di Mario Caravale e Claudio Cesa
POPOLO
Antichità e Medioevo di
sommario: 1. Età antica. a) Il demos greco. b) Il populus romano nell'età arcaica. c) Il populus romano come comunità dei cives romani o come persona giuridica. d) Il populus romano nel quadro dell'ordinamento repubblicano. e) Il populus romano nel quadro dell'ordinamento imperiale. 2. Età medievale. a) Il populus nell'alto Medioevo. b) Il populus nel basso Medioevo. c) Il ruolo del populus nell'elezione episcopale. d) Il ruolo del populus negli ordinamenti unitari facenti capo a un principe. e) Gli altri significati di populus nel basso Medioevo. □ Bibliografia.
1. Età antica
a) Il demos greco
La storiografia ha da tempo sottolineato la pluralità di significati attribuiti dalle fonti greche al termine demos. Probabilmente derivante dalla radice da(i)=dividere, demos (o damos) indica nella più antica società micenea sia "un insieme, un gruppo di uomini non schiavi, dediti all'agricoltura e all'allevamento" (v. Cagnazzi, 1980, p. 304), sia la terra da costoro posseduta e lavorata in comune (v. Donland, 1970, pp. 382 s.). Tale duplice significato si ritrova in Omero, affiancato, peraltro, ad altre due accezioni: quella di esercito composto dall'intera comunità - e quindi non più somma di singole famiglie in armi -, con una possibile identificazione tra i termini damos e laos (=popolo in armi) che potrebbero essere due forme della medesima parola differenziate dalla variazione d/l; quella di popolo separato, o comunque distinto, dal re o da chi lo guidava (v. Cagnazzi, 1980, p. 307).
Quest'ultimo significato conobbe importanti sviluppi in epoca successiva, quando venne confermato l'uso del termine per individuare non già l'intera popolazione, ma solo la parte più numerosa di essa, esclusa dalla gestione del potere e quindi contrapposta a chi governava. In questo senso la parola risulta usata in Solone, in
Nel corso del V secolo, poi, la parola conobbe un'interessante evoluzione semantica nel linguaggio politico ateniese. L'uso antico di demos come insieme della comunità cittadina è a fondamento della duplice valenza assunta dalla parola nel quadro del regime di
L'identificazione del demos con la comunità intera e quindi con la polis si ritrova anche nel linguaggio degli oratori attici del IV secolo, dove, peraltro, si intreccia con un'accezione più ristretta che si riallaccia al significato, già documentato in passato, di popolazione contrapposta ai detentori del potere (re o oligarchi), e con esso il termine passa a designare la 'parte democratica'. Tale seconda accezione trova un'enfasi particolare nei discorsi rivolti all'assemblea dagli oratori per suscitarne l'entusiasmo nei momenti più decisivi della lotta politica (v. Cagnazzi, 1980, pp. 309-312).
Nel sottolineare la molteplicità degli usi di demos nelle fonti greche, la storiografia ha peraltro precisato che il termine non risulta mai corrispondere a una specifica 'classe' sociale nel senso definito dalla storiografia materialista (v. Finley, 1977; tr. it., pp. 117 ss.): una precisazione, questa, generalmente accettata anche dagli storici che in anni non lontani hanno ritenuto legittimo e corretto l'uso del concetto di classe per le società antiche. Minor accordo tra gli studiosi si rinviene, invece, sulla possibilità di assegnare alla parola demos il significato di popolo sovrano: secondo alcuni tale accezione si rinviene nel linguaggio politico degli oratori attici del IV secolo (v. Cagnazzi, 1980, p. 311), mentre per altri la demokratia ateniese non avrebbe comportato la pretesa popolare del monopolio del potere, bensì la mera richiesta di partecipazione di tutti alle istituzioni preposte alla tutela dei singoli e dei loro diritti, diritti che preesistevano alle istituzioni medesime e a esse non erano sottoposti (v. Musti, 1989, pp. 342 ss.). Né, infine, è stata ritenuta applicabile al mondo greco quell'astrazione giuridica che, secondo una consistente corrente storiografica, sarebbe stata elaborata dalla dottrina romana per configurare
b) Il populus romano nell'età arcaica
