POMPEI

Enciclopedia dell' Arte Antica (1965)

Vedi POMPEI dell'anno: 1965 - 1973 - 1996

POMPEI (Pompeii, Πομπηία, Πομπηίοι)

A. Maiuri

Sommario: Generalità. A) Topografia generale. - B) Cenno storico: 1. Gli avvenimenti storici. 2. Il terremoto. 3. L'eruzione. 4. Lo scavo. - C) Impianto e sviluppo urbanistico: 1. La città: a) formazione; b) pieno sviluppo; c) Quartieri e vie. 2. I pagi. 3. L'approvvigionamento idrico. 4. Materiali e strutture. 5. La fortificazione. 6. Il Foro. 7. Edilizia pubblica: a) i templi; b) edifici civili, terme; c) teatri; d) palestre. 8. Edilizia privata: a) la casa; b) le ville; c) necropoli. - D) Arte: 1. La pittura. 2. Il mosaico. 3. La scultura. 4. Arredamento. 5. Argenteria. 6. Vetri, terrecotte, stucco. 7. Oreficeria, gemme, avorî. - Bibliografia (si veda anche la voce pompeiani, stili).

P., città della Campania, il cui nucleo originario, di stanziamento osco venuto poi sotto l'egemonia etrusca e greca, fu ampliato sotto il dominio dei Sanniti. Sconfitto il Sannio dai Romani, divenne socia italica di Roma e poi, sotto Silla, colonia romana fiorita a benessere economico per commerci e industrie. Subì un grave terremoto (v. più avanti) e fu poi distrutta, insieme con i centri circonvicini (v. boscoreale; ercolano; stabiae) dall'eruzione del Vesuvio del 79 d. C. L'esplorazione archeologica di P., iniziatasi nel 1748 (v. più avanti) e tuttora in corso, ha finora dissotterrato oltre i tre quinti dell'area complessiva di poco più di 66 ettari. P. è divenuta così, in tutto il mondo, il più famoso dei centri archeologici di età romana ed offre al visitatore un'incomparabile ricchezza di documentazione su tutti gli aspetti della vita e della civiltà artistica di una città antica di età romana, abitata da una fiorente classe media. Questa eccezionale documentazione è dovuta soprattutto al fatto che la vita della città venne interrotta bruscamente nel suo pieno rigoglio e non passò attraverso le fasi di decadenza e di abbandono subite generalmente da maggiori centri storici (Atene, Roma, Bisanzio) nei quali le epoche successive hanno via via distrutto le testimonianze più antiche.

A) Topografia generale. - P. sorge sopra uno degli ultimi contrafforti del versante meridionale del Vesuvio, formato da una colata lavica discesa in età remota o dalla bocca principale o da una bocca laterale del vulcano; se ne vedono gli affioramenti sulle scarpate del fronte meridionale e presso l'anfiteatro. Il contrafforte si distacca con una forte insellatura dalle pendici del Vesuvio e, in forma d'una grande terrazza pentagonale, discende prima con sensibile pendenza poi con balze precipiti verso la sottoposta valle del Sarno. Eruzioni posteriori di ceneri e scorie hanno in parte livellato le asperità del terreno; ma l'area dell'abitato restò divisa da una insolcatura mediana (via di Stabia) in due settori: un minore settore occidentale (il Foro con le Regioni VI, VII, VIII) segna, con Porta Vesuvio, la massima quota di altezza (m 42 s. m.); un più esteso settore orientale ha le sue massime depressioni presso l'anfiteatro (m 12) e Porta di Stabia (m 8). Il ciglio della terrazza segnò, con una linea di naturale difesa, la massima espansione urbanistica della città. Posta quasi a sbarramento della valle del Sarno e delle vie che confluivano da Noia e da Nocera, a breve distanza dal mare e dalla foce del Sarno, era naturalmente destinata a svolgere i traffici terrestri e marittimi tra la Campania meridionale e le vie che vi si aprivano verso il S della penisola. Nella Tabula Peutingeriana (v.) sono indicate le distanze itinerarie di P. da Ercolano in 9 miglia, da Oplonti (fra Ercolano e P.) in 3 miglia, da Nocera in 12 miglia.

Mancando un qualsiasi rilievo o insenatura costiera, il porto dovette essere formato dallo stesso estuario del fiume con quelle opere di bacino e di banchinamento che erano adottate dai coloni greci delle altre città marittime della Magna Grecia, appoggiate anch'esse ad un più o meno grande estuario fluviale. Precisa pertanto è la notizia di Strabone (v, 247), che, facendo di P. lo scalo marittimo di Noia, di Nocera e di Acerra, dà al fiume tale precipua funzione: Νώλης δὲ καὶ Νουκερίας καὶ ᾿Αχερρῶν ..... ἐπίνειόν ἐστι ἡ Πομπνία παρά τῷ Σάρνῳ ποταμῷ καὶ δεχομένῳ τὰ ϕορτία καὶ ἐκπέμποντι.

Non è stato agevole riconoscere la linea dell'antico lido e il porto. Che il lido segnasse anticamente una più profonda insenatura e fosse più vicino alla città, lo si ricava da Seneca (Quaest. nat., iv, 1) e da Plinio il Giovane (Epist., vi, 16, 12), ma l'enorme accumulo dei materiali dell'eruzione, l'apporto alluvionale e le opere di canalizzazione e di bonifica dall'età borbonica ad oggi, hanno prolungato e alterato notevolmente il litorale. Le esplorazioni a mezzo di pozzi per l'accertamento dei materiali eruttivi depositati sull'antico humus, dopo i primi saggi del La Vega, del Ruggiero (1879) e, più recenti, dello Jacono inducono a porre la linea del litorale a una distanza corrente tra i 700 e i 1000 m dal limite occidentale e meridionale della città (non senza riserve del geografo Baratta). Più sicura è l'identificazione del porto dopo le prime segnalazioni che se ne fecero presso il molino De Rosa (1880-82), le contestate esplorazioni del Matrone (1899-1900) e la scoperta di un vero e proprio pago marittimo (1925) presso il mulino Fienga (già De Rosa) di cui peraltro, essendo nuovamente sommerso, non ci resta che un sommario rapporto e le suppellettili che vi si raccolsero. Quasi di faccia alla foce del fiume un isolotto roccioso (scoglio di Revigliano), che la tradizione antica già legava alla leggenda di Ercole (Petra Herculis: Plin., Nat. hist., xxxii, 17), può aver offerto qualche riparo ai velieri all'ancora. A ponente del fiume, lungo la fascia del lido, si apriva un bacino lagunare e presso quella laguna, lungo la spiaggia, erano le saline che per esser dedicate ad Ercole e documentate da iscrizioni di associazioni (Salinienses) e dal nome della porta (Porta salis) per la quale il sale era trasportato in città, costituivano una delle maggiori industrie di P. (Columella, x, 135-6:... dulcis Pompeia palus vicina salinis/Herculeis...).

La città era lambita all'esterno dall'ultimo tratto della via litoranea, che da Napoli conduceva a Nuceria. Un'altra via collegava P. a Stabiae e da Stabiae, per la penisola sorrentina, a Surrentum. Senza assurgere pertanto all'importanza di una grande città veniva P. ad avere una posizione preminente nello sviluppo politico ed economico nella Campania meridionale.

B) Cenno storico. - 1. Gli avvenimenti storici. - La sua origine e la sua primitiva storia si possono ricostruire più dagli eventi storici della Campania che dalla poco chiara successione cronologica del passo di Strabone, v, 247, che menziona, nel possesso della città, Oschi, Etruschi e Sanniti: ῎Οσκοι δὲ εἶχον ..... καὶ τὴν ἐϕεξῆς Πομπηίαν ... εἶτα Τυῤῥηνοί .... μετὰ ταῦτα δὲ Σαυνῖται καὶ οὗτοι δ᾿ ἐξέπεσον ἐκ τῶν τόπων. Fondata verso l'VIII sec. a. C. da popolazioni osche della valle del Sarno, dovette derivare il suo nome più dalla lingua osca che greca (dal numerale pompe, Mau) e dal nome di una gens Pompeia o dall'agglomerato di cinque borghi (Patroni, Devoto) che dalla voce πέμπω (spedisco) - πομπεῖον (spedizione) come si pensò da alcuni (Nissen, Sogliano) riferendosi al carattere marittimo della sua fondazione e al passo di Strabone in cui si volle vedere un'intenzione etimologica. Durante il VII e VI sec. non poté sottrarsi all'egemonia greca di Cuma (v.) e di ciò fanno testimonianza il tempio greco arcaico sulla terrazza meridionale e l'introduzione del culto di Apollo, presso il Foro, di origine indubbiamente cumana. Venuti gli Etruschi della federazione campana in lotta con Cuma, questi riuscirono a sottrarre per alcun tempo alla talassocrazia greca il settore meridionale della Campania e con esso P. fino a che, con la battaglia di Cuma (474 a. C.), venne ristabilita l'incontrastata egemonia greca sul litorale campano. Nell'ultimo venticinquennio del secolo (± 425 a. C.), con l'invasione sannitica, P. entra a far parte della federazione sannitica della Campania meridionale con capitale Nuceria. Nella lotta del Sannio contro Roma è ricordata solo nell'incursione che nell'anno 310 a. C. marinai e militi della flotta romana fecero nell'agro sarnese respinti da nucerini e pompeiani (Liv., ix, 38, 2-3). A guerra finita dovette ovviamente entrare a far parte dello stato romano in qualità di socio italico conservando la propria autonomia, le proprie istituzioni e la propria lingua. Condizioni non mutate dalla guerra annibalica perché, al pari di Nola, di Nocera e delle città rivierasche, si mantenne fedele a Roma senza peraltro essere esposta ad assedio e a distruzione. Il primo suo diretto e decisivo intervento si ebbe nella guerra sociale (89 a. C.) quando, occupata dalle truppe italiche ribelli a Roma capitanate da Lucio Cluenzio, dovette sostenere il vigoroso assedio dell'esercito sillano. Espugnata, dopo una valida difesa, in luogo di esser condannata alla distruzione come la vicina Stabia, venne, dopo una temporanea occupazione militare e provvisori ordinamenti, eretta a colonia con il nome ispirato al gentilizio e al culto familiare del dittatore Silla, Colonia Veneria Cornelia. Compito non facile fu quello di conciliare gli interessi dei nuovi coloni con i veteres cives e un'eco se ne ha nella difesa che Cicerone assunse del nipote del dittatore Publio Silla (pro Sulla); ma il processo di assimilazione fu assai rapido. Grandiose opere pubbliche, Terme, Odèon, il Capitolium del Foro, l'Anfiteatro, la pavimentazione stradale, dovute in massima parte al mecenatismo di esponenti del partito sillano, iniziarono la trasformazione dell'aspetto urbanistico della città e il suo rinnovamento nei nuovi ordinamenti, nella lingua e nel costume. La vita della colonia è caratterizzata più da episodî di cronaca e da cataclismi geofisici che da veri e proprî avvenimenti storici. Libera dalla soggezione politica di Nocera, ebbe peraltro con la vicina e più potente città contrasti d'interessi agrari nell'assegnazione delle terre della valle del Sarno, e a questo profondo rancore, più che a improvvisa esplosione di furore popolare, si deve la rissa sanguinosa che nell'anno 59 d. C. scoppiò tra nucerini e pompeiani nell'arena dell'Anfiteatro con le gravi sanzioni che se seguirono da parte del Senato (Tac., Annal., xiv, 17). Pochi anni dopo, nel 62 d. C., P. veniva, con molte altre città della Campania, gravemente colpita e danneggiata da un terremoto il cui epicentro dovette essere la zona vesuviana.

2. Il terremoto. - Documentato dal rilievo del larario di Cecilio Giocondo, dall'iscrizione del restauro del tempio di Iside (C.I.L., x, 846) e dai numerosi parziali o radicali restauri che si notano in quasi tutti gli edifici pompeiani negli ultimi anni, il terremoto ha la sua storica, ma cronologicamente discorde, testimonianza in Seneca (Quaest. nat., vi, 1, 1) e in Tacito (Ann., xv, 22) riferendosi Seneca con la coppia consolare (Regulo et Virginio consulibus) all'anno 63 d. C. e includendo invece Tacito l'evento sismico nella precedente coppia consolare dell'anno 62: la questione sembra stata recentemente risolta a favore della testimonianza di Tacito, attribuendo a un glossatore l'aggiunta della data consolare di Seneca e recando a conforto l'ultima data delle tabulae ceratae di Lucio Cecilio Giocondo (11 gennaio 62 d. C.) e l'apparizione della cometa durante il semestre dell'anno 60-61 d. C.

Mentre faticosamente ma intensamente attendeva alle opere di ricostruzione di edifici pubblici e privati e la città riprendeva, soprattutto nei commerci e nelle industrie, la sua prosperità, veniva 17 anni dopo, nel 79 d. C. sepolta dalla più storica e famosa eruzione del Vesuvio.

3. L'eruzione. - Il vulcano che gli antichi consideravano spento per sempre, che era stato teatro di una delle più drammatiche vicende della guerra contro Spartaco, che raffiguravano ammantato di vigneti sotto la protezione di Dioniso-Liber, e prediligevano quale sede di ville e di masserie, si ridestò improvvisamente nel 79 d. C. il 24 agosto, secondo i codici più accreditati delle lettere di Plinio, o il 24 novembre in base alla scoperta di frutta autunnali, secondo alcuni naturalisti che correggono la lezione IX kal sept(embres) in IX kal. dec(embres). Le modalità e la durata del parossismo (cessato al terzo giorno) si ricavano dalla lettera (Plin., Epist., vi, 16) con cui Plinio il Giovane descrive a Tacito la morte dello zio Plinio il Vecchio che, prefetto della flotta misenate, era accorso con alcune navi da Miseno sul luogo dell'eruzione; testimonianza che, pur desunta dal racconto di coloro che accompagnarono l'ammiraglio naturalista, è prezioso documento di fedeltà ed esattezza vulcanologica. Inoltre la stratificazione nelle aree scoperte del materiale eruttivo in due distinti strati, il crollo delle coperture all'interno delle abitazioni, la morte per asfissia che colse gli abitanti fuggiaschi e permette di ritrarne le impronte nel cavo lasciato nella cenere, costituiscono la viva documentazione della quotidiana esperienza dello scavo. La città ed il suburbio restarono sepolti sotto uno strato di 4-5 m di materiale eruttivo, di cui lo strato inferiore di lapilli, quello superiore di cenere mista all'acqua che accompagnò o seguì di poco l'eruzione provocando alluvioni e crolli (il muro settentrionale della grande Palestra); solo parzialmente colmati furono i cellai e i criptoportici delle case e delle ville dove a traverso le lustriere (finestre a feritoia) riuscì a penetrare la colata di lapilli e cenere. Rimasti affioranti i culmini delle case, prima che su di essi si formassero nuovi strati di humus, era naturale che cercatori improvvisati, più che i legittimi proprietari, tornassero a frugare tra le rovine per ricuperare mercanzie e suppellettili. Se ne ha testimonianza dal rimescolamento degli strati di cenere e lapilli, dalle brecce aperte nei muri e dalla spoliazione di alcune abitazioni. Ma la città non risorse; né le scarse tracce di rustiche costruzioni e di qualche sepolcro al di sopra del banco eruttivo, né l'indicazione cartografica della Tabula Peutingeriana, né le tarde testimonianze di Floro (i, 11, 6) e di Martino Monaco (Borgia, Mem. stor., i, 340) sono tali da giustificare l'ipotesi, per alcun tempo vivacemente sostenuta, di una rinascita di Pompei. Le provvidenze che a detta di Svetonio (Vita Titi, viii, 31) e di Dione Cassio (66, 24, 3) sarebbero state prese da Tito a favore delle città colpite dall'eruzione (bona oppressorum in Vesuvio, quorum heredes non extabant, restitutioni afflictarum civitatium attribuit), debbono essere intese più in rapporto alle località meno colpite ed agli abitanti superstiti, che ai veri centri del parossismo vesuviano. Infine l'argomento tratto da Petronio (Coena Trimal., 53, 5) sugli horti pompeiani, è invocato solo da coloro che pongono il Satyricon al II o al III secolo dell'Impero (v. petronio).

4. Lo scavo. - Pressoché dimenticata nella tradizione medievale (secondo Martino monaco sul luogo di una urbs Pompeia Campaniae nunc deserta si sarebbe accampato nell'838 Sicardo principe di Benevento) e nella tradizione umanistica (poetica finzione è la visione che dà il Sannazzaro nell'Arcadia, xii, 141), confusa dai primi scavatori con Stabiae, la prima segnalazione delle sue rovine si deve allo scavo d'un canale di derivazione dal Sarno ai mulini di Torre Annunziata, aperto dall'architetto Fontana attraverso la collina della Civita (1595-1600); ma nonostante che una delle iscrizioni allora rinvenute recasse la dedica a Venus Phisica pompeiana, ciò non valse a togliere dubbi ed errori sull'identificazione della città. Lo scavo della città ebbe inizio nel marzo-aprile 1748 sotto il regno di Carlo di Borbone, dieci anni dopo l'inizio degli scavi di Ercolano, quando l'ing. Alcubierre, ispezionando il canale del Fontana, ebbe notizia delle molte scoperte che vi si facevano. Ma trascorsero alcuni anni prima che nuove scoperte ed iscrizioni rivelassero la presenza e il vero nome della città (1763, iscrizione di Suedio Clemente). Oltre due secoli di scavo pressoché ininterrotto attraverso generazioni di dirigenti e di maestranze, mutamenti di indirizzo e di finalità di ricerca, di rimozione o di conservazione sopralluogo, di metodi e mezzi di protezione e di restauro, fanno del disseppellimento di P. uno dei più complessi e istruttivi esempî dello scavo di una città antica, e uno dei più ardui soprattutto da quando, per conservare alla casa la sua decorazione parietale e musiva, pareti dipinte e mosaici si lasciano sopralluogo con quelle misure di protezione che è possibile adottare.

Attraverso le piante che se ne eseguirono in varî tempi si può seguire lo sviluppo topografico e cronologico di oltre due secoli di scavo, dal 1748 ad oggi. I primi scavi ebbero inizio alle due opposte estremità dell'abitato, a S-E dell'anfiteatro (1748) nella cosiddetta Villa di Giulia Felice (1755-57), nella zona dei teatri (1766-94) e nel tempio d'Iside (1764-66); a N-O nella Villa di Diomede (1771-74), nei primi sepolcri della Via delle Tombe (17631770), a Porta Ercolano (1763-64) e, all'interno della città, nel quartiere dell'insula occidentale (1763-1808) e della cosiddetta Via Consolare (1780-1812). Si toccò la Porta di Nola come estremo punto orientale, ma i due tronconi stenteranno per lungo tempo a riunirsi e lo scavo anziché procedere da ponente verso oriente lungo l'asse del decumano superiore (Via di Nola), procedette da N verso S lungo l'asse dei cardines. Si scava il Foro con i suoi monumenti (1813-23) e si delimita il perimetro della città (principale frutto del fervido periodo murattiano); si apre a O la Porta Marina (1845) e si raggiunge a S la Porta di Stabia (1851-52) e con la scoperta delle Terme Stabiane (1857-61) si chiude il periodo degli scavi borbonici. Dopo il riordinamento del Fiorelli, inteso a togliere ogni saltuarietà e discontinuità alla condotta dello scavo (e che dette un numero alle insulae e alle case e iniziò la nomenclatura stradale), la scoperta delle Terme Centrali (1877-78) e della Casa del Centenario (1879) segna una ripresa dell'avanzata verso E; ma nel ventennio successivo un vigoroso impulso si ha nei quartieri settentrionali (Regioni VI e V) con lo scavo della Casa dei Vettii (1894-95), delle Nozze d'Argento (1893), degli Amorini Dorati (1903-05), procedendosi, al tempo stesso, alla sistematica esplorazione delle case della Regione VIII lungo il fronte meridionale. In questo stesso periodo fortuiti e fortunati scavi privati esplorano l'area suburbana del porto di Pompei (scavo Matrone, 1899-1901) e mettono in luce numerose ville rustiche e signorili dell'agro pompeiano, tra le quali il primo nucleo della Villa dei Misteri (Villa Item: 1910).

