antichi pubblicato a Roma tra il 1550 e il 1553 da A. Lafréry che dai suoi incisori, italiani e stranieri, fece incidere anche altri soggetti (cfr. l'indice delle stampe in vendita nella bottega del Lafréry, nel 1572, in F. Ehrle, Roma prima di Sisto V, Roma 1908, pp. 56 s., 59).

Ma il più ampio corpus polidoriano del secondo Cinquecento è dovuto a Cherubino Alberti, che lo rese con intenti pittorici di derivazione agostinocaraccesca (alcuni rami nella Calcografia nazionale). Le incisioni dell'Alberti, di cui sono citate qui solo le più importanti, per quanto accompagnate dall'accusa del Bellori di "dar deformate le opere di Polidoro" (cfr. Petrucci, 1956, p. 144) ebbero molta fortuna. Alle prime incisioni datate (1572: chiaroscuri di S. Simeone) seguirono tra l'altro: nel 1582, sotto il patrocinio di Marzio Milesi i Vasa exacte celata, in dieci tavole più il frontespizio (con data errata 1702), traduzione dei "vasi d'oro contrafatti", sulla facciata di palazzo Milesi, di cui parla il Vasari; nel 1590 i Fabularum comenta (due stati), serie di dieci soggetti mitologici dipinti nella prima loggia vaticana, preceduti da un frontespizio e dedicati a Chiappino Vitelli (elenco in Bartsch, pp. 131-34).

Nel 1592 H. Goltzius, reduce dal viaggio in Italia, incise a bulino otto Divinità pagane sulla scorta dei molti disegni copiati da Montecavallo (sei disegni preparatori sono al Museo Teyler di Haarlem), le due Sibille di porta S. Angelo di poco posteriori, mentre dal suo allievo J. Saenredam fece incidere, sempre da suoi disegni, Scipione ferito, Camillo e la pesa dell'oro e la Favola di Niobe, pubbl.da Claes Jansz Visscher (editore anche di "vasi" di Polidoro e di soggetti dall'antico, Kunstbibliothek di Berlino-Dahlem. Cfr. F. W. H. Hollstein, Dutch and Flemish etchings, engravings, VIII, Amsterdam s.d., pp. 101 s.; R. Bromberg Reiss, Incisioni del Goltzius conservate all'Ambrosiana, Vicenza 1969, pp. 9, 23 s.).

Ricordiamo ancora, fra gli incisori italiani (R. Schiaminossi, O. Fialetti, G. C. Guidi), Stefano della Bella che incise il Toro di Falaride (tre stati) decorazione della casa "all'Imagin di Ponte" di via dei Coronari, tema ripreso contemporaneamente da G. Laurenziani (rame alla Calcografia nazionale). Nel Seicento avanzato, sempre a Roma, il fiorentino G. B. Galestruzzi incise varie serie di soggetti dal C.: tutti i rami sono alla Calcografia nazionale; l'opera completa è anche posseduta dalla Kunstbibl. di Berlino-Dahlem.

Una riproduzione incisoria di genere scolastico rivissuta cm spirito classicheggiante è affidata a P. S. Bartoli con il Fregio dipinto intorno la maschera d'oro (8 tavv., rami alla Calcografia nazionale) e il Fregio del padiglione di palazzo del Bufalo (8 tavv., Kunstbibliothek di Berlino-Dahlem).

A parte le molte incisioni di vasi, trofei, fregi, coppe, passate fra il Cinquecento e il Settecento sotto il nome di Polidoro anche se sono soltanto imitazioni o rielaborazioni di motivi dall'antico o se arieggiano il suo fare, la fortuna di Polidoro fu tale che ancora per tutto il Settecento a Roma furono ristampati i rami degli incisori sopra citati specie a cura della famiglia dei De Rossi a cui erano confluiti molti rami del Lafréry ed eredi e dei calcografi del Seicento (dai De Rossi i rami passarono all'attuale Calcografia nazionale e ne seguirono le sorti).

I disegni del C. esercitarono una grande suggestione sugli incisori del secondo Settecento e del primo Ottocento: incisi con le tecniche più disparate, furono inseriti in più di trenta raccolte di collezioni celebri come quella di S. Mulinari e di A. Scacciati per i disegni degli Uffizi (l'elenco delle collezioni con la descrizione di 111 incisori è in Weigel, 1865). Ancora nel primo Ottocento di interesse documentario è l'incisione di Nicola Aureli tratta dal Discorso alle coorti, allora ancora visibile a palazzo Milesi, il cui rame è alla Calcografia nazionale insieme ad altri rami dal C. intagliati da R. Guidi, D. Cunego, G. Volpato, C. Tinti, ecc. (elenco in Petrucci).

F. Borroni

Fonti e Bibl.: Per la bibl. anteriore al 1968 vedi oltre a U. Thieme-F. Becker, Künstlerlex., V (1911), pp. 377-380: A. Marabottini, Polidoro da Caravaggio, Roma 1969 (cfr. anche rec. di E. Langmuir, in The Burlington Magazine, XCII[1970], pp. 471 s.; e di W. Oechslin, in Bibliotèque d'Humanisme et Rènaissance, XXXII[1970], 2, pp. 502-506). Si veda inoltre: P. Summonte, Lettera a M. A. Michiel [1524], in F. Niccolini, L'arte napoletana del Rinascimento, Napoli 1925, pp. 164 s.; G. Vasari, Le Vite, a cura di G. Milanesi, V, Firenze 1880, pp. 141-154; F. Zuccari, Origine e orogresso dell'Accadomia del Disegno [1604], in Scritti d'arte, a cura di D. Heikamp, Firenze 1961, pp. 19 s.; Id., Il lamento della Pittura su l'onde venete [1605], ibid., p.125; G. Mancini, Considerazioni sulla pittura…[c.1620], a cura di A. Marucchi - L. Salerno, I-II, Roma 1956-1957, ad Indicem;P.J. 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