Con il 1912 lo scavo si trasporta dal decumano superiore della Via di Nola al decumano inferiore della Via dell'Abbondanza per collegare, attraverso una via di gran traffico, il quartiere dei teatri all'anfiteatro. Lo scavo, limitato nel primo decennio (1912-22) al fronte stradale e agli edifici più importanti, viene successivamente ampliato all'intera regione I e II a S di Via dell'Abbondanza (1924-61), mettendo in luce il grande edificio della palestra romana a fianco all'anfiteatro, e importanti abitazioni (Casa del Menandro, Casa di Giulia Felice). In questo ultimo decennio (1950-60) di particolare importanza è stato lo sgombero dei cumuli dei vecchi scarichi di scavo addossati alle mura della fortificazione, ricavandosi da tale sgombero nuovi elementi essenziali per la topografia e i monumenti della città: la scoperta di Porta Nocera che con il suo cardo viene a costituire ormai il centro urbanistico del quartiere S-E; la scoperta, lungo la via di Nocera di una necropoli non meno ricca e imponente di quella di Porta Ercolano, d'un quartiere extramurale a ponente di Porta Marina e lungo il primo tratto, non dissepolto, dell'insula occidentale. Inoltre il suburbio di P. ha dato un santuario di un'associazione dionisiaca e una villa signorile (contrada Murecine) con la scoperta di un archivio di tabulae ceratae per numero e interesse non inferiore a quello scoperto nel 1874 nella Casa di Cecilio Giocondo. Infine esplorazioni stratigrafiche sono state compiute nella fortificazione, negli edifici del Foro, nel tempio greco e di Apollo, e in più abitazioni, al fine di chiarire meglio i più oscuri problemi connessi con le origini e lo sviluppo storico e edilizio della città.

C) Impianto e sviluppo urbanstico. - 1. La città. - a) Formazione. A differenza di Neapolis (v. napoli) e di Ercolano (v.), la pianta di P. non segue un unico asse di orientamento; sono invece in essa riconoscibili tre diversi nuclei: a) un nucleo primitivo osco intorno alla piazza del Foro con insulae a pianta quadrangolare (v. insula) e vie ad andamento curvilineo (Vicolo Storto, Strada degli Augustali, primo tratto della Via dell'Abbondanza); b) il quartiere a N del Foro (Regio VI) a insulae strette e allungate e con una rete stradale rigorosamente ortogonale; c) il quartiere a oriente della Via di Stabia che comprende il maggiore agglomerato urbano con un diverso orientamento della rete stradale, saldato ai precedenti nuclei con insulae a pianta irregolare. È innegabile peraltro che, come hanno dimostrato recenti scavi, non si tratta di ampliamento della cinta, ma d'una graduale sistemazione urbanistica, perché il muro di cinta conserva fino alla sua estremità orientale (presso l'Anfiteatro), le tracce della sua primitiva costruzione in tufoide tenero del periodo presannitico.

Riconosciuti i tre nuclei, i dissensi si fanno più gravi quando se ne vogliono determinare le rispettive influenze etniche. Alla tesi della grecità del primitivo impianto (von Duhn) basata sulla presenza del tempio greco arcaico sulla terrazza del Foro triangolare ritenuta acropoli della città, si oppone la tesi della etruscità (Patroni, Sogliano) basata sulla dominazione dei Tyrrhenòi (Strabo, v, 247) e su testimonianze archeologiche non altrettanto valide (la cosiddetta colonna etrusca, la casa ad atrio), mentre è in contrasto col riconoscimento della primitiva borgata osca intorno alla piazza del mercato (Haverfield). La scoperta di alcune iscrizioni dedicatorie etrusche nel tempio di Apollo e il riesame delle vicende storiche della Campania del VI e V sec. a cui P. non poté sottrarsi, inducono ad ammettere (v. sopra, B 1) che, prima della conquista sannitica (anno 425), P. fu sottoposta all'alterna vicenda dell'egemonia greca ed etrusca interrotta quest'ultima dal crollo della talassocrazia etrusca (battaglia di Cuma nel 474). Alla luce di questi avvenimenti è forza valutare la più duratura e profonda influenza che i Greci ebbero sulla P. presannitica attestata soprattutto dal tempio greco arcaico, dalla prima introduzione del culto di Apollo, dalla costruzione della prima grande cinta murale a doppia cortina e, infine, dall'impianto di tipo schiettamente ippodameo (v. ippodamo) della Regio VI (che alcuni studiosi vorrebbero invece attribuire, in base ai nomi gentilizi che vi ricorrono, ad influenza etrusca). Meno chiare sono invece le sopravvivenze originarie etrusche da non confondere con il comune linguaggio delle forme etrusco-italiche o semplicemente italiche (la cosiddetta colonna etrusca, i pilastri sagomati dell'officina coriariorum, il presunto tempio etrusco del Foro).

Tutta la rete stradale (decumani e cardines maggiori e secondarî) rispecchia fedelmente il piano regolatore nella sua regolarità e nelle sue anomalie. Un'iscrizione osca (Conway, 39) attesta che fin dal periodo sannitico gli edili in carica attesero, su decreto del meddix, alla delimitazione e alla regolamentazione della circolazione stradale per pedoni e bestie da soma e ci dà i nomi di tre strade urbane: la via Pumpaiana, la via Iovia e la via decurialis (dehviariis); mentre un iscrizione latina (C.I.L., x, 1064) ci dà notizia della sistemazione che i duoviri della colonia romana avrebbero fatto, a proprie spese, d'un tratto della rete stradale extraurbana (a miliario ad cisiarios). Ma la pavimentazione in poligoni di dura pietra trachitica vesuviana si ebbe per influenza di Roma, e verosimilmente delle colonie e municipî della Campania (Cales, Capua), non prima, forse, dell'età cesariana.

Non tutto peraltro venne pavimentato: non poche strade minori vennero lasciate in terreno battuto così come erano le vie della città sannitica e com'era, prima della pavimentazione in grandi lastroni di calcare, la stessa piazza del Foro. L'uso di grossi pietroni di attraversamento da marciapiede a marciapiede in corrispondenza dei bivi e quadrivi, così tipico di P., non si deve solo all'altezza a volte notevole dei marciapiedi, ma alla mancanza di fogne sottostradali che smaltissero le acque di superficie. Infine i solchi scavati profondamente nella pavimentazione di alcune strade, non tutte suscettibili di una doppia carreggiata, i cippi che sbarravano l'ingresso al Foro, il cancello che chiudeva una delle principali vie d'accesso all'anfiteatro (oltre ai cancelli degli itinera privata), indicano chiaramente che il traffico ubbidiva a una rigorosa disciplina della circolazione stradale. Mentre le vie sboccano al loro incrocio in più o meno ampi quadrivi (compita), "quadrivio d'Orfeo", "quadrivio d'Olconio", tre sole grandi aree scoperte sono apparse finora nell'area dissepolta in funzione di piazza o di pubblico luogo di convegno: il cosiddetto Foro civile, nel settore occidentale, il cosiddetto Foro triangolare nel settore meridionale, la Piazza dell'Anfiteatro nel settore orientale.

b) Pieno sviluppo. - P. raggiunse il suo pieno sviluppo urbanistico nell'età sannitica e il suo maggiore, e non ancora ben valutato interesse, è da vedere soprattutto nella sua schietta impronta di città italica, anche quando assimilò e rielaborò così intensamente le influenze dell'architettura e dell'urbanistica ellenistica. Oltre alla massima espansione dell'abitato entro la cerchia delle mura, e allo sviluppo della rete stradale nella città e nel suburbio, nell'età sannitica si formarono o si perfezionarono i nuclei essenziali della vita pubblica: la Piazza del Foro con il suo nuovo orientamento e la corona di portici, il Foro cosiddetto "triangolare" che con il maggior teatro e il quadriportico s'ispira alle scenografie architettoniche delle grandi città ellenistiche; alcuni monumenti di particolare rilievo quali la Basilica, la Palestra sannitica, connessa verosimilmente per le esercitazioni efebiche al portico del Foro triangolare, le Terme Stabiane e le case ad atrio del gran patriziato con i loro severi portali a capitelli cubici, distribuite nei quartieri più periferici dell'abitato e, infine, la poderosa fortificazione con le porte e le torri che nelle sue successive trasformazioni fino all'assedio e alla capitolazione, è la più eloquente testimonianza della dinamica vitalità del comune sannitico. Né il rigoglio che ebbe P. nell'età romana alterò minimamente il suo già maturo e compiuto tessuto urbanistico; le stesse grandi opere pubbliche della colonia sillana non fecero che innestarsi e saldarsi al precedente tessuto edilizio: l'Odèon alla stupenda compagine del Foro triangolare, l'Anfiteatro in un'area che doveva già essere riservata a spettacoli d'arena, le Terme del Foro alla vecchia e solo rinnovata piazza del mercato. L'età giulio-claudia se segnò ricchezza e decoro nelle private abitazioni urbane e suburbane, non fece sorgere che il nuovo edificio della Palestra accanto all'Anfiteatro, il Macellum (mercato) nel Foro e, per privata munificenza, l'Edificio di Eumachia, il tempio della Fortuna Augusta e probabilmente il cosiddetto tempio di Vespasiano; né dalle rovine del terremoto si ebbero radicali mutamenti e orientamenti urbanistici, ad eccezione del nuovo edificio termale delle Terme Centrali rimasto incompiuto.

c) Quartieri e vie. - Che la città fosse divisa in quartieri fin dall'età sannitica si può ricavare dai pochi nomi dati a vie, porte e torri conservati nelle iscrizioni osche e soprattutto negli avvisi stradali contenuti nel gruppo delle iscrizioni eituns; che una tale divisione si avesse nell'età romana si ricava più sicuramente dalle iscrizioni dei magistri vici et compiti che venivano periodicamente eletti per il culto dei Lari compitali e la celebrazione delle feste rionali, e dai programmi elettorali in cui tra i roganti figurano i Salinienses, i Gampanienses, gli Urbulanenses, i Forenses intesi più come abitanti dei rispettivi vici della città, che quali nomi di associazioni professionali: e indubbiamente gli Urbulanenses vanno connessi al quartiere della Porta Urbulana (Porta di Nola secondo lo Sgobbo; Porta di Sarno secondo lo Spano); e i Salinienses con gli abitanti del quartiere della Porta Salis (Porta Ercolano) o del pagus Saliniensis (secondo Della Corte).

L'attuale divisione in IX Regioni fatta dal Fiorelli in base all'intersecazione dei due decumani (Via di Nola e Via dell'Abbondanza) con i due cardines (Via di Stabia e Via di Nocera), è arbitraria; ma ad essa si conforma la numerazione degli edifici e delle case della città, invalsa e ormai comunemente accettata nella letteratura pompeiana.

2. I pagi. - La natura del territorio e i diversi interessi marittimi e terrestri che aveva P. nel suo immediato suburbio e nel suo agro, dovette favorire ben presto la formazione di pagi suburbani con le loro particolari istituzioni e i loro magistri e ministri di amministrazione civile e religiosa. Tra i primi a sorgere dovettero essere il pagus maritimus presso il porto fluviale, e di cui peraltro non conosciamo il nome e che doveva essere dedicato ad Ercole o a Nettuno. Documentato epigraficamente è invece il pagus Augustus Felix suburbanus (C.I.L., x, 853) o semplicemente pagus Felix suburbanus, che nella sua denominazione rivela il duplice patrocinio del dittatore Silla e di Augusto: viene verosimilmente collocato a N della città (presso la borgata Civita Giuliana). Meno probabili sono le identificazioni dei pagi Saliniensis, Campanus, Urbulanus desunti da programmi elettorali (Sogliano, Della Corte) che per altri studiosi (Sgobbo, Spano) sono invece nomi di abitanti dei quartieri urbani.

3. L'approvvigionamento idrico. - In un terreno vulcanico, privo di sorgenti, all'approvvigionamento idrico si provvide prima con la raccolta delle acque pluviali dai tetti compluviati nelle cisterne e con la perforazione dei pozzi fino al livello della falda freatica e, infine, nell'età romana, con la derivazione dell'acquedotto augusteo del Senno, che sboccava nel castellum aquae presso Porta Vesuvio con la sua triplice tubazione destinata alle terme, alle fontane pubbliche e alle più ricche abitazioni dove l'acqua diventava anche elemento di ornamento di giardini e di ninfei. Pilastri elevatori, distribuiti nei vari quartieri all'incrocio delle strade e generalmente in prossimità delle fontane, regolavano l'erogazione pubblica e privata. Della rete urbana, danneggiata anch'essa dal terremoto, si stavano rinnovando al momento dell'eruzione le maggiori tubazioni, ma non pochi edifici pubblici (Terme, Palestra, ecc.) erano ancora privi della necessaria alimentazione idrica. La distribuzione delle fontane, all'incrocio delle vie, risponde ai più razionali sistemi urbanistici; sono generalmente costituite da un semplice bacino squadrato in lastroni di pietra vesuviana, più raramente in travertino o in marmo, con la bocca di emissione contrassegnata da un emblema figurato in cui si può vedere o l'emblema del quartiere o del magistrato costruttore o donatore; mancano del tutto grandiose fontane e ninfei pubblici di carattere monumentale. Limitata era invece la rete delle fogne sottostradali per il convogliamento delle acque scorrenti in superficie; allo smaltimento delle acque luride delle case erano generalmente destinati pozzi assorbenti; canalizzate erano invece le pubbliche foriche (latrine) del Foro, delle Terme e della grande Palestra.

4. Materiali e strutture. - Con l'eccezionale conservazione e la brusca interruzione del suo sviluppo edilizio, P. offre il quadro più organico e più compiuto che si possa avere dello sviluppo delle strutture in una città antica. Istruttivo soprattutto per il periodo preromano, ma non meno interessante per i suoi particolari aspetti nell'età romana tanto che, in mancanza di precise testimonianze storiche, il carattere delle strutture e delle loro tecniche offre la documentazione più completa dello sviluppo della città in correlazione con gli avvenimenti politici e le convulsioni sismiche a cui fu esposta.

Primo ad essere usato fu il materiale di superficie di origine vulcanica raccolto nell'area stessa dell'abitato: la lava tenera o schiuma di lava, le scorie e le pomici di deiezione (il pumex pompeianus di Vitruvio), il banco di cenere indurito in forma di tufoide nero (pappamonte) e, negli strati del sottosuolo, la lava dura trachitica e il tufo giallo rossiccio. Al di fuori dell'area della città, buon materiale offrirono i banchi alluvionali di conglomerato sedimentario del fiume Sarno (chiamato impropriamente "calcare"), scabro e poroso, atto ad essere tagliato e squadrato in blocchi (capitelli del tempio greco arcaico) e successivamente fu soprattutto il tufo vulcanico delle cave della non lontana Nocera, di color grigio od olivigno (niger tofus), di grana compatta e facile lavorazione, a prevalere nelle strutture e nelle membrature architettoniche. Così pietra di Sarno e tufo di Nocera furono i materiali che contrassegnarono nell'opera quadrata (v. muraria, arte) i periodi più antichi e fiorenti della P. sannitica (periodo calcareo, periodo del tufo); tipico soprattutto del periodo paleosannitico è l'impiego della pietra di Sarno in lastroni verticali e orizzontali, a croce e a catena, quale si ha nei cosiddetti atri calcarei, dove il più antico materiale di legamento è il loto o l'argilla. L'uso della calce che ebbe in Campania l'applicazione più rapida grazie alla sua miscela con la pozzolana (pulvis puteolanus), associò la tecnica dell'opus incertum prima alle strutture in calcare e tufo e poi alle tecniche più tipicamente romane dell'opera a sacco e dell'opera reticolata. Prevalente diventerà infine nell'età imperiale l'opera testacea, composta esclusivamente di tegole smarginate ed arrotate, trovando il materiale residuato utile e largo impiego nell'opus signinum per rivestire pavimenti, cisterne e pareti esposte all'umidità. Il travertino (più esattamente il calcare appenninico) usato, fin dall'età preromana, nelle soglie delle case, negli impluvi, nei trapezofori, nelle iscrizioni, nella mensa ponderaria, ebbe più largo impiego nell'età romana nella pavimentazione e nell'ultimo colonnato del Foro, nel rivestimento del basamento del tempio della Fortuna Augusta, nell'ara del tempio di Apollo. Il marmo, oltre alle sculture e ai rilievi e a qualche oggetto di particolare pregio (labrum del Foro triangolare, trapezofori e puteali) è parcamente usato quale materiale di rivestimento d'impluvi e di zoccolature di bacini, di ninfei e di fontane e ancora più raramente nelle membrature architettoniche (portico del Macellum, pilastri del peristilio di Giulia Felice): l'uso infine di marmi policromi nei pavimenti, negli emblemata, nelle zoccolature è privilegio delle case e delle ville signorili negli ambienti di ricevimento e di maggior lusso.

5. La fortificazione. - La fortificazione segue il ciglio della collina per un perimetro di 3.220 m; conservata integralmente lungo i lati di N, di E e di S-E (fino a Porta di Stabia), venne demolita o incorporata dalle case dei quartieri sud-occidentale (tra il Foro triangolare e Porta Marina) e occidentale (insula occidentalis), nel loro ampliarsi e distendersi oltre il ciglio lungo le pendici del colle; bastioni o semplici contrafforti in corrispondenza delle porte ne costituirono i salienti. Per la diversità dei materiali e delle strutture e per il duplice impiego del sistema greco e italico, costituisce uno dei più compiuti esempî dell'arte fortificatoria nell'Italia meridionale e una delle più chiare testimonianze della storia politica della città (v. mura).

Pochi avanzi restano delle primitive mura in tufoide tenero del periodo osco (VI sec.); comunque essi attestano che il loro perimetro già seguiva quello della fortificazione posteriore. Segue la prima grande cinta a doppia cortina a grandi lastroni quadrangolari in pietra di Sarno d'età presannitica, senza aggere di rincalzo e di chiara influenza greca (474-430 a. C.); parzialmente demolita e rifatta nel primo periodo sannitico, venne sostituita da una più alta cortina esterna anch'essa in pietra di Sarno e in opera quadrata addossata ad un aggere di terra di tipo italico; successivamente la cinta venne rafforzata da una cortina interna pilastrata in blocchi di tufo con un più largo aggere di rincalzo (300-180 a. C.); infine nel quarto e ultimo periodo anteriore alla guerra sociale vennero inserite, a intervalli più o meno regolari, 12 torri quadrangolari a cavaliere della cortina con accesso dal pomerio interno e dal cammino di ronda, e all'opera quadrata di bell'apparecchio isodomo in pietra sarnense e in tufo, si sostituì, nei restauri e nei punti più vulnerabili, il conglomerato cementizio di struttura monolitica meglio atto a resistere all'impiego delle nuove macchine poliorcetiche. In quest'ultima fase affrontò P. l'assedio e l'espugnazione di Silla e di quei drammatici eventi fanno fede le iscrizioni viarie in lingua osca (le cosiddette iscrizioni eituns) che, dipinte agli angoli degli incroci stradali, avviavano le scolte e le torme dei difensori verso i varî settori della fortificazione. Le modifiche apportate nell'età romana si limitarono a rendere più trafficabili alcune porte (Porta Ercolano, Porta Marina) o, come s'è detto, a occupare la linea delle mura con case signorili nei punti più panoramici: abbattuta la Porta Vesuvio dal terremoto dell'anno 62, non venne più ricostruita.

6. Il Foro. - Eccentrica rispetto all'abitato, la piazza del Foro fu il naturale centro del primitivo nucleo della borgata osca e tale restò nello sviluppo urbanistico della città sannitica e romana, non solo per le favorevoli condizioni del terreno pianeggiante, ma soprattutto perché il Foro veniva ad essere il più diretto ed immediato sbocco delle vie dal fiume e dal mare. Nato come un'erbosa piazza di mercato con rustiche tabernae (scoperte lungo l'ambulacro orientale) disposto intorno ad una semplice ara di culto a cielo aperto, venne gradatamente ad assumere, con portici ed edifici religiosi e civili, l'aspetto grandioso che il seppellimento ci ha rivelato, senza peraltro perdere, entro la cornice dei lunghi porticati, prima in tufo, poi in travertino e parzialmente in marmo, quel che, stando al canone vitruviano (v, 1) per il suo rapporto tra misure di lunghezza e di larghezza (m 142 × 38), ne costituiva il carattere specifico di Foro italico.

Esemplare è l'organica distribuzione dei suoi edifici; ai due lati opposti e minori della piazza sono il tempio del Capitolium e le sale della Curia, quasi a contrapporre potestà divina e potestà terrena; e due minori santuarî, il sacello dei Lari pubblici ed il cosiddetto tempio di Vespasiano, integravano il culto alle divinità protettrici della città e al patrocinio imperiale.

Completa era la serie degli edifici civili: il Comitium per le elezioni annuali dei magistrati della colonia; il Suggestum per le pubbliche concioni; la Basilica per le vertenze giudiziarie; il mercato coperto (Macellum), il Foro olitorio e la mensa ponderaria con la sua duplice iscrizione osca e latina, per la vendita ed il controllo delle misure di mercato; l'Edificio di Eumachia che riassumeva, sotto il patrocinio di una donna, l'industria più attiva della città (della lana e dei fullones) e, infine, costruiti negli ultimi anni, l'Aerarium seminterrato nel terreno ed una pubblica forica. I due archi trionfali che, ai lati del tempio, davano l'accesso alla piazza, privi della loro decorazione marmorea e delle iscrizioni commemorative, sono in via ipotetica attribuiti a Germanico e a Druso; ma verosimilmente era a quegli archi anche affidato il disimpegno di alcuni servizi essenziali, quali l'alimentazione idrica dei viandanti e dei frequentatori del Foro e, a quanto pare, l'impianto di un orologio idraulico. La vasta area scoperta rese necessaria un'adeguata fogna sottostradale che, correndo sotto il marciapiede, riversava le acque piovane in ampie cisterne e da queste le scaricava al di fuori della città. Un loggiato accessibile da più scale lungo il portico occidentale doveva servire, secondo le norme che si davano per i Fori italici, ad uso di taberne o di loggia per quegli spettacoli gladiatorî che talvolta si davano nella piazza del mercato (C.I.L., x, 1071; anno 2-3 d. C.). Scavi recenti hanno messo in luce le più antiche fasi del Foro, dimostrando del tutto errata l'ipotesi di un successivo graduale ampliamento verso il lato meridionale (Sogliano): di capitale importanza la scoperta di 7 tabernae nel chalcidicum di Eumachia di età paleosannitica e sannitica, delle varie pavimentazioni in battuto, in tufo e in calcare e, infine, della diversa orientazione che subì l'asse della piazza con l'impianto del primitivo tempio italico e del portico in tufo. Sulla più antica pavimentazione in lastroni di travertino, in corso di rinnovamento nel settore meridionale, si conservano quattro sole mutile lettere in caratteri di bronzo o di piombo pertinenti all'iscrizione commemorativa che, al pari di altri Fori italici, era stata incisa sul pavimento della piazza.

Manca purtroppo a P. nel suo aspetto odierno, quel che ne formava il maggiore decoro: le statue in bronzo e in marmo togate o equestri degli imperatori, dei patroni, dei cittadini insigni e benemeriti. Due sole basi conservano le iscrizioni onorarie; tutto il resto fu distrutto dal terremoto del 62. La maggior parte delle basi restarono spoglie delle loro iscrizioni e la sola opera d'arte rinvenuta nelle vicinanze è la statua equestre raccolta in frammenti sotto il cosiddetto Arco di Caligola.

7. Edilizia pubblica. - a) I templi. Nei templi non si rispecchiano solo i culti, ma anche la storia politica della città.

Del tempio greco arcaico piantato sul promontorio trachitico d'una colata lavica, quasi a vedetta della valle e del porto, non restano che miseri avanzi; ma la pianta, lo stereobate, i capitelli superstiti e la copiosa decorazione fittile ricuperata in recenti esplorazioni, consentono di riconoscere un tempio eptastilo, della metà del VI sec., dedicato originariamente ad Eracle; rinnovato successivamente nel periodo sannitico con l'aggiunta di propilei, di un portico che ne delimitava l'area sacra e di un monoptero intorno al puteale del santuario, venne il culto di Ercole associato a quello di Minerva; la distruzione e la limitazione, se non l'abbandono, del culto si debbono verosimilmente al terremoto del 62. Il tempio di Apollo, ad occidente, ma con un'orientazione alquanto diversa di quella dell'ultima sistemazione del Foro, racchiuso anch'esso nel peribolo di un portico, è un tempio periptero a podio d'età sannitica di forme italiche ed ellenistiche, rinnovato in età romana repubblicana e imperiale; ma nella stipe e nelle terrecotte architettoniche che vi si sono raccolte rivela la preesistenza di un più antico culto d'Apollo (VI-V sec.) introdotto dai Greci di Cuma e sopravvissuto nel periodo intermedio dell'influenza etrusca (525-474 a. C.), come attestano alcune ciotole di bucchero con resti di iscrizioni dedicatorie.

Il tempio di Giove e della Triade capitolina nel Foro, ad alto podio con ampia cella columnata e profondo pronao con eleganti colonne corinzie in tufo, venne fin dall'inizio della colonia impiantato su un preesistente tempio italico non anteriore al II sec. a. C., coevo cioè della nuova orientazione del Foro, rinnovato nell'età claudia (ampliato l'altare per il collocamento di maggiori statue delle divinità), venne colpito gravemente dal terremoto (il rilievo del Larario di Cecilio Giocondo ne raffigura il prospetto crollante sotto l'urto sismico), era ancora in stato di rovina al momento dell'eruzione: il torso gigantesco di Giove che si rinvenne nella cella serbava la consacrazione del luogo come per altri templi pompeiani danneggiati e non restaurati.

Il tempietto di Zeus Meilìchios sulla Via di Stabia nel quartiere dei teatri, documentato da un'iscrizione osca (Kaila Ioveis Meilichieis), si deve verosimilmente all'introduzione di quel culto ctonio dalla Magna Grecia o dalla Sicilia: la grande ara ai piedi dell'edicola è ancora ispirata alle forme delle are ellenistiche. Il tempio della Fortuna Augusta (anno 2-3 d. C.) eretto da Marco Tullio su suolo privato e quello di Vespasiano lungo il lato orientale del Foro, sono legati al culto della casa imperiale professato da associazioni di Augustali. Forma inconsueta ha il santuario dei Lari pubblici con la sua area scoperta e una grande abside al fondo, dedicato probabilmente dopo il terremoto con una cerimonia di espiazione e di propiziazione. Infine il tempio d'Iside, chiuso fra alte mura, deve l'eccezionalità della conservazione delle sue strutture, della sua decorazione e dei suoi arredi, al restauro che se ne fece negli ultimi anni di P. a spese e cura di un adolescente, Numerio Popidio Celsino, al quale la tutela dei genitori voleva assicurare il patrocinio di Iside e il favore dei molti isiaci pompeiani. Le strutture del tempio permettono peraltro di farne risalire la fondazione al I sec. a. C. Non mancavano sacelli e santuarî nel suburbio; e se di un'aedes Neptuni, nella zona dell'antico lido, non resta che una testimonianza epigrafica (C.I.L., x, 8157), d'un sacello sacro al culto delle divinità dionisiache da parte di un'associazione, si son trovati nel 1944 gli avanzi risalenti all'età sannitica e rinnovati nell'età romana, importante testimonianza della tolleranza che si aveva della professione di quel culto nell'area suburbana.

Ultimo ad essere identificato fu il tempio della Venere pompeiana, protettrice della città, erroneamente per gran tempo attribuita al culto di Apollo; trovasi invero sull'estrema terrazza sud-occidentale quasi volutamente contrapposto alla terrazza sud-orientale del tempio greco. Il culto risale indubbiamente ad una divinità naturistica italica (da ciò forse l'epiteto di Fisica), ma poiché le più antiche strutture del santuario non risalgono oltre l'età della colonia, alla Venere sillana si attribuisce l'introduzione ufficiale del culto attestato anche dal nome che assunse la colonia di Veneria felix. Il tempio repubblicano era al momento dell'eruzione in completa fase di rinnovamento e di ampliamento; l'allargamento artificiale della terrazza con robuste arcate di sostegno verso il fronte meridionale, l'ampliamento del recinto esteso fin sul marciapiede della Via Marina, la costruzione appena iniziata del podio, i grandi blocchi di trachite tratti, sembra, dal vulcano di Roccamonfina, provano che il progetto di rifacimento era grandioso e che le nuove fortune della città si volevano affidare alla sicura protezione della dea.

b) Edifici civili, terme. - Monumenti più importanti presenta l'architettura civile, tali da costituire per la loro età e il loro particolare sviluppo, dati fondamentali nell'architettura romana.

La Basilica che si innalza all'angolo sud-occidentale del Foro, con il suo terminus ante quem del 78 a. C. (C.I.L., iv, 1842) e la sua fondazione riferibile, in base alle ultime esplorazioni, alla metà del II sec. a. C., rappresenta il primo anello nella serie degli edifici basilicali in Italia. A pianta rettangolare (m 55 × 24 m), preceduta da un chalcidicum con il tribunal elevato su podio al fondo come una sala prostila, è ripartita in tre navate a semicolonne e colonne delle quali quella centrale, coperta anch'essa da tetto e sopraelevata al di sopra delle navate minori, poteva diffondere da finestre laterali, a guisa degli oeci aegyptii, la luce dall'alto; la decorazione delle pareti e delle semicolonne era a stucco e pittura del I stile. Mentre il tribunal, in parte ricomposto con elementi superstiti, è uno degli esempî più rari dell'architettura ellenistica in Campania, il chalcidicum allineandosi, con i suoi severi pilastri sagomati in tufo di Nocera, con l'ambulacro del Foro si conserva fedele alle forme e ai moduli dell'architettura sannitica: nel suo complesso è la più chiara testimonianza della civile prosperità cui era giunta P. nell'età preromana poco prima della guerra sociale che doveva segnare la fine del comune italico.

Non meno istruttiva è l'architettura termale che con i suoi tre edifici rappresenta non solo tre diversi momenti dell'edilizia pompeiana, ma è di grande aiuto a ben intendere, attraverso le prime esperienze e i graduali perfezionamenti della conduzione del calore, il grandioso sviluppo dell'architettura imperiale romana. Trattasi comunque di architettura interna e funzionale, perché i prospetti esterni di tutte e tre le terme sono costituiti da una serie di tabernae il cui provento di locazione era destinato alle spese di manutenzione e di funzionamento.

Le Terme Stabiane, il più grande e vetusto impianto termale della città, occupano, all'incrocio del decumano inferiore con il cardine massimo, uno dei centri più vitali dell'abitato, a breve distanza dal quartiere dei teatri. In un'area trapezoidale, contornata da tre strade con più vani d'accesso, erano razionalmente disposte le due sezioni del bagno maschile e femminile sul lato orientale con il prefurnio al centro, la palestra maschile con la natatio bene assolata e fiancheggiata da portici, i servizi igienici e idraulici sul lato settentrionale. Nonostante i molti rifacimenti, le ultime decorazioni a stucco e pittura di alcuni ambienti, e i non finiti restauri, non poche testimonianze si hanno dei precedenti periodi: i bei portali d'ingresso finemente sagomati in tufo di Nocera, il modulo originario delle colonne del portico della Palestra appesantite dal più tardo rivestimento a stucco; un primitivo impianto balneare in alcune celle del lato settentrionale; un orologio solare con iscrizione osca del questore Maras Atiniis (Conway, 43), l'iscrizione dei duoviri Gaio Uulio e Publio Atinio in cui sono indicate le varie parti costruite o ricostruite della terma: cioè il laconicum, il destrictarium, la porticus e la palaestra: parti riconoscibili ad eccezione del laconicum forse sostituito dalla rotonda del frigidarium (C.I.L., x, 829).

Più piccole, ma meglio conservate, le Terme del Foro, all'incrocio del decumano superiore con la Via del Foro, rivelano nell'omogeneità delle strutture e dei materiali una costruzione dei primi anni della colonia. Identica la partizione in due settori, ma più forte appare il contrasto fra la sezione maschile e femminile, tanto da rendere necessaria, per l'angustia dello spazio, l'aggiunta di una tettoia all'ingresso del bagno muliebre. Non ancora compiutamente rinnovato e perfezionato ci appare l'impianto del riscaldamento: mentre infatti nella bella sala del calidario si hanno il pavimento sospeso e pareti e vòlte concamerate con il sistema delle tegole mammate e la vasca d'immersione riscaldata con l'ingegnoso sistema del clipeo vitruviano, nella sale del tepidario il riscaldamento era ottenuto con un grande braciere con sedili all'ingiro. I restauri dei danni del terremoto furono qui più solleciti che altrove, tanto da darci nella vòlta del tepidario uno dei più freschi esempî della decorazione a stucco e pittura degli ultimi anni della città.

Iniziate e non finite le terme Centrali all'incrocio superiore della Via di Nola con la Via di Stabia, rappresentano l'ultima evoluzione dell'architettura termale pompeiana e il loro adeguamento alle nuove terme metropolitane, non solo per la unicità del loro funzionamento ridotto alla sola sezione maschile, l'ampliamento della palestra, la sostituzione della rotonda del frigidarium con una vasca rettangolare, l'aggiunta del laconicum al tepidarium e il diretto allacciamento dell'alimentazione idrica all'acquedotto, ma soprattutto per l'apertura di grandi e spaziose finestre vetrate prospicienti sulla palestra, in modo da trasformare le oscure stanze delle vecchie terme in sale luminose e assolate e da far partecipare i bagnanti alle esercitazioni atletiche che si tenevano all'aria aperta.

Un altro edificio termale d'età repubblicana con carattere di una maggiore vetustà nelle suspensurae e nelle vasche da bagno, che rispondono al tipo del solium anziché alle comuni vasche d'immersione, in prossimità del Foro triangolare, venne in antico soppresso e non più ricostruito. Infine le terme di M. Crasso Frugi di acqua marina e di acqua dolce, documentate dall'iscrizione (G.I.L., x, 1063) rinvenuta presso Porta Ercolano, debbono riferirsi a una terma posta lungo il litorale presso l'antica Oplonti.

c) Teatri. - Conforme alle norme urbanistiche delle città ellenistiche e romane, troviamo a P. gli edifici destinati a pubblici spettacoli: i teatri appoggiati alla pendice meridionale della collina, l'anfiteatro alla periferia dell'abitato.

Il teatro, sorto non prima del II sec. a. C., verosimilmente dopo la seconda punica, ci è giunto rinnovato ed ampliato dall'architetto M. Artorius Primus (C.I.L., x, 841) nell'età di Augusto (G.I.L., x, 842), a cura e a spese dei fratelli M. Olconio Rufo e Celere della più schietta nobiltà pompeiana, con elementi desunti dall'architettura del teatro romano (C.I.L., x, 833-835, 838); la costruzione di una crypta per la sopraelevazione della summa cavea, dei tribunalia sulle pàrodoi, del theatrum, dei gradini cioè in marmo in luogo della vecchia gradinata in tufo; posteriore a questi restauri è la frons scaenae ricostruita verosimilmente dopo il terremoto. Ma le molte e diligenti esplorazioni condotte nelle strutture di fondazione permettono di seguire la graduale evoluzione dell'edificio sorto con la cavea a pàrodoi aperte; non prima del 1oo-8o a. C. si avrebbe avuta la scena stabile dello stesso tipo di quella di Segesta con i paraskenia obliqui e cinque porte; verso la metà del I sec. a. C., aboliti i paraskenia, si ebbe la frons scaenae rettilinea con decorazione di colonne e il logeion sopraelevato di almeno 2 m sul piano dell'orchestra, atto soprattutto alla rappresentazione delle atellane; infine nell'età repubblicana si ridusse il logeion a pulpitum e si approfondì il palcoscenico arretrando la frons scaenae e avanzando il proscenio con il canalis del sipario: seguì il rinnovamento dell'architetto Artorius e degli Olconi. Infine la scoperta nel 1906 di una vasca sotto il piano dell'orchestra fa supporre che, come nel teatro di Antiochia sull'Oronte, si avesse nel teatro di P. installazione di fontane e ninfei da attivare negli intervalli e connessi talvolta con la stessa azione scenica. Ad ogni modo fin dal suo primo impianto il teatro ebbe il suo grande quadriportico alle spalle della scena (porticus post scaenam) solo più tardi trasformato in caserma e ludo gladiatorio.

Costruito, non meno di un secolo dopo, ad opera dei duoviri Quinzio Valgo e M. Porcio nei primi anni della colonia l'Odèon venne organicamente a saldarsi al teatro e a collegarsi anch'esso all'area del quadriportico. Come dice chiaramente l'iscrizione (C.I.L., x, 844) l'Odèon era coperto (theatrum tectum) e, per rendere possibile una stabile copertura, si dovette restringere l'area entro un quadrato riducendo la curva e l'inclinazione delle gradinate in modo da consentire che robuste travature lignee con innesti e capriate, sostenessero il peso di un tetto displuviato. Anche nell'Odèon i tribunalia coprono i due fornici d'ingresso all'orchestra; ma le sculture dei telamoni che chiudono le testate dei cunei estremi della cavea, le decorazioni a zampe di grifo dei parapetti della precinzione fra la ima e la media cavea scolpiti vigorosamente in tufo, fanno dell'Odèon pompeiano uno dei più vicini ai modelli ellenistici del teatro siceliota. Immutata la scena nella sua schematica semplicità e con le intatte strutture del periodo sillano, ornata invece successivamente l'orchestra d'un opus sectile marmoreo con un'iscrizione in lettere di bronzo, mutilata, del duoviro M. Octilatius M. Verus (C.I.L., x, 845).

Al pari dell'Odèon, l'anfiteatro è uno degli edifici più omogenei e meglio databili di P.; l'iscrizione che ne commemora la costruzione (C.I.L., x, 852) ricorda la stessa munifica coppia di duoviri, il nome ancora vetusto di spectacula dato all'edificio e il dono che se ne fece in perpetuo alla colonia. In opus incertum e nel tipico quasi reticolato dell'età sillana, sono le strutture portanti delle arcuazioni esterne, delle pareti e delle vòlte degli ingressi e degli ambulacri; in blocchi di tufo le centine degli archi e le gradinate della cavea eseguite in più tempi con i contributi dei magistrati della città e dei pagi (C.I.L., x, 853-857). Non modificato e ampliato dai restauri di consolidamento che vi si apportarono dopo il terremoto, l'anfiteatro pompeiano per la sua vetustà rappresenta il più antico edificio dell'architettura anfiteatrale. Di sommo interesse è pertanto cogliere in esso le prime modalità del funzionamento delle arene: la mancanza di un portico esterno; le scale per la summa cavea appoggiate all'esterno e non ricavate nello spessore della cavea;la galleria superiore limitata ad una serie di palchetti e di porticine arcuate; l'ellisse della cavea costruita come una duplicazione della cavea di un teatro e, infine, la mancanza dei sotterranei dell'arena e l'essere pertanto riservata l'arena più a duelli gladiatori che a cacce di fiere richieste dalle grandi arene dell'età imperiale quali, nella stessa Campania, furono gli anfiteatri di Pozzuoli e di Capua. E poiché venationes si davano anche nell'anfiteatro di P. (se ne fa espressa menzione negli edicta munerum) con orsi, cinghiali e molossi, si dovette ricorrere all'espediente di tenere queste più domestiche belve in un vicino stabulum (cosiddetto Foro Boario) per poi immetterle nell'arena attraverso l'ingresso settentrionale diviso in due corridoi da una palizzata lignea. L'anfiteatro di P. ha nella serrata unità della sua costruzione e nel vibrante ritmo delle arcate esterne una monumentalità e una dinamica di movimento che non sempre si trova nella statica e trionfale magnificenza degli anfiteatri dell'età imperiale.

d) Palestre. - Oltre alle palestre delle terme, la palestra sannitica e la palestra romana mostrano quale importanza ebbero a P. le istituzioni giovanili ispirate ai monumenti ed alle istituzioni delle città ellenistiche; senza peraltro ricorrere ad influenze lontane, era la vicina Neapolis a offrirne i modelli con i suoi famosi gymnasia.

La palestra sannitica con la raccolta ed armoniosa eleganza del suo peristilio e con la presenza della bella replica del Doriforo, collocato in modo da poter ricevere corone ed offerte dai giovinetti atleti, è l'edificio che meglio documenta la profonda influenza del costume efebico sulla nobiltà sannitica; senza l'iscrizione osca (Conway, 42), che ricorda i nomi del fondatore testamentario e del questore esecutore, si sarebbe tentati di vedere più l'atto munifico di un evergete filelleno che la costruzione voluta da un patrizio sannita. Quando peraltro, con la ricostruzione del vicino tempio d'Iside, si mutilò la palestra del portico orientale, ciò avvenne perché nuove esigenze organizzative e sociali avevano reso pressoché inutile la piccola e aristocratica palestra preromana.

Diversa è la palestra romana sorta in età augustea, accanto all'Anfiteatro con la sua vasta area quadrangolare (m 142 × m 107) cintata all'esterno da alte mura con 8 porte, circondata all'interno da un triplice portico con doppio filare di platani ed una grande vasca di natatio al centro. Destinata a sede della iuventus pompeiana riorganizzata da Augusto, con la più larga partecipazione della cittadinanza, sotto il patronato di un princeps iuventutis, la palestra pompeiana, al pari di quella ercolanese, rappresenta il nuovo indirizzo dato da Augusto all'organizzazione della iuventus nelle colonie e nei municipî d'Italia. Ma dell'originario impianto augusteo resta solo il muro settentrionale abbattuto durante l'eruzione; tutto il resto del vasto perimetro e parte del portico, danneggiato dal terremoto, era in avanzata fase di restauro; ma la vita della palestra, priva della necessaria alimentazione idrica della vasca della natatio, era cessata e nella sua area si trovarono tracce dei lavori di cantiere e, entro la forica, i corpi dei fuggiaschi che vi si erano rifugiati.

8. Edilizia privata. - a) La casa. È la più preziosa documentazione che offre P., perché in nessun altro luogo del mondo antico, se si eccettuano, e in minore o diversa misura, Ercolano e Ostia, si ha una esemplificazione della casa antica così copiosa e completa nelle strutture, nella decorazione, nell'ambiente sociale ed economico quale presenta P. attraverso un'evoluzione che va dalla fine almeno del IV sec. a. C. all'anno del seppellimento: dalla casa sannitica dell'età calcarea e del tufo, alla casa dell'età repubblicana e imperiale; tale da cogliervi le influenze che vi apportò la casa ellenistica del mondo greco-italiota e il costume della società romana del I sec. dell'Impero. È peraltro da tener presente che la casa dell'età sannitica, anche nella sua fase più antica degli atri calcarei, rappresenta la fine e non l'inizio di un lento processo di sviluppo, e che inoltre le vicende politiche ed economiche, i mutamenti di gusto e di costume e un cataclisma sismico (62 d. C.), portarono a così frequenti parziali o radicali mutamenti da non essere sempre agevole distinguere i varî periodi di un'abitazione e risalire all'impianto originario.

Tipo fondamentale della casa a P. è la casa "ad atrio" nella disposizione assiale e ternaria delle stanze situate intorno all'atrio generalmente compluviato, con i quattro spioventi del tetto appoggiati su robuste travi maestre (atrio tuscanico) o, nella fase ellenistica, su quattro o più colonne (atrio tetrastilo o corinzio), riversanti le acque piovane nel bacino dell'impluvium e, da questo, nel deposito della cisterna con una bocca o un puteale di attingimento; raramente, e nelle abitazioni minori e più tarde, quando si poté far ricorso ad altre fonti di luce e di aerazione, il tetto è displuviato o testudinato. Destinato originariamente l'atrio ad accogliere il focolare (un focolare terragno quale si ha nell'atriolo del quartiere servile della Casa del Menandro) che esalava il fumo per l'apertura del tetto, sì da annerire le travi e le immagini dei Lari, centro della vita familiare era il tablinum, fiancheggiato dalle alae (riservate in origine ad archivio domestico, al culto degli antenati e a cella penaria), e integrato dai cubicula; alle spalle del tablino l'area disponibile, cintata alte mura, coltivata ad orto (hortus) e destinata a fornire il necessario per il frugale pasto domestico, costituiva il bene patrimoniale della famiglia (heredium) e segnava il legame fra la casa di campagna e la casa di città: disposizione centripetale e assiale e, negli schemi originarî, rigorosamente simmetrica. E quando il focolare si trasportò con i Lari nell'apposita culina, restano negli atri pompeiani le testimonianze di quell'uso patriarcale nel cartibulum, la mensa marmorea che, in forma più o meno lussuosa (ma a volte con tavole di legno), è collocata ritualmente ai margini dell'impluvio con accanto la situla di piombo, e nella presenza del Larario nell'atrio di alcune fra le case più nobili o signorili (Case del Menandro, di Epidio Rufo, del Centenario), sì da richiamare l'uso tradizionale: ante Lares vesci.

Del periodo più vetusto (paleosannitico) restano le case ad atrio calcareo, caratterizzate dall'impiego del locale conglomerato in pietra di Sarno in blocchi squadrati sul prospetto esterno, e nella tipica tessitura a listoni verticali e orizzontali nelle strutture dell'atrio e degli ambienti interni, della quale, se pochi sono gli esempî rimasti pressoché intatti (Casa del Chirurgo), molti e sparsi in tutti i quartieri della città sono gli esempî parzialmente conservati nelle originarie strutture (Casa del Naviglio, Casa degli Scienziati, ecc.); e comunque, anche quando allo scabro conglomerato sarnense si sostituì, nel maturo periodo sannitico e della colonia repubblicana, il tufo di Nocera, la casa pompeiana restò sostanzialmente fedele allo schema canonico della casa ad atrio: un più o meno grandioso portale sormontato da severi capitelli cubici, e solo talvolta decorati e figurati, rivelano il carattere nobile dell'abitazione (Case detta dei Cei (?), di Paquio Proculo (?), di Gavio Rufo, della Caccia, dei Dioscuri, di Arianna, dei Capitelli Figurati, ecc.).

Le influenze ellenistiche che P., seguendo gli altri grandi centri della Campania e della Magna Grecia e dell'Oriente mediterraneo, ricevette ed applicò nell'edilizia pubblica, furono non meno profonde nella casa e nel costume familiare. Ma più che un trapianto e un'imitazione pedissequa, si trattò d'un felice innesto di elementi e forme della casa ellenistica sul vecchio tronco della casa ad atrio, tanto da darci una creazione architettonicamente nuova e, con la Casa del Fauno, l'abitazione più nobile privata che si abbia nel mondo antico.

Chiusa e serrata nella sua organicità di pianta e di strutture e con l'unica fonte di luce e di aria dall'apertura del compluvio, la casa pompeiana aveva limitate possibilità di sviluppo in ampiezza e in altezza: in ampiezza per la massima lunghezza consentita dalle travi, in altezza per la stessa vuota cavità dell'atrio. Fu il peristilio a risolvere l'ampliamento in superficie, reduplicando la casa nell'area dell'hortus fino a raggiungere l'intera profondità di una insula (Case del Fauno, di Pansa). Alla penombra dell'atrio si sostituisce l'aperta luce di un portico e alla schematica rigidità degli ambienti intorno al bacino dell'impluvio, la maggiore disponibilità dei quattro ambulacri di un peristilio; infine alla chiusa area di un orto l'area più o meno ampia di un giardino al quale il gioco delle fontane, il magistero del giardinaggio (ars topiaria) e sculture e rilievi di arte decorativa davano colore e prospettive scenografiche fino alla ostentata teatralità del giardino della Casa degli Amorini Dorati. Abolita la parete di fondo del tablino il centro della vita familiare si sposta dall'atrio al peristilio.

E con il peristilio entrano gli ambienti e il costume della casa ellenistica: le sale tricliniari che mutano a seconda delle stagioni (Casa del Fauno con 4 triclinia) o moltiplicano il numero dei letti conviviali; la sala prostila (exedra della Casa del Fauno); gli oeci columnati (l'oecus tetrastilo della Casa delle Nozze d'Argento, gli oeci Corinthii della Casa del Labirinto e della Casa di Meleagro); le alcove con il letto incassato nella parete (alcove della Villa dei Misteri); le exedrae e diaetae di riposo e di belvedere, il quartiere separato del gineceo (Case di Sallustio, dei Vettii, del Citarista), il quartiere per l'ospite (hospitium) qual'è da supporre nelle case con duplice atrio e doppio ingresso (Case del Fauno, del Labirinto, del Centenario) e, infine, il balneum non nella forma patriarcale del balneum subscalare tenebricosum, ma nella triplice canonica partizione delle pubbliche terme (Case del Fauno, del Labirinto, del Criptoportico, delle Nozze d'Argento, del Menandro, dei Cei, di Trebio Valente). Talvolta i peristili si ampliano, come i portici dei pubblici edifici, in un loggiato superiore (Case del Fauno, del Centenario, Villa dei Misteri non ricostruiti dopo il terremoto), o sopraelevano uno degli ambulacri (la porticus rhodia della Casa delle Nozze d'Argento, o il portico occidentale della Casa degli Amorini Dorati). Infine l'atrio tetrastilo o da solo (Case delle Nozze d'Argento, dei Cei), o associato all'atrio tuscanico (Case del Fauno, del Labirinto) apre la via alle forme più schiettamente ellenistiche dell'atrio polistilo (Case di Epidio Rufo, dei Dioscuri). Ma pur nell'adozione dei nuovi temi e spartiti della casa "a peristilio", il costruttore pompeiano non rispetta troppo fedelmente i canoni dell'architettura ellenistica e la maggiore spregiudicatezza si osserva nell'irregolarità degli intercolumnî dei peristilî, che rispondono più a particolari esigenze di luce e di visibilità che a leggi del loro organico ritmo (peristilio della Casa del Menandro), e soprattutto nella graduale chiusura degli stessi intercolumnî che, per pratiche esigenze di vita, finiranno per trasformarsi in portici con plutei o portici fenestrati (Villa dei Misteri, Casa del Citarista).

Poco ebbero da aggiungere a questo tipo così organicamente sviluppato intorno ai due elementi dell'atrio e del peristilio, i coloni sillani dell'80 a. C.: furono peraltro i nuovi mezzi della tecnica muraria, le nuove correnti di gusto decorativo, le cresciute sollecitazioni del ceto mercantile e, infine, il grave ed improvviso dissesto creato dal movimento tellurico dell'anno 62 a produrre modifiche e rifacimenti, ampliamenti e decurtazioni e un più o meno grave compromesso della domus verso forme di locazione, di condominio e d'uso commerciale e industriale (la Fulionica della Reg. VI, 8, 20; la tintoria di Ubone: Reg. IX, 3, 4 e del vicolo dell'Efebo: Reg. I, 8, 19). Ma con l'età augustea anche il grande periodo dell'edilizia privata si chiude: nuove case che mantengono la loro organica unità senza frazionarsi e cedere al mercantilismo invadente diventano rare (Case dei Vettii, del Menandro); e più frequente è il caso di chi, bisognoso di più ampia abitazione, si contenta di acquistare più case vicine aggregandole e incorporandole una all'altra con semplici vani di passaggio o con scale ove occorra superare un dislivello (Case delle Vestali, dei Dioscuri, del Naviglio, di Sirico, del Citarista, dell'Efebo). E con la diminuita disponibilità di superficie si accentua il processo della sopraelevazione.

La sopraelevazione s'inizia a P. più tardi che nei centri urbanistici della Campania, e prima nelle abitazioni rustiche e nelle tabernae che nelle case signorili. Nelle case dell'età calcarea e del tufo con i loro grandi portali, gli ambienti del pianterreno occupano l'intera altezza del porticato e la loro cubatura d'aria rimedia alla scarsa aerazione che veniva dalla sola apertura dell'atrio. E quando l'accrescimento della famiglia ed il numero degli schiavi impongono una sopraelevazione, si sopraelevano gli ambienti di minor conto e quelli che non hanno una funzione di particolare rilievo nell'economia della casa, gli ambienti cioè al disopra della fauce prospicienti la strada e ad essi si darà un maggiore sviluppo mediante balconi e avancorpi sporgenti e sostenuti dalle stesse travature dei solai (cenacula). Ma la casa nobile a P. continuerà ad avere le stanze di soggiorno e di rappresentanza al pianterreno; le stanze del piano superiore saranno riservate alla famiglia dei servi o a deposito di cibarie o, staccate dal corpo centrale, a quartieri d'affitto e, eccezionalmente, quando si abbiano piani superiori di architettonica eleganza (Casa dei Cenacoli sulla Via dell'Abbondanza, Casa degli Amanti Felici) a quartiere padronale di soggiorno.

Diverso è il caso di quelle abitazioni che, avvalendosi dei dislivelli del terreno, sviluppano, con terrazzamenti e scantinati trasformati in criptoportici, due o più piani d'abitazione. Se ne ha qualche nobile esempio nell'abitato (Case del Criptoportico, del Citarista), ma se ne ha la più larga applicazione lungo il margine meridionale e occidentale della collina occupata da grandi e belle case signorili, dell'ultima età repubblicana e imperiale, panoramicamente disposte con sale di soggiorno, logge e terrazze di belvedere scaglionate lungo la scarpata e collegate con rampe e scale e costruite con tale ardimento e spregiudicatezza delle forme canoniche da rappresentare un vero spirito rinnovatore rispetto allo schema tradizionale. È peraltro da tener presente che ad una più organica e radicale sopraelevazione della casa pompeiana, quale si ebbe negli ultimi anni, contribuì validamente il mutamento dei materiali di costruzione, la sostituzione cioè dell'opera incerta di materiali più o meno incoerenti, con l'opera laterizia più idonea a sopportare le sollecitazioni delle masse murarie. Ma l'eruzione arrestò bruscamente l'evoluzione ormai in atto della domus ad atrio nella casa-insula di tipo ostiense; manca invero finora a P. qualsiasi esempio di quel caseggiato di coabitazione a più piani e più famiglie quale ci è offerto dal caseggiato della palestra di Ercolano.

Le case minori. Di non minore interesse sono le case del ceto medio o popolare appartenenti a cittadini di umili condizioni, ad artigiani, a mercanti e industriali della condizione generalmente di liberti che riuscivano, con i guadagni della loro arte o del commercio, a crearsi una domuscula. Serrate e insidiate da più ricche abitazioni e strette dall'angustia dello spazio, vi si ricorreva ai più ingegnosi espedienti per captare luce e aria (Case di Tofelano Valente, del Moralista, del Vicolo di Modesto, vi, 2, 20). Diversa è la casa associata alla taberna e all'officina. Nel caso più semplice l'alloggio del proprietario o gestore è l'ammezzato corrispondente ad uno o più ambienti della bottega; una scala di legno appoggiata alla parete, collegava bottega e ammezzato. Questa prendeva il nome di pergula o di cenaculum e, nelle case signorili, pergulae e cenacula venivano dati in fitto al miglior offerente come è attestato dall'avviso di locazione dipinto sul prospetto della cosiddetta villa di Giulia Felice (C.I.L., iv, 1136): in praedis Iuliae Sp[uri] f[iliae] Felicis locantur... tabernae, pergulae, cenacula,.. annos continuos quinque), ed egualmente nell'analogo avviso sulla Casa di Pansa (C.I.L., iv, 138).

Ma l'esercizio di un'azienda bene avviata dava la possibilità di trasformare l'angusto ammezzato in un'abitazione, ed è caso assai frequente a P., come ad Ercolano, di trovare alle spalle della taberna non solo il retrobottega, ma l'abitazione dell'arricchito mercante o dell'oste danaroso, conforme alla sua capacità pecuniaria.

I saggi praticati nel sottosuolo hanno recato nuovi elementi al problema della genesi e della cronologia della casa ad atrio (Case del Chirurgo, di Trittolemo, della Via di Mercurio, della Calce, della Colonna Etrusca). Tali saggi inducono ad abbassare la data delle più vetuste case calcaree alla prima occupazione sannitica; gli avanzi di più arcaiche abitazioni scoperte nel sottosuolo mostrano che nulla hanno di comune con il tipo della casa ad atrio; mancando ogni traccia di un impluvio primitivo è da escludere l'ipotesi affacciata da varî studiosi di una continuità micenea, etrusca od anatolica. Cosicché, tra le varie teorie la più verosimile sembra quella che vede nella casa ad atrio di città la continuità della casa a corte di campagna, con più capanne affiancate a quella del pater familias attorno ad un cortile centrale. Dall'aggregato più o meno simmetrico di tali capanne si passa all'organismo pluricellulare della casa ad atrio. Né sembra da vedere nel caseggiato dell'insula di Ostia un'origine diversa della casa ad atrio; e pertanto sembrano più nel vero coloro che vedono un graduale e naturale sviluppo della casa preromana e romana di P. nel caseggiato a cortile dell'età imperiale di Ostia e di Roma.

b) Le ville. La villa nelle sue due forme di villa rustica e di villa signorile residenziale, ha esempî numerosi e cospicui a Pompei. Da una parte l'irrigua valle del Sarno, coltivata intensamente ad orti già in antico (Petr., Coena Trim., 53, 5), richiedeva impianti di masserie in ragione dell'entità e produttività dei poderi. Dall'altra, sulle basse pendici del Vesuvio, particolarmente adatte per la coltivazione della vite, trovarono appropriata installazione le ville che con il loro quartiere padronale e rustico, offrivano la possibilità di più o meno lunghi soggiorni a quel patriziato terriero che, pur partecipando alla vita pubblica della colonia, non si estraniava dal governo della loro terra affidata a liberti procuratori e a villici. Tra le ville appartenenti a personaggi storici o a principi della casa imperiale è il Pompeianum di Cicerone (Acad., ii, 9, e lettere ad Attico) ipoteticamente identificato con una delle ville scoperte e risepolte nel '700 fuori Porta Ercolano, la villa di Agrippa Postumo a Boscotrecase, passata negli ultimi anni a Tiberio Claudio Euticho liberto della casa Claudia, e la villa suburbana a Porta Marina in cui si ritiene di poter riconoscere l'abitazione del principe Claudio durante il suo confino in Campania. Del patriziato ricorrono gli Istacidi quali proprietari della Villa dei Misteri, i Fannii quali primi possessori della grandiosa villa della Pisanella a Boscoreale, i Livi nello stesso centro abitato di Boscoreale.

Sepolte anch'esse dall'eruzione, le ville pompeiane ci fanno assistere al primo sorgere della villa residenziale suburbana dal II sec. a. C. fino al brusco arresto del suo trapasso da azienda agraria di carattere familiare in azienda a carattere industriale.

Un esempio perspicuo offre la Villa dei Misteri che con la sua pianta, le strutture e architetture, oltreché per la decorazione, permette di cogliere il processo di estrinsecazione che subisce la casa patriarcale urbana chiusa, in villa suburbana aperta su logge e terrazze e, con gli ultimi restauri e ammodernamenti, l'abbandono d'ogni aspirazione etica e religiosa per le pratiche necessità di un'azienda agricola. Né diversamente avveniva della villa di Agrippa Postumo a Boscotrecase in cui, sotto l'amministrazione del liberto Euticho, si annoveravano ben 1210 pali ammucchiati in catasta (in magno acervo) occorrenti alla palificazione delle viti, come attesta un'iscrizione. Carattere schiettamente residenziale presenta la cosiddetta Villa di Diomede con il quartiere di alloggio notevolmente sopraelevato sull'area del vasto giardino e in cui sono riconoscibili strutture del periodo repubblicano e rifacimenti del periodo imperiale (bagno, alcova absidata e fenestrata e portico a pilastri del giardino); ma che tuttavia, con il quartiere servile e l'ampio cellaio del criptoportico, rivela anch'essa l'esercizio di una ricca azienda agricola.

Delle molte ville rustiche scavate e risepolte, tipico esempio è quello della Villa rustica di Boscoreale (contrada Pisanella) che, oltre a un bagno con tutti i suoi impianti di riscaldamento e di distribuzione, ci dà con le stalle per gli animali da soma e da tiro, il palmento per l'uva, il torculario per le olive, l'aia per la battitura dei cereali e dei legumi, il cellaio per la fermentazione e il deposito del vino in dolî seminfossati nel terreno, il più completo impianto di una villa rustica.

c) Necropoli. Alla conoscenza della P. presannitica manca un dato essenziale: la scoperta dei più vetusti sepolcri del VI sec. da mettere a riscontro con le necropoli arcaiche della valle del Sarno. Tombe sannitiche di inumati entro casse composte di lastroni di tufo con corredi piuttosto poveri, sono apparsi invece nel sottosuolo delle ville e della necropoli romana fuori Porta Ercolano (Villa di Cicerone, Villa delle Colonne a Mosaico) e un gruppo più numeroso al di fuori di Porta di Stabia nel fondo Azzolini): monete con la leggenda Irnthi, come naulon, si trovarono associate a suppellettili vascolari di fabbriche campane.

La necropoli che nell'età sannitica resta fedele al rito della semplice inumazione con pochi segni esteriori, diventa monumentale nell'età romana. Mausolei, a volte grandiosi e vistosi, si allineano lungo le strade al di fuori delle varie porte della città: le tombe concesse per pubblico decreto trovansi nell'area del pomerium, le altre si dispongono lungo i margini della strada. Solo due di queste strade sono state scavate per un buon tratto: la via Ercolano a N, la via Nuceria a S, e lungo queste strade si ha la più ricca documentazione dell'architettura funeraria pompeiana; ma non meno cospicui sono i gruppi di tombe apparse in prossimità di altre porte. Forme e tipi si ispirano a modelli ellenistici e romani: ellenistici quali la Tomba delle Ghirlande, le tombe a schola con o senza colonna funeraria (sepolcro di Aesquillia Polla a Porta di Nola, sepolcro di Mamia a Porta Ercolano, di M. Tullio a Porta di Stabia); in forma di grandioso emiciclo (sepolcro di Eumachia sulla via di Nocera); ad ara o cippo sopraelevati su podio a gradini, a edicola e tempietto, a triclinio funebre; e di tipo romano, le tombe a cella chiusa, a camera con i loculi per le urne dei familiari e dei servi, con ustrino, a grande nicchia absidata, a due ordini con basamento quadrato e thòlos o torrione circolare, accompagnati le une e le altre da iscrizioni, rilievi, statue e busti scolpiti per lo più nel tufo; una varietà di tipi che distingue la necropoli di P. da quella di Pozzuoli e delle altre città campane, e attesta non solo diversità di gusti e di adattamento, ma anche di origine e di classe sociale. Più raro è il caso di sepolcri dipinti con scene della vita e delle magistrature del defunto qual'è il sepolcro di Vestono Prisco fuori Porta Vesuvio.

D) Arte. - 1. La pittura. - Oltre due secoli di scavo danno a P. l'incontestabile primato di offrire la più ricca documentazione della pittura parietale per un periodo che va dalla fine del II sec. a. C. al 79 d. C., di poterne seguire lo sviluppo attraverso le vicende edilizie e le correnti artistiche che ne accompagnarono e ne determinarono i mutamenti, di poterne infine esaminare i procedimenti tecnici attraverso due secoli circa di ininterrotta attività di artisti e di maestranze. Inoltre, dato l'impiego pressoché universale della pittura nelle case d'ogni ceto sociale e di officine e botteghe, grande è la varietà dei soggetti che rispondono per la loro scelta ed esecuzione a tanti e così diversi committenti: dalla pittura aulica della villa di Boscoreale ai dipinti dei Larari, dai quadri del ciclo omerico alle scene della vita quotidiana del Foro, dalla lotta dei Lapiti e dei Centauri al commento illustrato di un fatto di cronaca, la rissa nell'anfiteatro. (Per la situazione della pittura pompeiana nello svolgimento della pittura antica, v. pittura e romana, arte).

Il primo apparire della pittura è nella casa ellenistica quando il cosiddetto i stile (v. pompeiani, stili) riveste e accentua plasticamente gli elementi e le membrature architettoniche con stucco e colore. Non se ne ha traccia invece, all'infuori del semplice rivestimento a stucco bianco, nella casa presannitica e paleosannitica; ma la scoperta di un lastrone calcareo con resti di una grande composizione figurata fra le tombe di Porta Ercolano, fa supporre che qualche più antico esempio si avesse nelle case patrizie o nelle tombe; inoltre la scena di duellanti, accompagnata da leggende osche nella Casa del Sacerdos Amandus (Reg., i, 7, 7), ci richiama alla pittura funeraria preromana delle tombe campane e lucane.

La pittura pompeiana ha, come tutta la pittura parietale, funzione essenzialmente decorativa e, quando diventa figurata, il quadro o il fregio s'inseriscono nella composizione sintattica e cromatica della parete. E pertanto il distacco, operato nel corso dell'esplorazione, dei quadri figurati e degli elementi ornamentali dal complesso della parete, se ha giovato alla loro conservazione, privò gli uni e gli altri dei necessari rapporti tonali e compositivi e ridusse a episodî e frammenti quel che era modulata orchestra di forme e di colore riecheggiata dalle quattro pareti di una stanza. Ecco perché i valori della pittura parietale vanno integrati dalla visione delle case e delle ville di P. con i loro dipinti superstiti. E a tal riguardo è da notare la diversa distribuzione che decorazione e colore hanno nelle varie parti di un'abitazione: riservati i quadri figurati e una decorazione di maggior impegno ai triclinî, agli oeci di rappresentanza, ai cubicoli; limitato il semplice rivestimento a grandi pannelli con quadretti, fasce e cornici ornamentali, alle pareti degli atrî e dei peristilî maggiormente esposti agli agenti atmosferici; destinati a temi naturalistici i muri dei giardini e i plutei dei portici. E, a parte l'interesse che più particolarmente suscita il quadro figurato, non si può non ammirare la sapienza con cui il decoratore ha proceduto da ambiente ad ambiente alla giusta partizione della parete in senso orizzontale e verticale, all'equilibrato rapporto tra superficie e composizione, alla scelta del tono cromatico generale e al graduale passaggio dei varî registri della parete, dallo zoccolo, al campo centrale, al fregio e alla vòlta, e all'inserzione del quadro figurato entro un'edicola che lo racchiude e lo proietta verso l'esterno o in una parete che l'incorpora e lo sostiene con la sua massa di colore, sicché si può dire che ogni casa a P. ha il suo problema decorativo.

Dopo l'entusiamo delle prime scoperte, il lungo lavoro speso intorno all'esegesi mitografica, la spesso sterile ricerca dei grandi originali dei maestri greci e l'utile classificazione delle maniere della sua evoluzione compositiva e stilistica, gli studî sulla pittura pompeiana sono addivenuti a un più intrinseco esame del suo valore d'arte; a sceverare i prodotti della creazione artistica dall'abilità e maestria di un artigianato di bottega esperto di tecnica e ricco di gusto coloristico, anche là dove ripete o rielabora i consueti temi di repertorio; e a tentare infine di riconoscere la personalità di qualche artista attraverso più o meno evidenti consonanze formali e stilistiche. Sembra comunque di poter distinguere nell'ambito della pittura pompeiana e, più generalmente campana, due grandi correnti: una classicheggiante, più formalmente corretta e ligia ai modelli a cui s'ispira, ed una che, pur ispirandosi agli schemi di repertorio, traduce azioni e personaggi del mito in una sua più reale e umana immaginazione, e che inoltre illustra scene, cerimonie, personaggi della vita quotidiana, aspetti naturali del paesaggio, della vita delle piante e degli animali con una sua particolare visione. E dal i al iv stile mutate condizioni di ambiente sociale e culturale portano ad un graduale affermarsi e sopravvincere di maestranze e artisti locali, ai quali si deve riconoscere un proprio linguaggio espressivo non privo di validità artistica. Ed è inoltre da tener presente che il terremoto del 62 d. C., con lo sconvolgimento edilizio ed economico che ne seguì, approfondì la frattura tra corrente classicheggiante e artigianato locale e, con la necessità di rinnovamento e di ammodernamento, avviò più decisamente la pittura pompeiana verso il suo naturale epilogo di pittura di gusto più schiettamente italico e campano, distaccata dalla tradizione ellenistica.

Nell'assenza d'ogni documentazione letteraria ed epigrafica sull'attività dei pittori campani (non vi appare che una sola firma di artista in quel Lucius pinxit [v. lucius] apposta a uno dei più modesti prodotti della pittura mitico-romantica dell'ultimo iv stile), a meglio documentare l'apporto che artisti neoattici recarono nella Campania, come nel Lazio, ricorrono, oltre alle qualità stilistiche, le didascalie greche che accompagnano alcuni cicli di pitture (il ciclo iliaco della Casa del Criptoportico), con una grafia tale da rivelare più la mano di un greco naturalizzato che di un campano ellenizzato. Tale apporto, notevole nell'età augustea, dovette attenuarsi e scomparire del tutto dall'età claudia in poi, a vantaggio delle maestranze locali che meglio rispondevano con più vivace e personale interpretazione del mondo reale e ideale e con il loro senso coloristico al gusto della società del loro tempo. Tipico esempio di tale mutamento è l'illustrazione dei soggetti epici: dal ciclo dei quadretti iliaci della Casa del Criptoportico accompagnati da didascalie greche (seconda fase del II stile), si passa all'Iliade vulgata con leggende latine del triclinio della cosiddetta Casa di Loreio Tiburtino, ai tre quadretti infine della presa di Troia della Casa del Menandro che sembrano ispirati più dall'Eneide virgiliana che dai clicli omerici (iv stile).

P. ha contribuito in misura preminente allo studio dell'ancora incerto e discusso problema della tecnica (v. affresco; encausto) con le possibilità che offre di sorprendere nelle case in corso di rifinimento i procedimenti tecnici, i materiali ammanniti, gli strumenti di lavorazione, l'incompiutezza delle pareti senza zoccolo e fregio, i segni di giuntura nella sutura dei pannelli, talvolta le correzioni e le varianti apportate a un particolare del dipinto, la sovrapposizione di più strati d'intonaco dipinto quando non sia intervenuta la spicconatura dell'intonaco sottoposto e, infine, la resecazione da pareti distrutte di quadri giudicati di particolare pregio per poterli inserire in un intonaco più recente. Inoltre particolare di grande interesse è la dipintura di quadri figurati su cavalletto entro telai di legno da inserire e assicurare con chiodi e ramponi in un apposito rincasso della parete (picturae ligneis formis inclusae: Vitruv., II, 8, 9) attestata non solo dai vuoti lasciati nella parete (triclinio della Casa dei Vettii), dalle tracce del legno e dalla presenza dei chiodi rimasti lungo il solco lasciato dal telaio, ma dal dipinto che mostra una pittrice innanzi al 5 suo quadro su cavalletto (Casa del Chirurgo, Helbig, 1443).

Tenendo presenti la partizione degli "stili" (v. più avanti), il diverso inserirsi dei quadri nella composizione delle pareti e richiamandoci al già discusso problema generale della loro valutazione d'arte, sarà utile tracciare, nell'immensa ricchezza della pittura pompeiana, le varie classi e i principali motivi del suo repertorio.

A due ville pompeiane dobbiamo le più grandi composizioni della pittura antica in cui la funzione decorativa della parete appare interamente subordinata alla rappresentazione di un'azione religiosa o di carattere storico e commemorativo, e l'una e l'altra in due fasi del II stile. Nella Villa dei Misteri l'azione liturgica, raffigurata nei momenti più salienti, si svolge ininterrottamente sulle quattro pareti d'una sala, con la sola cesura d'una finestra e d'una porta, a guisa d'un grande fregio; pittura religiosa alla quale, come in un quadro votivo, non manca la figura della committente nel ritratto reale della domina signora della casa e patrona e fervente adepta dell'associazione. Nella Villa di Boscoreale (v.), nell'interno di una sala, è delineata una scena aulica con personaggi tolti dall'ambiente dinastico di una di quelle corti ellenistiche con cui i Romani ebbero rapporti non solo politici, ma culturali e artistici. Personaggi reali, ma lontani dalla societa campana e romana: basta raffrontare il ritratto della donna, principessa o regina, nel gruppo della citareda, con quello della domina della Villa dei Misteri, per intendere a quale diverso ambiente s'ispirino i due pittori. E alle due ville dobbiamo anche i più superbi esempî di quelle prospettive architetturali che accompagnano e accentuano il carattere della casa ellenistica a P.: nell'oecus e nelle alcove della Villa dei Misteri prospettive ricche ma statiche di uno o più edifici monumentali; nella villa di Boscoreale lo scorcio della grande sala e la veduta della via di una città con case disposte a terrazze, apre una visione più architettonicamente dinamica dell'interno di un abitato.

Nella raffigurazione degli dèi e degli eroi i pittori s'ispirano a P., come a Roma, alla tradizione ellenistica letteraria e popolare. Raramente le divinità sono rappresentate nella loro ieratica potestà e con i loro attributi divini; più frequentemente ne sono raffigurati i casi d'amore con una compiaciuta e spesso insistente ripetizione di motivi e di schemi da richiamarci, nei quadri di più fine composizione (Venere e il mito degli Amorini), al gusto della poesia alessandrina ed epigrammatica.

Al mondo mitico degli dèi si accompagna il mondo favolistico degli eroi rappresentati anch'essi nei loro più avventurosi casi d'amore: Ercole ebbro e vittima d'amore nel grandioso dipinto della Casa di M. Lucrezio o vindice di Deianira (Casa del Centauro) o seduttore di Auge (Casa dei Vettii); Teseo che è sa con la sua fuga dell'amore di Dioniso e Arianna (Casa del poeta Tragico); Perseo liberatore di Andromeda (Casa dei Dioscuri, Casa di Amandus); Polifemo e Galatea che dalle grandiose composizioni del II e III stile, si riduce a romantico epistolografo d'amore (da Ercolano) e, da ultimo, le tragiche eroine del fato e della colpa: Alcesti (Casa di Admeto), Medea (Casa dei Dioscuri), e Dirce (Casa dei Vettii).

Ai quadri di soggetto mitico eroico debbono associarsi quelli direttamente ispirati dai poemi omerici e ciclici, così prediletti e spesso ripetuti in più redazioni dal ii al iv stile, da rivelare, oltre a un gusto letterario e una tradizione pittorica, un gusto popolare e romantico per le azioni e le vicende drammatiche degli eroi dell'epopea; e non a caso il primo felice incontro con la pittura pompeiana ebbe inizio con la scoperta della Casa del Poeta Tragico e con il ciclo delle sue pitture omeriche: tema sovrano la saga di Achille.

Ma vere e proprie narrazioni cicliche degli episodi dell'Iliade si avevano nei pannelli della Casa del Criptoportico di cui 25 conservati con leggende greche e nel fregio della Casa di Loreio Tiburtino (o di Quartione) con leggende latine; mentre gli eventi dell'Ilioupèrsis attraverso le tabulae Iliacae e la leggenda di Enea sono espressi da una pittura più schiettamente viva e popolare: l'ingresso del cavallo di Troia tra le lu i fumose della notte, i tre quadretti della Casa del Menandro; la fuga di Enea (Reg. ix, 13, 5), Enea ferito (Casa di Sirico); più rara l'illustrazione di leggende ed eventi della storia di Roma: Marte e Rhea Silvia nel quadro sulle origini di Roma (Reg. V, 4, 13) in cui si ripete lo schema della teofania di Dioniso ad Arianna dormente; Romolo con il trofeo delle armi di Aerone (Reg. ix, 13, 5); la morte di Sofonisba (Casa di Giuseppe II).

Mentre i quadri centrali della parete sono riservati a scene mitiche ed eroiche, a scene di ambiente di vita e di costume ci trasportano i minori pannelli, spesso in forma di quadretti racchiusi entro armadi a sportello (pìnakes) posti nel registro superiore delle più belle pareti di ii e iii stile contenenti scene di gineceo, del gymnàsion, del teatro di schietto sapore ellenistico (Villa imperiale fuori Porta Marina). Più tardi, nel iv stile, subentrano scene di vita e costume romano di gusto e di fattura popolare.

L'influenza del teatro sulla pittura parietale si coglie anzitutto nella composizione decorativa di molte pareti che si richiamano allo spartito architettonico della scaenae frons, dove il pittore non manca talvolta di raffigurare personaggi e azione d'uno dei drammi più letterariamente e teatralmente noti (l'Ifigenia in Tauride della Casa del Citarista); ma è ancor più attestata dai quadretti di soggetti teatrali che s'inserivano isolatamente o in serie nelle pareti di iii e iv stile a guisa di pìnakes (Casa del Centenario, Casa dei Quadretti Teatrali). Vi si alternavano scene della tragedia e della commedia non facilmente identificabili nel loro soggetto, ma presenti e vive agli occhi del committente e dell'osservatore antico. Uno di questi quadretti, con la scena del diverbio fra lo schiavo e una cortigiana, mostra, con la sua duplice redazione pompeiana ed ercolanese, quanto fossero predilette e gustate dal pubblico situazioni e personaggi di determinate azioni sceniche. E che accanto al gusto popolare si avesse nella società colta una vera e propria cultura letteraria si deduce dall'esedra nella Casa di Quinto Poppeo dove è conservata la figura del poeta Menandro nell'atto di leggere una sua commedia.

La tendenza realistica che induce spesso il pittore campano a umanizzare dèi ed eroi, si afferma più concreta nei ritratti dipinti che si accompagnano nella casa pompeiana alle erme-ritratto in bronzo e in marmo. Raggiunge la sua più vigorosa espressione quando dalle figure, incorniciate entro pannelli e medaglioni, più o meno idealizzate di filosofi, di poeti, di giovani e di giovanette di famiglie patrizie, discende a personaggi più umili, a mercanti e industriali, fino alla modesta e fruttuosa industria di un panettiere, quale sembra raffigurata nella famosa coppia coniugale che passa, più o meno giustamente, sotto il nome di Paquio Proculo e sua moglie, in cui la posa di maniera, con il papiro e lo stilo e le tavolette cerate, non serve che ad accentuare le vigorose e plebee fattezze dei due personaggi.

Come a Roma così a P. il paesaggio entra fin dal ii stile nella pittura parietale con le vedute predilette di porti e di edifici marittimi (atrio della Villa dei Misteri, Villa di Boscoreale); ma prenderà anch'esso, dal iii stile in poi, un posto preminente nella raffigurazione del mito quando sia soprattutto collegato ad ambiente marino o silvestre e montano: nell'epifania di Dioniso ad Arianna (Casa del Citarista) e delle cosiddette Nozze di Zefiro e Cloe (Casa del Naviglio), di Polifemo e Galatea (Casa di Amandus), della caduta di Icaro (Villa imperiale e Casa di Amandus) o, talvolta, in una duplice redazione neoclassica e romantica quale si ha nel mito di Perseo e Andromeda (Casa dei Dioscuri e Casa di Amandus).

Affrancato dalla narrazione del mito il paesaggio svolge nel iii stile sul campo centrale della parete i temi prediletti del sacello silvestre in un ambiente idilliaco-sacrale (Villa di Agrippa Postumo a Boscotrecase), o in minori pannelli e quadretti nel iii e iv stile con parziali vedute di tempietti, casali, ville, porti e marine che ci richiamano talvolta a impressioni dirette dal vero, ma più spesso a schemi e motivi di maniera, e non solo al paesaggio locale ma a quello esotico del Nilo con i suoi caratteristici edifici, le acque e la fauna fluviale e il favoloso popolo dei Pigmei; talora il paesaggista ricopre il fondale di un giardino con grandi vedute panoramiche di ville marittime e di seni di mare (Casa della Fontana Grande, Casa detta dei Cei). Un'atmosfera idilliaca trasfigura e costituisce ancor oggi l'incanto di non pochi di questi paesaggi e ad esso contribuisce la tecnica fluida dell'impressionismo (v. impressionismo) che dissolvendo le forme delle cose nella luce dell'atmosfera, le fa vibrare nel vivo sbattimento delle luci e delle ombre; ma talvolta sui fondi monocromi (giallo, verde, nero) il paesaggio, senza più atmosfera, giunge alle forme quasi astratte della composizione geometrica (v. paesaggio).

Alla pittura di paesaggio si associa la pittura di giardino destinata a decorare il fondale e i plutei di un più o meno ampio viridario e ad ampliarne la veduta con l'illusione di un aperto orizzonte (cubicolo di Boscoreale, della Villa di Diomede, delle Case di Sallustio, d'Orfeo, del frigidario delle Terme Stabiane, ecc.); pittura che risente dell'arte del giardinaggio e che nelle abitazioni minori ha forse un accento più romantico con qualche cespuglio fiorito. Più rara la riproduzione d'un frutteto (Casa del Frutteto) ove il pittore assolve con più impegno il suo compito di fedele riproduzione delle varie essenze di frutta, riuscendo solo ad animare l'immobilità di quelle piante troppo cariche e troppo schematicamente disposte con gli uccelli che vi si posano e vi svolazzano. Infine le venationes avevano creato il, gusto della fauna esotica e, tra i temi prediletti dei giardini, è la caccia grossa sulle arene d'Africa, nelle acque del Nilo o nell'Asia ancora misteriosa (Casa della Caccia, Casa di M. Lucrezio).

La "natura morta" è uno dei capitoli più interessanti della pittura campana a cui partecipano in egual misura P. ed Ercolano (v. natura morta). Tema principale la mensa con le sue preziose suppellettili e le sue cibarie. P. attinge largamente alle frutta della sua terra: la frutta è a volte immersa nell'acqua entro una coppa di cristallo perché ne risulti più rorido il colore attraverso liquide trasparenze del vaso o entro piatti e cestelli; la cacciagione, la selvaggina, la pesca o ancora viva o appesa trionfalmente alle pareti del triclinio e della dispensa. Si esprime con sodezza plastica di forme e di colore nella pittura di ii stile (Villa di Boscoreale, Casa di Giulia Felice, Casa del Criptoportico); si stempera in elementi miniaturistici di uccelli e fiori nel III stile; riprende nel iv stile ricchezza e varietà di motivi naturalistici con gli stessi valori tonali della pittura di paesaggio e di giardino; assume valore centrale sulle pareti del Macellum, complementare nei quadretti o nei pannelli di un triclinio e degli ambienti attigui al triclinio. E nei quadri soprattutto di iv stile, la smorzatura dei toni, la disposizione delle luci, la presentazione su uno o due ripiani di pochi oggetti quasi per il desiderio di una più intensa concentrazione della propria visione, avvicinano il pittore antico al gusto e alla maniera del pittore moderno di natura morta.

C'è un campo in cui il pittore pompeiano si libera d'ogni vincolo di tradizione e di scuola ed è quando attinge soggetti ed ispirazione alla realtà della vita quotidiana, al culto familiare e al costume sì da offrire, anche nelle più modeste produzioni, un prezioso contributo alla conoscenza della vita sociale, economica, religiosa della città antica. Più che un fenomeno di scadimento è un riaffiorare dello spirito e delle forme di quella pittura preromana che, nella tarda ceramica italiota e nei dipinti funerarî, aveva avuto la sua più schietta espressione. Per la minore accuratezza tecnica e il suo più frequente rinnovamento appartiene in gran parte agli ultimi decenni della città; ma, come si può dedurre da qualche esempio sottoposto ad altro intonaco dipinto (la scena mimica pulcinellesca della Reg. i, 5, 10), un filone di pittura popolare deve aver continuato a vivere accanto alla pittura d'arte. Soggetti della pittura popolare sono: i lararî domestici che, in più centinaia di esempî ricorrono nelle più ricche e più umili abitazioni con le raffigurazioni delle divinità familiari dipinte nel campo di un'edicola o di una nicchia accompagnate spesso da cerimonie del culto (v. lari); lararî compitali sulla pubblica via esposti al culto pubblico; commemorazione di avvenimenti della vita cittadina ed eccezionalmente di un sanguinoso fatto di cronaca (la rissa nell'Anfiteatro dell'anno 59 d. C.); traduzione novellistica o caricaturale di miti e leggende eroiche (la parodia della fuga di Enea); scene della vita del Foro nelle cosiddette pitture forensi, tra cui la lettura degli Editti, la punizione dell'alunno, il commercio ambulante; scene della vita di bottega (vendita o distribuzione di pane) o di osteria con avventori ed allegro convito e bevitori e giocatori rissosi; e, soprattutto, la pubblicità murale dipinta sul prospetto esterno delle botteghe e delle officine, alla quale il mercante e l'industriale affidava la fortuna del loro negozio associando la presenza di una o più divinità protettrici all'esibizione della merce e del processo di lavorazione, giungendo a volte a forme grandiose di composizione pittorica (l'officina di Verecundus con Venere su quadriga di elefanti). E con questi dipinti di viva e fresca immediatezza, dettati da esigenze commerciali e da ingenua fede religiosa, chiude P. il suo grande ciclo pittorico.

2. Mosaico. - Il mosaico completa a P. la decorazione della casa: esso ricopre generalmente i pavimenti; si estende raramente alle pareti, eccezionalmente alle vòlte e assume infine particolari forme di colore e di tecnica nella decorazione dei ninfei. Preminente quando si sviluppa in una grande composizione figurata (mosaico di Alessandro) o si incentra in grandi emblemata (v. emblema), diventa complementare quando, in schemi geometrici ed ornamentali, subordina composizione e colore alla decorazione parietale.

Le più antiche pavimentazioni nelle piazze e edifici pubblici furono formate a P. da un conglomerato di detriti di pietra di Sarno o di tufo impastati con terra argillosa (prima platea del Foro) o da ciottoli fluviali o marini dimezzati e disposti con la superficie piana (pavimento primitivo del Macellum e alcuni marciapiedi stradali). Nella casa calcarea e del primo periodo sannitico il pavimento è in signino (pavimenta caementicia) composto da un conglomerato di calce arenosa e di frammenti di cotto nel quale vengono presto inseriti frammenti segmentati o tessere in pietra e in marmo in ordine sparso o geometrico, tecnica e tipo che sopravviverà a P. anche nei periodi successivi per le abitazioni più modeste, per gli ambienti rustici e per gl'impianti commerciali e industriali. Ma come nell'architettura e nella decorazione parietale, così per i pavimenti furono le correnti dell'arte ellenistica a segnare un deciso rinnovamento con l'introduzione del lithòstroton (inteso pur nel senso più strettamente etimologico della parola) e dell'opus sectile (di cui tra i più antichi è l'opus scutulatum della cella del Tempio di Apollo con iscrizione osca), del tessellato a tessere bianche e nere e policrome, sì da dare a P., con il gruppo dei suoi mosaici figurati il privilegio di rappresentare uno dei capitoli più importanti dell'arte musiva: gruppo che va dalla fine del II sec. a. C. all'età giulio-claudia, attenuandosi e spegnendosi gradualmente in piccoli emblèmata o in prodotti di carattere più decorativo che di vera e propria composizione figurata.

Non a caso l'abitazione più nobilmente ellenistica di P., la Casa del Fauno, ci ha dato il più artistico e imponente mosaico figurato del mondo antico, il mosaico della Battaglia d'Alessandro, disteso, come un prezioso tappeto, nell'esedra prostila centrale del primo peristilio, in cui la dimostrazione dell'uso di pietre locali e di un'esecuzione sul luogo nulla toglie della sua diretta derivazione da un grande e famoso originale della pittura ellenistica (v. philoxenos, I°). E quasi a smorzare il concitato movimento della battaglia, una fascia con paesaggio nilotico con anatre, ibis, ippopotamo e coccodrillo affrontati in un calmo ristagno d'acqua, interponendosi negli intercolumnî, formava la soglia d'ingresso all'esedra. Un'altra fascia con un ricco festone di foglie e frutta e due maschere tragiche di eccezionale vigore plastico e coloristico, segnava il passaggio dal vestibolo all'atrio tuscanico (v. maschera, Tavola a colori). Altri emblèmata erano distribuiti in diversi ambienti della casa. In uno dei cubicoli dell'atrio il finissimo symplegma di un satiro con una menade; nelle ale due quadretti animalistici: in una il mosaico delle colombe, delle quali una nell'atto di tirar fuori col becco uno specchio da una cassetta; nell'altra un gatto selvatico che ha agguantato una quaglia, mentre nel registro inferiore un gruppo di anitre, pesci e volatili, forma un mirabile quadro di natura morta. Negli oeci accanto al tablino, da un lato un mosaico con fauna marina (un secondo esemplare meglio conservato proviene dalla casa Reg. viii, 2, 16) dove il combattimento del polipo con l'aragosta avviene quasi in mezzo a un'arena in cui gli altri pesci siano spettatori; dall'altro l'emblema di un Genio bacchico cavalcante una tigre. Ad ambiente ancor più schiettamente ellenistico per la finissima tessitura del vermiculatum e le tonalità cromatiche, per i soggetti raffigurati e per la firma di Dioskourides di Samo, si richiamano i due pannelli che dovevano essere, a guisa di pìnakes, inseriti nelle pareti della cosiddetta Villa di Cicerone.

Assegnando per affinità di stile e di composizione il bello emblema circolare con leone incatenato da amorini della Casa del Centauro allo stesso ciclo della Casa del Fauno, gli altri mosaici figurati pompeiani vanno riferiti in buona parte alla fase decorativa del II stile e all'età augustea: il mosaico del Corègo e attori, che svolge il prediletto motivo dell'allestimento di un'azione teatrale, dalla Casa del Poeta Tragico (v. attore); di Teseo uccisore del Minotauro (v.) della Casa del Labirinto (e altre repliche); del Ratto delle Leucippidi della Reg. viii, 2a, 16; della pompa nuziale di Posidone e Anfitrite (Reg. ix, 2, 27); il mosaico dei filosofi (da una villa suburbana presso Torre Annunziata), noto sotto la discussa denominazione di Accademia di Platone.

Si stacca nettamente da questi soggetti mitici, eroici o animalistici e della vita popolare, il solo ritratto musivo che ci ha dato P. (Reg. vi, 15, 14); è il ritratto reale d'una nobildonna campana, verosimilmente della stessa domina della casa in cui fu rinvenuto, d'una costruzione così salda e chiusa, di una così fine esecuzione nelle smorzate lumeggiature di colore e di una così intensa espressione da poter esser messo accanto ai capolavori dell'iconografia della pittura antica.

Utile termine di confronto con l'accurata tecnica dell'opera vermiculata può offrire uno degli ultimi e più schietti prodotti locali del mosaico figurato a P.: è il quadretto che, con franca tecnica impressionistica, raffigura un sileno ebbro su un ciuco stramazzato al suolo che un satirello tenta di sollevare per la coda: una scena di fresco sapore popolaresco da far pensare alla novella dell'asino scodato.

Chiuso lo stupendo ciclo delle composizioni figurate il mosaico dell'età imperiale a P. è quasi esclusivamente decorativo e limita al più l'elemento figurato a pochi temi e ristretti pannelli all'èmblema centrale (prediletto il paesaggio nilotico: Case di P. Proculo e del Menandro). Scarsi i motivi animalistici se si eccettuano il rituale canis catenarius più volte raffigurato, il combattimento dei galli nei pur prediletti ludi gallinarii; e la fauna marina che, assente nei pavimenti delle pubbliche terme, appare nell'atriolo del bagno di Giulia Felice (se ad esso corrisponde un mosaico trasferito al museo), e il negretto sommozzatore tra un corteo di pesci nel calidario della Casa del Menandro. Sorprende invero trovare a P. pochi riflessi della pittura parietale nel mosaico (il Teseo e il Minotauro, la contesa di Agamennone e Achille, i paesaggi nilotici e i festoni di foglie e frutta nella pittura di ii stile), il che potrebbe far supporre una minore capacità tecnica e stilistica dei posteriori tessellarî pompeiani, mentre in verità col mosaico decorativo essi assolvono un compito diverso. Compito del musivario è soprattutto quello di contornare e delimitare lo spazio e la partizione degli ambienti (il procoeton dal cubicolo dell'alcova, il vestibolo dall'oecus) e di accompagnare, smorzare o ravvivare pareti troppo vivide o troppo tenui di colore. Sono rapporti di tono e di composizione che il mosaicista pompeiano risolve egregiamente scegliendo e adattando disegno, tecnica e policromia ai varî ambienti con una felicità inventiva e una dosatura cromatica di cui nell'analisi particolare dei singoli pavimenti non si tiene conto. E il carattere decorativo favorisce maggiori possibilità d'uso. Cosicché, a giudicare dal gran numero dei pavimenti a mosaico, è necessario ammettere un esperto artigianato locale con numerose maestranze di bottega, anche se le iscrizioni musive finora apparse o sono gratulatorie e ammonitrici (Have, Havetis intro; cave canem; gaudium lucrum) o, se onomastiche (Felix, Festus, Torquatus, C.I.L., x, 8146), è dubbio se debbano riferirsi al mosaicista (secondo il Della Corte) o al proprietario dell'abitazione; mera ipotesi è comunque la presenza di un'officina di mosaicisti (Reg. iii, 2, 4).

Il tessellato che nell'età augustea e tiberiana usa ancora i fondi monocromi a tessere bianche o nere, minute e serrate, con elementi cruciformi e cornici a fasce lineari, si ravviva e s'impreziosisce di elementi marmorei disposti o in tessuto geometrico di preziose tarsie colorate o in ordine sparso in segmenti bianchi o policromi. Si arricchiscono soprattutto le fasce di una o più cornici a semplice o doppio meandro, a spirale ricorrente, a triangoli diritti e rovesci, a peltae contrapposte, a metope, a fasce turrite che schematicamente rappresentano le mura di una città, ottenendo con l'uso di tessere colorate un forte rilievo plastico. E quando il disegno si trasporta dalle fasce di cornice allo specchio centrale, il centro è occupato da pannelli o rosoni. scompartiti in disegno geometrico che sembrano riflettere il disegno della vòlta. Ma negli ultimi anni della città, nelle case di maggior lusso comincia a prevalere l'opus sectile marmoreo e policromo nelle sale tricliniari e di ricevimento (case dell'insula occidentalis) raramente sfuggito alla spoliazione dei primi ricercatori, così come meglio si nota e si conserva ad Ercolano.

Il mosaico parietale con l'uso esclusivo delle tessere vitree o invetriate, ha a P., come ad Ercolano, una delle più antiche e cospicue sue documentazioni non solo nelle fontane-ninfeo (Case della Fontana Grande, della Fontana Piccola, degli Scienziati, dell'Orso, ecc.) ma giunge a rivestire le colonne del ninfeo d'una villa suburbana (Villa delle Colonne a mosaico) o le pareti di un ambiente con gli stessi motivi (candelabro attraversato da pannelli con amorini) della pittura parietale. E poiché il mosaico resisteva meglio dello stucco e della pittura al calore, una prima applicazione se ne ha a P. nella vòlta d'una sala delle terme suburbane di Porta Marina con pesci che dovevano riflettersi e guizzare nelle acque della natatio (conservato in frammenti).

3. Scultura. - Il cataclisma sismico dell'anno 62 d. C. contribuì alla distruzione delle molte opere d'arte che decoravano gli edifici pubblici, e ciò spiega il numero minore di sculture che P. presenta rispetto ad Ercolano e il fatto che se ne siano ricuperate più dalle abitazioni che dai monumenti. Di statue di culto non c'è che il torso gigantesco di Giove rinvenuto, sembra in fase di lavorazione, nella cella del tempio del Foro, mentre i simulacri della triade capitolina (Giove, Giunone, Minerva), raffigurati più modestamente in statue fittili e in un busto di terracotta, erano stati trasferiti nel tempietto di Giove Meilìchios; incerto è l'originario collocamento nel Tempio d'Apollo dell'Apollo e Diana saettanti, opera di bronzisti italioti e pertinenti verosimilmente a una tarda rielaborazione del gruppo dei Niobidi. Allo stesso gruppo rituale può ascriversi la bella replica del Doriforo che, per essersi trovata nella palestra sannitica e in condizioni di ricevere corone e offerte votive, dovevar affigurare l'Hermes patrono delle palestre. A culti privati, o piuttosto a semplice gusto d'arte, si deve invece la leggiadra statuetta arcaistica di Artemide in cui, pur dubbiosamente, si riconosce il tipo dell'Artemis Làphria di Patrasso (v. artemide), l'Apollino (dalla Casa del Menandro), l'una e l'altro con tracce di policromia, e l'Ercole epitrapèzios da una villa del sobborgo marittimo.

All'uso di adoperare statue in bronzo, preferibilmente argentate o dorate, quali lampadofori, attestato da Lucrezio (De rerum nat., Il, 24 ss.), dobbiamo la scoperta di pregevoli opere d'arte: l'Apollo citaredo (dalla Casa del Citarista) replica dell'Apollo di Mantova (v. apollo); l'Efebo destinato a illuminare il triclinio estivo della Casa di P. Cornelio Tegete; l'Efebo minore proveniente probabilmente dall'officina dell'argentiere che dovette eseguirne l'argentatura (dal suburbio di Porta Vesuvio). Più copiosa e selezionata è la serie della piccola scultura ellenistica in bronzo e in marmo posta generalmente a ornamento di giardini: il Fauno danzante (dalla Casa del Fauno); il Satiro con l'otre (dalla Casa del Centenario); il Sileno ebbro (dalla Casa dei Marmi); il Dioniso o cosiddetto Narcisso (Reg. vii, 12, 21); le statuette dei 4 placentari con vassoio argenteo per portavivande (dalla Casa di P. Cornelio Tegete); il Pescatore seduto (dalla Casa della Seconda Fontana a mosaico); non senza qualche fine scultura in marmo (la replica della Polimnia; un bustino di Afrodite) e qualche bell'esemplare nella serie animalistica. Ma alla piccola scultura decorativa era affidato soprattutto il compito di abbellire peristili, giardini e ninfei con statuette di amorini e satirelli, erme e pìnakes semplici o bifronti con soggetti dionisiaci e maschere teatrali e con oscilla sospesi tra gl'intercolumnî con motivi tolti anch'essi dal corteo bacchico; produzione per lo più artigiana, ma non senza qualche bel prodotto di più diretta ispirazione neoattica. Al di fuori della scultura decorativa vanno ricordati, fra i rilievi, il rilievo votivo in marmo pentelico con Afrodite e offerenti (Ruesch, n. 128); nella serie degli specchi lo specchio con il mito di Fedra (v.); il bel frammento con Sileno nella Casa degli Amorini Dorati; l'ara del cosiddetto Tempio di Vespasiano e, d'arte prettamente popolaresca, i due rilievi votivi del Larario della Casa di Cecilio Giocondo allusivi al cataclisma del terremoto.

Se l'iconografia ellenistica non trovò nell'ambiente culturale delle case e delle ville di P. la stessa eco che ebbe nella Villa dei Pisoni a Ercolano (isolata è la statua fittile di Pittaco nella Casa di Giulia Felice e dubbie le proposte identificazioni di alcuni ritratti con dinasti ellenistici), prezioso è l'apporto all'iconografia romana grazie soprattutto al culto domestico delle imagines maiorum e delle erme ritratto, collocate generalmente nell'atrio della casa. Pochi e degni monumenti annovera l'iconografia imperiale maggiormente colpita dal disastro sismico del 62; la bella statua di Livia della Villa dei Misteri con gli attributi forse di Cerere; un ritratto di Marcello con il capo velato di pontifex; una statua eroica di Druso minore (Ruesch, 971); le presunte statue di Marcello e Livia del Macellum in cui sono piuttosto da supporre due principi dell'età neroniana. Poche statue onorarie dell'iconografia privata: la statua di M. Olconio Rufo in abito di tribuno militare nel quadrivio degli Olconi, la statua di Eumachia dedicata dai fulloni nella monumentale sede della corporazione; più copiosa e pregevole la serie delle erme-ritratto in marmo e in bronzo, tale da poter seguire lo sviluppo della ritrattistica pompeiana dalla fine della Repubblica fino almeno all'età neroniana: i due ritratti dei Poppaei (Casa degli Amorini Dorati); l'erma in bronzo di Norbano Sorice rinvenuta nel tempio d'Iside, indicato come attore mimico (magister secundarum partium) nell'immagine dedicatoria del pagus Augustus Felix suburbanus; le erme di L. Cecilio Giocondo (o di L. Caecilius Felix secondo il de Franciscis), di C. Cornelio Rufo, di Vesonio Primo rinvenute nell'atrio delle rispettive abitazioni; i cinque ritratti della Casa dei Popidii (Casa del Citarista) nei quali si è più propensi a riconoscere ritratti della nobile gens Popidia che personaggi della casa imperiale (oggetto di discussione soprattutto la testa di giovinetto alfine al cosiddetto Bruto Minore). Una classe a sé rappresenta infine la scultura funeraria, non tanto nelle statue in marmo (statua erroneamente attribuita a Suedio Clemente rinvenuta presso il sepolcro degli Istacidi) o in travertino, quanto nelle statue e nei busti in tufo dei sepolcri recentemente scoperti fuori Porta Nocera, dove ritorna rude e vigorosa l'arte schiettamente popolare del lapicida e del coroplasta campano.

4. Arredamento. - È soprattutto nell'infinita suppellettile raccolta in oltre due secoli di scavo, che P. ci dà con il completo arredamento della casa antica, di diverso grado sociale e ricchezza, la vera misura del suo ambiente artistico e delle reali capacità del suo artigianato, pur dovendo osservare che lo scarso numero delle officine d'arte finora scoperte (di un faber aerarius sulla Via dell'Abbondanza (Reg. i, 6, 3); di un'officina di vasaio nella Via dei Sepolcri e nella Reg. ii, 2, 7; di una fornace per lucerne di terracotta nella Reg. i; di un gemmarius nella Casa di Pinario Ceriale, di un argentario fuori Porta Vesuvio), induce a cercare in altre città della Campania i veri centri di produzione delle suppellettili in bronzo, in vetro, in avorio, in argento. Manca peraltro quasi del tutto a P. quel che è un privilegio d'Ercolano, il mobilio in legno. Inoltre è da lamentare che la ricerca antiquaria si sia finora generalmente limitata alla valutazione d'arte, senza tener debito conto di quel che rappresenta la più umile suppellettile per lo studio economico e sociale d'una città antica.

L'arte decorativa del marmista predilige le tavole marmoree dei cartibula che, quando non sono sorrette da un monopodio statuario (satiro, sileno con Dioniso fanciullo, Atlante in terracotta, ritratto del puer Successus), hanno i piedi elegantemente strigilati e artigliati o vigorosamente scolpiti in forma di grifi tra palmette e racemi d'acanto (Casa di Cornelio Rufo); i puteali in marmo (o in terracotta) sulla bocca delle cisterne, strigilati e rastremati nelle forme talvolta di un bomòs ellenistico, e qualche bel labrum di fontana nei giardini dei peristili. Ma più del marmorario è l'arte del bronzista che domina nell'arredamento della casa pompeiana. Prodotto di officine probabilmente tarantine sono due tripodi: l'uno attribuito al tempio d'Iside con Sfingi accovacciate su alte zampe feline sostenenti un braciere ornato di festoni e bucrani e le zampe allacciate da cauli e viticci di acanto che ammorbidiscono l'araldica fissità delle Sfingi; l'altro, attribuito dubbiosamente alla Casa di Giulia Felice, con tre giovani Pan itifallici con la mano protesa nel gesto apotropaico e lunghe articolate zampe caprine.

In questa classe rientrano alcuni eleganti tavoli da mensa e da alcova con piedi o monopodio figurati: un tavolo circolare con teste di levrieri e zampe leonine (R. 1738); un trapezòforo in forma di Sfinge accovacciata dalla Casa del Fauno (Ruesch 1789: altro esemplare della Reg. vi, 16a = R. 1704); una tràpeza sorretta originariamente da una severa erma dionisiaca contro cui s'è venuta posticciamente ad appoggiare una Vittoria con trofeo; infine, ed è la creazione più felice, una mensa marmorea fasciata da una lamina di bronzo con ageminature d'argento e sostenuta da un Amorino cavalcante un delfino, drizzata la pala del remo a schermo e sostegno del monopodio (dagli scavi dell'insula occidentalis). Bustini e protoni in bronzo di amorini, di satiri e baccanti, di animali e di divinità più o meno finemente cesellati e ravvivati dalle ageminature o sono gli ornamenti prediletti dei pulvini dei letti tricliniari o interrompono, come pannelli istoriati, il frontale delle ferrate casse bullonate (arcae) destinate a custodire nell'atrio il peculio con gli oggetti più cari del corredo familiare.

Ma sono gli apparecchi d'illuminazione e di riscaldamento a offrire al bronzista più ricco campo all'estro inventivo e decorativo. E più che nella fragile terracotta, condannata all'usura del calore e alle facili rotture, è nel bronzo che la lucerna acquista saldezza, durata e possibilità di espressione d'arte, ed è P. a darci con le lucerne, i lucernieri e i candelabri la più doviziosa documentazione che si abbia di questa indispensabile necessità di vita. Lucerne monolicni, bilicni, a cinque o più becchi, da poggiare su bassi tripodetti o su alti candelabri raccorciabili, o da appendere, innestate o sostenute da figure estrose, grottesche, caricaturali, illuminano i grandi triclini o l'intimità dell'alcova. Gusto e immaginazione, estro e popolaresco senso d'umorismo concorrono a trasformare il rostro, il disco, il coperchio, il manico, gli elementi funzionali della lucerna, in una varietà sorprendente di motivi figurati, animali e vegetali: o è la bocca semiaperta di un volto umano a ricevere l'olio nel corpo foggiato a otre oleario; o tutto il corpo della lucerna si trasforma in chiocciola e le corna filamentose del mollusco offrono presa alla mano; o è un folletto danzante pileato che tiene in una mano la catenella dello smoccolatoio come una fiocina o un arpione da calare in acqua e da sollevare con la preda. E quando le lucerne si appendono come offerte votive ad un sostegno generalmente arboreo, è il sostegno che si anima con le figure più gioiose che partecipavano alla letizia del convito: amorini suadenti e maliziosi, sileni corpacciuti e traballanti con l'epa gonfia di vino sulle gambe malferme; giocolieri danzanti al suono delle nacchere. E talvolta, come s'è detto, si arriva fino al lusso eccezionale di vere e proprie statue portalampade erette sul loro basamento accanto ai letti tricliniari. Né minor gusto si aveva per gli apparecchi di riscaldamento, per i grandi e piccoli bracieri delle terme e delle abitazioni dove ricorre il prediletto motivo delle mura merlate come nelle fasce dei pavimenti musivi, e soprattutto nelle stufe scaldavivande a corpo cilindrico poggiato su zampe leonine e cespi d'acanto, con i manici di presa foggiati a mano aperta, coperchio e portello ornati di figure, sì da fondere armonicamente decorazione e funzionalità.

Ed egualmente al vasellame in bronzo, più che al vasellame in terracotta, sono riservate forme ed espressioni d'arte. Vengono conservate le belle forme della vascolaria ellenistica, il cratere, l'anfora, l'oinochòe, l'askòs, ma accanto ad esse appaiono la pelvis, la situla con i manici snodati, le paterae, i vasi a conca o a canestro per le frutta con i manici a cerniera, le forme di pasticceria, i colatoi (cola) per il vino e le bevande da filtrare.

L'arte del bronzista si esprime soprattutto nell'eleganza e nella decorazione dei manici e delle anse; nei vasi da attingere è il rituale abbraccio delle palme delle mani intorno al corpo d'una conca più o meno profonda o d'una pelvis; nei vasi da mescere sono animali rampanti o figure arcuate o viticci a volute che accompagnano quasi l'atto della mescita, mentre l'attacco inferiore dell'ansa si appoggia a medaglioni e a protomi con meduse, eroti, sileni o baccanti; nelle situlae, invece, dove i manici sono semplicemente snodabili, la decorazione si sviluppa in una triplice fascia di fregio a rosette, a treccia e a kyma lesbio intorno all'orlo o, come nello stupendo esemplare della Casa del Menandro, si estende al di sotto delle anse in una palmetta con due grifoni araldicamente contrapposti con borchie d'argento incastonate come gemme nelle volute della palmetta. Ma anche agli oggetti più umili l'artigiano bronzista imprime il suo gusto: nei colatoi i fori del filtro sono composti e intrecciati in rosoni e disegni come se si trattasse di emblemi di un pavimento musivo.

5. Argenterie. - Nel vasellame da mensa particolare rilievo hanno le argenterie di cui P. ci ha dato una delle più ricche documentazioni. Pezzi isolati di vasi potori figurati a sbalzo con la consueta tecnica della caelatura, accompagnati da oggetti più comuni del servizio da bocca, sono venuti alla luce da più case in vari periodi dello scavo: una coppia di kàntharoi con amorini cavalcanti su toro e pantera tra maschere ed emblemi dionisiaci (Ruesch 1876); un kàntharos con tritoni e nereidi in lotta contro mostri marini (Boll. d'Arte, 1928, p. 433); un kàntharos con Eros cavalcante un delfino (Not. Scavi, 1929, p. 374, fig. 10); due bicchieri con figure isiache di carattere probabilmente liturgico (Not. Scavi, 1939, p. 223 s., tav. xii-xiii). Ma veri e proprî servizi da mensa si ebbero con la scoperta (1835) di 14 pezzi dalla Casa dell'Argenteria sulla Via di Mercurio, fra cui una coppia di kàntharoi con centauri ed amorini e, successivamente (1895), del ricco servizio di argenteria della Villa di Boscoreale composto di 102 pezzi (Museo del Louvre), e di quello, non meno ricco, scoperto nella Casa del Menandro (1932) di 118 pezzi (museo di Napoli). Senza tener conto delle argenterie non strettamente pertinenti al servizio della mensa (phialae con emblemi figurati e specchi), e raggruppando il vasellame in argentum potorium e argentum escarium, di vero pregio d'arte è il vasellame da bere con soggetti figurati e motivi naturalistici nelle tipiche forme delle tazze biansate (sköphoi), delle coppe a calice (kàntharoi) o troncoconiche (kàlathoi e modioli), generalmente a una o al massimo a due coppie. Pur ricorrendo il comune prediletto tema degli amorini e quello naturalistico dei rami d'ulivo con le bacche pendule, singolare è la varietà dei temi figurati fra l'uno e l'altro tesoro d'argenteria: a Boscoreale la coppia di bicchieri con la macabra raffigurazione degli scheletri di filosofi epicurei e di poeti, allusiva all'uso della larva convivialis (rinvenuta anch'essa a P.) e la coppia di kàntharoi con scene del volo e della vita delle gru; nella Casa del Menandro la coppia di skyphoi con scene paesistiche, delle fatiche d'Ercole e degli amori di Venere e Marte. Dell'argentum escarium sono elementi essenziali: le patherae, la lanx, la trulla, le ligulae, i cochlearia, le scutellae, il ferculum. Un singolare dipinto nel sepolcro di Vestono Prisco, a Porta Vesuvio, presenta una mensa imbandita con un ricco servizio d'argenteria, quasi ad assicurare, oltre la morte, la continuità di un sontuoso costume conviviale.

6. Vetri. - Non molti, ma di singolare pregio, sono i vetri d'arte raccolti a Pompei. Nella classe dei vetri-cammeo con plasma vitreo eburneo intagliato a rilievo su lastra di supporto a fondo azzurro, con scene figurate e motivi ornamentali, sono: il cosiddetto Vaso blu in forma di amphorìskos con scene di amorini vendemmianti e grande palmetta a tralci di vite, raccolto da un sepolcro fuori Porta Ercolano nella sua funzione di balsamario funebre; una trulla con maschera di Pan tra una ghirlanda di pampini di vite e manico a testa di ariete (Casa del Poeta Tragico); una brocchetta con tralci di edera e di vite (Casa di Goethe ?: British Museum); due pannelli rettangolari con scene del mito di Dioniso e Arianna (dai recenti scavi dell'insula occidentalis). Vanno aggiunti alla classe dei vetri colorati varie coppe nei colori prevalentemente di azzurro e di verde con applicazione di maschere teatrali o dionisiache, piatti fiorati e marezzati a colori policromi (cosiddetti millefiori); due medaglioni di cristallo con ritratto dipinto e, infine, nella tecnica dei vetri dorati) varî frammenti (nel museo) e i dischi della Casa degli Amorini Dorati (distrutti durante l'ultima guerra). Pressoché inesausta è invece la classe dei vetri bianchi o colorati da naturali iridescenze, che costituiscono con il loro terminus ante quem la classe cronologicamente più definita dell'industria vetraria romana. Sono vetri soffiati e destinati a completare il servizio della mensa: bicchieri di sottilissimo spessore, quasi a guscio d'uovo, baccellati e costolati o decorati di piccole bugne a gocce; coppe emisferiche a orlo ripiegato o svasato e anch'esse costolate; per i vasi da mescere rari l'askòs e il rhytòn, comune la bottiglia sferica, globulare e quadrata e, infine, i piatti che si collocano fra la spregiata terracotta e le scutellae argentee; anfore e olle d'una pasta vetrosa più robusta, sono destinate spesso a vasi cinerarî nei loculi dei sepolcri. Infine a P., come ad Ercolano, la scoperta di lastre di vetro, più o meno spesso, accanto a finestre quadrate o circolari, attesta l'uso comune del vetro alle finestre d'illuminazione. Indice del gusto esotico della casa pompeiana è il frequente rinvenimento che vi si fa di ceramiche invetriate: dalle coppe emisferiche con decorazione a rilievo e dalle serie animalistiche di batraci, coccodrilli e volatili, alla raffigurazione del dio Bes che tradisce l'origine alessandrina nilotica del maggior centro di produzione.

7. Terrecotte. Stucco. - Che P. non restasse estranea alla grande plastica in terracotta quale si produceva soprattutto a Cales e a Capua, si ricava dalle grandi statue fittili di Giove e Giunone e dal busto di Minerva che sostituirono i simulacri della triade capitolina, da altre statue fittili provenienti da un santuario suburbano e, infine, dal superbo Atlante trapezoforo di gusto ancora ellenistico. Ma la coroplastica nunore non ha dato né ricche stipi votive, né varietà e finezza di prodotti; vi ricorre il gruppo della pietà filiale di Mikon e Pero, la fuga di Enea con Anchise e Ascanio e, più cari al gusto popolare, tipi e motivi desunti dal teatro; un busto caricaturale, figure di attori, maschere teatrali. Ingente è invece la massa delle terrecotte architettoniche raccolte dàgli edifici e dalle case, tale da accompagnare i varî periodi dell'edilizia pompeiana: dalle terrecotte arcaiche del tempio greco e del tempio d'Apollo (VI-V sec. a. C.), alle terrecotte della fase sannitico-ellenistica del tempio greco, della Basilica, della Casa del Fauno, alle copiose serie delle gronde del periodo romano, disposte generalmente intorno ai compluvi e terminanti a testa di leone, di cane, di delfino, con antefisse a palmetta o a testa di medusa. In qualche caso, negli atrioli minori, la cassetta del compluvio, con le gronde figurate e le palmette, era ricavata da un sol pezzo (atriolo della Casa del Menandro).

Lo stucco, dopo aver assolto la sua funzione di rivestimento (tectorium) e di sagomatura delle cornici, dei pannelli, delle bugne, delle paraste e dei capitelli delle pareti di I stile, comincia ad assumere a P. la sua funzione decorativa sulle vòlte e sulle pareti dalla prima età augustea in poi. Gli esempî più nobili vengono dagli stucchi della vòlta del lussuoso oecus della Casa del Criptoportico su pareti di II stile intramezzate da grandi erme dipinte; di accademica eleganza è la decorazione delle pareti del calidario della sezione femminile delle Terme Stabiane, mentre più fastose appaiono le vòlte a cassettoni dell'apoditerio maschile delle stesse terme con sottoposta zona di edicole e amorini, e del tepidario delle Terme del Foro con fregio a volute e riquadri con figure di Vittorie, intramezzati da candelabri e chiaramente ispirati alle composizioni della pittura di IV stile. Di gusto imbarocchito appaiono alcune pareti a stucco e pittura di effetto plastico e scenografico con motivi dionisiaci e teatrali. La mancanza di grandi camere sepolcrali non ci ha dato nella necropoli di P. stucchi di particolare interesse, ma solo fini opere di rivestimento delle strutture murarie. Unico esempio di fregio figurato è quello del Larario della cosiddetta Casa Omerica (Reg. 1, 6, 4) con la rappresentazione degli episodî degli ultimi canti dell'Iliade: il duello fra Ettore e Achille, la morte e il riscatto del cadavere di Ettore con i doni recati da Priamo alla tenda di Achille, scene rese nel loro pàthos da un artista non legato al freddo schema decorativo delle vòlte a stucco. Ma una vera e propria attività plastica lasciano supporre due ritratti in stucco (distrutti dagli eventi bellici del 1943), per i quali si è supposto o che servissero da forme di fusione o da stampo per ricavarne a sbalzo ritratti in argento.

8. Ori. Gemme. Avori. - Con i preziosi raccolti nelle case e sul corpo dei fuggiaschi P. ci dà una delle più omogenee e ricche documentazioni dell'oreficeria romana, una oreficeria che, pur derivando dalle forme e dalla tecnica delle ultime officine tarantine, rappresenta il nuovo gusto della società pompeiana dell'ultima età della Repubblica e del I sec. dell'impero, volto più al lucore e al rilievo plastico delle superfici che alla finezza del lavoro e all'estro inventivo: anelli con castone aureo liscio o semplicemente graffito o col castone riempito da paste vitree o da pietre incise e figurate di un lavoro generalmente artigianale; orecchini a spicchio o a grappolo più o meno gremito di perle; armille serpentiformi e per lo più massicce desinenti a testa viperina illuminata dai sinistri bagliori dello smalto; bracciali a coppette emisferiche cave legate da maglie a catena; collane a fasce nastriformi intramezzate negli esemplarî più vistosi da piastrine di madreperla e plasma vitreo; bullae auree per adolescenti. Oreficeria che doveva essere in gran parte di officine locali se dobbiamo prestar fede al fregio degli amorini orafi metallurgi nella Casa dei Vettii e alla presenza di una corporazione di aurifices (aurifices universi, C.I.L., iv, 710) che dovevano soddisfare le esigenze di una clientela numerosa e danarosa. Ancor più sicuramente documentata appare l'arte della glittica; non tanto dall'acclamazione Priscus caelator gemmario Campano feliciter (C.I.L., iv, 8506), quanto dalla scoperta nella Casa di Pinario Ceriale (Reg. III, 3, 3) di una vera e propria officina di lavoro, di 114 pietre dure insieme con tre coltellini con manico d'avorio adoperati come bulini; delle pietre dure, tra cui una sardonica, varie ametiste e molte corniole, buona parte era ancora grezza, altre solo levigate e un piccolo gruppo era formato da paste vitree incise o intagliate come cammei.

Un negotiator eborarius, intagliatore di avorî e di ossi, si è voluto vedere nella teberna tenuta da un tal Furius presso Porta Marina (Reg. VII, 7, 11) e la raccolta pompeiana prova una notevole attività di quell'industria d'arte. Rari gli oggetti in avorio d'importazione tra cui spiccano per bellezza o rarità una statuetta eburnea di Atlante di ancora schietto gusto ellenistico e, del tutto esotica, una statuetta indiana nell'arte di Gandhāra raffigurante probabilmente la dea Laksmī, preziosa testimonianza dei rapporti commerciali che si aprirono nell'età neroniana con il Mar Rosso. Assai più copiosa la serie degli ossi intagliati, di produzione locale, con figure di sileni e di menadi destinati, come crustae, a rivestire le pareti d'un cofanetto o i fulcri d'un letto.

Bibl.: Della vasta e varia letteratura promossa dagli scavi di P. si indicheranno qui le opere essenziali: valgono come orientamento le bibliografie particolari: F. Furcheim, Bibliografja di Pompei, Ercolano e Stabia, 2a ed., Napoli 1891; A. Mau-F. Drexel, Anhang zur 2a. Auflage, 1913 (Appendice critico-bibliografica al manuale del Mau, v. appresso); A. W. van Buren, A Companion to the Study of Pompeii and Herculaneum, 2a ed., American Acad. in Rome, 1933; A. Mau-E. Mercklin, Katalog d. Bibliothek d. deutsch. arch. Inst., I, Roma 1914, pp. 469-488 e i supplementi di E. v. Mercklin e F. Matz, Berlino-Lipsia 1930, pp. 215-219; Riv. di studi pompeiani, 1935-46, con esame e rassegne bibliografiche; A. Maiuri, Gli studi pompeiani nel 2° centenario degli scavi, Roma 1948; P. Ciprotti, Rassegna bibliografica pompeiana (1946-55), in Studia et documenta Historiae et Juris, XXI, 1955, p. 409 ss.

Opere generali: F. Mazois, Les ruines de Pompéi, I-IV, Parigi 1824-38; F.-F. Niccolini, Le case e i monumenti di P. disegnati e descritti, voll. 4, Napoli 1854-96; G. Fiorelli, Descrizione di Pompei, Napoli 1875; J. Overbeck-A. Mau, Pompeji in seinen Gebäuden, Alterthümer u. Kunstwerke, Lipsia 1884; A. Mau, Pompeji in Leben u. Kunst, 2a ed., Lipsia 1908 (ed. ingl. del Kelsey); A. Thedénat, Pompéji, Parigi 1910 (I vol.: Histoire, Vie privée; II vol.: Vie publique); F. von Duhn, Pompeji, eine helelnistische Stadt in Italien, 3a ed., Lipsia 1918; A. Sogliano, Pompei nel suo sviluppo storico - Pompei preromana (dalle origini all'a. 80 a. C.), Roma 1937; R. C. Carrington, Pompéi, Oxford 1936 (Parigi 1937); A. Maiuri, Introduzione allo studio di P. (corsi presso l'università di Napoli), 1943-49; A. W. van Buren, Pompeii, in Pauly-Wissowa, XXI, 1952, c. 1999 ss.; V. Spinazzola, POmpei alla luce dei nuovi scavi di Via dell'Abbondanza (1910-23), 2 voll. di testo e una cartella con 98 tavv., Roma 1953. Di carattere sintetico e divulgativo: A. Maiuri, Pompei, Novara (in più edizioni dal 1928 al 1960), oltre a numerose Guide e Itinerari a cura di più studiosi e in varie lingue.

A) Topografia: Noack, Lehmann-Hartleben, Untersuchungen am Stadtrand von P., Berlino-Lipsia 1936; I. Sgobbo, Un complesso di edifici sannitici e i quartieri di P. per la prima volta riconosciuti, in Mem. Acc. Arch. Lett. e B. A. Napoli, VI, 1938, p. 25 ss.; A. von Gerkan, Der Stadtplan von Pompeji, Sonderabdruck Arch. Inst., Berlino 1940, su cui A. Maiuri, in Mem. Acc. Lincei, S. VII, IV, 1943, p. 121 ss.; G. O. Onorato, La sistemazione stradale del quartiere del Foro triangolare di P., in Rend. Acc. Lincei, VI, 1951, p. 250 ss.

B) Storia: i. Gli avvenimenti storici. Sulla discussa influenza greca ed etrusca a P. nell'impianto e nell'edilizia oltre alla nota critica nell'Anhang del Mau-Drexel, p. 3, v. il riassunto in A. Maiuri, Aspetti e problemi dell'arch. campana, in Saggi di varia antichità, Venezia 1954, p. 38 ss., e soprattutto dello stesso, Greci ed Etruschi a P., in Mem. Accad. Lincei, S. VII, IV, 1943, p. 121 ss. in opposizione alel teorie del Patroni e del Sogliano. Sulle prime istituzioin romane: G. O. Onorato, P., municipium e colonia romana, in Rend. Acc. Arch. Lett. e B. A. Napoli, XXVI, 1951, p. 115 ss. - 2. Il terremoto. G. O. Onorato in Rend. Acc. Lincei, S. VIII, IV, 1949, p. 644 ss., con bibl. prec. - 3. L'eruzione. M. Ruggiero, Dell'eruzione del Vesuvio dell'a. LXXIX, in P. e la regione sotterrata dal Vesuvio, Napoli 1879, p. i ss.; A. Maiuri, Nuovi studi e ricerche intorno al seppellimento di Ercolano, in Rend. Acc. d'Italia, Cl. sc. mor. e stor., 1940-1, p. 127 ss.; id., Geologia ed archeologia ad Ercolano e a Pompei, in Rend. Acc. Arch. Lett. e B. A. di Napoli, XXII, 1942, p. 5 ss.; cfr. F. Ippolito, Sul meccanismo del seppellimento di P. e d'Ercolano, in Pompeiana, Napoli 1950, pp. 387-395. Un buon commento alle lettere di Plinio è di F. Lehmann-Hartleben, Plinio il Giovane - Letture scelte con commento archeologico. Testi della Scuola Norm. Sup. di Pisa, vol. III, Firenze 1936. Sulla rinascita di P. affermata dal Fiorelli, dal Sogliano, dal Thedénat, v. la confutazione di G. De Sanna, in Riv. indo-gr. ital., I, 1917, fasc. 3, pp. 69-76. Sui rapporti fra Nocera e P. e le vere cause della rissa dell'a. 59, v. A. Maiuri, Pompei e Nocera, in Rend. Acc. Arch. Lett. e B. A. di Napoli, XXXIII, 1958. - 4. Storia delle scoperte. G. Fiorelli, Pompeianarum Antiquitatum Historia, I, III, Napoli 1860-64 (tratta dai giornali e rapporti di scavo fino al 1860, mancante peraltro di indici di riferimento); relazioni periodiche si hanno nel Bull. Arch. Napol., I-VI, 1842-48 e, successivamente, nel Bull. Arch. Ital., 1861-62 e nel Giornale d. scavi di P., Napoli 1861-65 e N. S. 1868-79 e contemporaneamente, nel Boll. dell'Ist. di corrisp. arch., 1829-55 e Röm. Mitt., 1886 ss.; dal 1876 le relazioni sono periodicamente pubblicate nelle Not. Scavi (v. Indici) a firma soprattutto di Sogliano, Spinazzola, Della Corte, Spano, Maiuri. Di alcuni periodi di scavo trattato particolarmente: G. Fiorelli, Gli scavi di P. dal 1861 al 1872, Napoli 1873; L. Viola, Gli scavi di P. dal 1873 al 1878; A. Sogliano, Gli scavi di P. dal 1878 al 1900, in Atti del Congr. stor. di Roma, V, 1904, pp. 295-349; A. Maiuri, Gli scavi di P. dal 1879 al 1948, in Pompeiana, studi per il bicentenario pompeiano, Napoli 1950, pp. 9-40 (cfr. id., Saggi di varia antichità, cit., p. 317 ss.); id., Pompei, Sterro dei cumuli e isolamento della cinta muale, in Boll. d'Arte, 1960, pp. 166-179.

C) Impianto e sviluppo urbanistico. 1-3: v. A) Topografia e inoltre, per il lido e il porto di P.: M. Ruggiero, Del sito di P. e dell'antico lido del mare, in P. e la regione sotterrata dal Vesuvio, Napoli 1879, pp. 5-14; L. Jacono, Note di archeologia marittima, in Neapolis, I, 1914, p. 353; A. Sogliano, P. nel suo sviluppo storico, Roma 1937, p. 17 ss., figg. 5-6. Sul porto oltre allo Anhang del Mau-Drexel,p. 3 s.: M. Baratta, in Athenaeum, XXI, 1933, p. 250 ss.; il breve rapporto di F. Fienga sullo scavo del pago marittimo, in Atti del III Congr. Naz. di St. rom., 1933; A. Maiuri, Navalia pompeiana, in Rend. Acc. Arch. Lett. e B. A. di Napoli, XXXIII, 1958, p. 7 ss.; sulle Salinae Herculae e l'ubicazione di Oplonti, A. Maiuri, Note di topografia pompeiana, in Rend. Accad. Arch. Lett. e B. A. di Napoli, XXXIV, 1959, p. 73 ss. - 4. Materiali e tecniche di costruzione sono stati oggetto di accurato esame da parte dei più esperti pompeianisti (Fiorelli, Nissen, Schöne, Ruggiero, Mau, Carrington, Blake) e particolare rilievo hanno avuto nella trattazione generale di G. Lugli, La tecnica edilizia romana con speciale riguardo a Roma e al Lazio, Roma 1957; una trattazione sistematica delle strutture e dei restauri posteriori al terremoto è in A. Maiuri, L'ultima fase edilizia di P., Roma 1942. - 5. Le fortificazioni. A. Maiuri, Studi e ricerche sulla fortificazione di P., in Mon. Ant. Lincei, XXXIII, 1930, cc. 113-286. - 6. Il Foro. A. Sogliano, Il Foro di P., in Mem. Acc. Lincei, S. VI, I, fasc. III, 1925 (alle cui teorie si oppongono i risultati delle esplorazioni di A. Maiuri, in Not. Scavi, 1942, p. 309 ss. - 7. Edilizia pubblica. Oltre alle buone trattazioni nei manuali soprattutto dell'Overbeck-Mau e del Mau, da segnalare: Koldewey-Puchstein, Die griechischen Tempel in Unteritalien u. Sicilien, Berlino 1899 (Dorische Tempel in P., pp. 45-49, tav. V; per le recenti scoperte della decorazione architettonica del periodo greco e sannitico, v. A. Maiuri, Introduzione allo studio di P., cit.); A. Sogliano, La Basilica di P., in Mem. Accad. Arch. Lett. e B. A. di Napoli, di A. Maiuri, Not. Scavi, 1951, pp. 225-250; sulle ultime vicende edilizie dei monumenti pubblici, A. Maiuri, L'ultima fase edilizia di P., cit. - 8 a). Edilizia privata. Oltre alla discussa questione sull'origine e datazione della domus suscitata dai numerosi scritti del Patroni (v. Anhang del Mau-Drexel, p. 41 e A. Sogliano, P. nel suo sviluppo storico, cit.: P. perromana, cit., ispirato anch'esso alle teorie del Patroni), si veda A. Maiuri, La casa a Pompei (corso universitario 1950-51); id., La Casa del Menandro, Roma 1933; id., Portico e Peristilio, in La Parola del Passato, 1946, p. 306 ss.; id., Gineceo e "Hospitium" nella casa pompeiana, in Mem. Accad. Lincei, S. VIII, V, 1954, p. 449 ss.; id., Gli oeci vitruviani nella casa pomp. ed ercolanese, in Palladio, 1952, p. i ss. Sulle strutture della casa calcaea, fondamentale l'analisi particolareggiata e metrologica del Nissen, Pompeianische Studien, Lipsia 1877, e su alcuni elementi della decorazione architettonica della casa sannitica ed ellenistica: A. Maiuri, Portali con capitelli cubici a P., in Rend. Accad. Arch. Lett. e B. A. di Napoli, XXXIII, 1958, pp. 203-218, e M. Napoli, Il capitello ionico a quattro facce a P., in Pompeiana, 1950, pp. 230-265. 8 b). Ville e masserie. Sulle ville rustiche: A. Pasqui, La villa pompeiana della Pisanella presso Boscoreale, in Mon. Ant. Linc., VII, 1897, pp. 397-554; un buon gruppo è pubblicato da M. Della Corte, Ville del suburbio pompeiano, in Not. Scavi, 1921-23 (cfr. l'elenco in M. Rostovzev, Storia economica e sociale dell'impero romano, [trad. it.], Firenze 1933, p. 33, nota 26 e p. 70, nota 21); un primo studio d'insieme è di R. C. Carrington, Studies in the Campanian Villae rusticae, in Journ. Rom. Stud., XXI, 1931, p. 110; id., Some Ancient Italian Country Houses, in Antiquity, sett. 1934. Sull'origine e sviluppo della villa signorile, v. A. Maiuri, La Villa dei Misteri, Roma 1931, 2a ed., 1947; cfr. F. Barnabei, La Villa di P. Fannio Sinistore scoperta presso Boscoreale, Roma 1901; A. Maiuri-R. Pane, La Casa di Loreio Tiburtino e la Villa di Diomede in P., Roma 1947. 8 c). Necropoli. Sulla necropoli preromana: F. von Duhn, Italische Gräberkunde, Heidelberg pp. 621-24; A. Sogliano, P. nel suo sviluppo storico, cit., I, pp. 269-78 (ivi bibl.; sulla necropoli romana fuori Porta Ercolano preziosa ancora l'illustrazione di F. Mazois, Les ruines de P., cit., I, con disegni di pianta e di elevato dei singoli sepolcri; per gli altri minori gruppi di sepolcri fuori Porta del Vesuvio, di Nola, di Stabia e dell'Anfiteatro v. lo Anhang del Mau-Drexel, p. 59 s.; sulla recente scoperta della necropoli fuori Porta Nocera un cenno preliminare è in A. Maiuri, Pompei - Itineario, 10a ed., p. 90 s.

D) Arte: i. Pittura: v. pittura; v. oltre pompeiani, stili. 2. Mosaico: v. mosaico. - 3. Scultura. Per il Doriforo (v. doriforo), l'Artemide (v. artemide); per le sculture in bronzo v. la bibliografia (anteriore al 1905) nella Guida Ruesch del Museo Naz. di Napoli; A. Maiuri, L'Efebo di Via dell'Abbondanza, in Boll. d'Arte, 1925-26, pp. 337-353; id., Antike Denkmäler, IV, 1929, p. 43 ss.; cfr. G. E. Rizzo, Copie romane della statua di bronzo a P., in Boll. Com. di Roma, LIII, 1925, pp. 13-54. Per la ritrattistica: A. De Franciscis, Il ritratto romano a P., in Mem. Accad. Arch. Lett. e B. A. di Napoli, I, 1951; A. Maiuri, Ritratto di Marcello a P., in Le Arti, II, 1940, p. 146 ss.; id., Statua marmorea con ritratto di Livia, in Boll. d'Arte, luglio 1930, pp. 3-17 (cfr. La Villa dei Misteri); id., Statuetta eburnea d'arte indiana a P., in Le Arti, I, 1938, p. 111 ss. Per l'artigianato in genere: D. Mustilli, Botteghe di scultori, marmorari, bronzieri e "caelatores" in P., in Pompeiana, cit., p. 206-229. - 4. Arredamento. E. Pernice, Gefässe u. Geräte aus Bronze, in Die hellenistische Kunst in P., Napoli 1928; id., Hellenistische Tische, Zisternenmündungen, Beckenuntersätze, Altäre u. Truhen, in Die hellenist. Kunst in P., V, 1932; cfr. la Guida Ruesch, pp. 352-386. - 5. Argenterie. Héron de Villefosse, Le trésor de Boscoreale, in Monuments Piot, V, 1899; A. Maiuri, La Casa del Menandro e il suo tesoro di argenteria, cit., Roma 1933: id., Coppa argentea figurata a sbalzo, in Boll. d'Arte, marzo 1928; id., Not. Scavi, 1939-40, p. 223 ss., tavv. XII-XIII (due bicchieri con figure isiache); G. Q. Giglioli, Disco argenteo pompeiano, in Bull. Com. di Roma, 1941; cfr. H. Ruesch, op. cit., pp. 409-413, n. 1975-92. - 6. Vetri, cammei. E. Simon, Die Portlandvase, Magonza 1957 (v. anche portland, vaso di); A. Maiuri, Due pannelli vitrei figurati da P., in Boll. d'Arte, 1961, p. 1844. - 7. Terrecotte. H. von Rohden, Die Terrakotten von P., Stoccarda 1880; A. Levi, Le terrecotte figurate nel Museo Naz. di Napoli, Firenze 1926 (per P., v. pp. 181-204, n. 799-875); H. Koch, Die Dachterrakotten in Campanien, Berlino 1912; id., in Röm. Mitt., XXX, 115, p. i ss. - 8. Oreficeria. L. Breglia, Catalogo delle oreficerie del Museo Naz. di Napoli (a p. 191 l'indice delle provenienze da P., v. anche oreficeria). Per le monete: sull'aureo di Augusto da P.: E. Gabrici, La monetazione di Augusto, Roma 1938, p. 379 ss.; L. Breglia, Circolazione monetale ed aspetti della vita economica a P., in Pompeiana, cit., pp. 41-59.

(† A. Maiuri)