Questioni analoghe a quelle riguardanti il demos greco sorgono a proposito del populus romano, tema che è stato esaminato con particolare attenzione dagli storici del diritto e della società. I principali problemi esaminati riguardano il significato del populus in età arcaica, la possibilità di individuare per l'epoca repubblicana una concezione astratta del popolo che lo configuri come persona giuridica distinta dai singoli componenti e assimilabile allo Stato della società odierna, il ruolo del populus nel quadro istituzionale di
Per quanto riguarda il primo problema le difficoltà di interpretazione nascono soprattutto dalla mancanza di testimonianze coeve e dalla necessità di rifarsi a fonti di età repubblicana che usano per il periodo delle origini di Roma una terminologia e una concezione politico-giuridica maturate soltanto nella loro epoca. Incerta è l'etimologia del termine, che potrebbe derivare da una radice indoeuropea usata per individuare l'insieme di una comunità, oppure da una radice mediterranea, più in particolare latina e osco-umbra (poplo-) che limiterebbe l'indicazione alla sola comunità in armi e, di conseguenza, ai soli maschi adulti (v. Peppe, 1985). Anche se l'etimologia della parola resta ignota (v. Magdelain, 1990, p. 473), la storiografia prevalente sembra convinta dell'identità nella Roma arcaica tra populus ed esercito: una tesi che, sostenuta dal Mommsen (v., 1886), ha trovato ampie e autorevoli adesioni presso gli storici successivi, in particolare da parte di
L'identificazione del populus della Roma arcaica con l'esercito fa sorgere innanzitutto il problema della sua composizione. Nel secolo scorso ha prevalso la tesi che giudicava l'esercito formato dai soli patrizi e di conseguenza escludeva la plebs dal populus originario. In particolare tale idea venne approfondita all'inizio dell'Ottocento da Niebuhr, il quale affermò che nei primi tempi di Roma la città era abitata dai patres e dai loro clienti, mentre la plebs risiedeva in campagna: in origine l'esercito sarebbe stato composto dai soli patres, mentre a partire da
Tale interpretazione venne messa in dubbio alla fine del secolo da J.G. Cuno, il quale sostenne che populus e plebs non sono due termini antitetici, bensì parole derivanti da due lingue diverse che esprimono il medesimo concetto: populus avrebbe una radice etrusca (la stessa che si riscontra in nomi di località, come
In particolare alcuni autori affermano che il termine plebs non è nato agli albori dell'Urbe, ma cominciò a essere usato in età repubblicana quando la parte della popolazione fino ad allora esclusa dal governo conquistò la parità di diritti con i patres e volle trovare un termine che rendesse visibile la propria presenza all'interno del popolo. Plebs e populus, allora, coinciderebbero e l'espressione populus plebesque, attestata in tante fonti di età repubblicana, non starebbe a indicare due gruppi contrapposti, bensì l'articolazione della comunità cittadina, come sarebbe testimoniato dall'altra espressione, Senatus Populusque Romanus, che non intendeva mostrare due gruppi contrapposti, dato che i patres facevano certamente parte del populus (v. Mitchell, 1990, pp. 156 ss.). E in effetti nelle ricostruzioni della Roma di
Oggi, dunque, la storiografia sembra convinta che "il termine populus non si sia mai riferito al solo patriziato" (v. Richard, 1978, p. 132) e che, di conseguenza, anche i plebei facevano parte dell'esercito e della cittadinanza (v. Mitchell, 1990, p. 157). Peraltro
L'interpretazione ora esaminata presenta altri due aspetti interessanti. Da un canto essa propone per il periodo arcaico una distinzione non solo tra populus e patres, ma anche tra populus e rex (ibid., p. 473), riproponendo un'opinione già in precedenza formulata da una parte degli studiosi (v. Coli, 1951, pp. 11 ss. e 53-56) e individuando nella Roma monarchica le radici dell'articolazione in magistrati, Senato, popolo che caratterizza il periodo repubblicano, con la sola variante del re in luogo dei magistrati. Dall'altro finisce con lo spezzare il nesso populus-esercito postulato da tanti studiosi, dato che fa risalire all'istituzione sotto Romolo delle trenta curie quella definizione del popolo come insieme di cittadini, e non già di soldati, che gli altri studiosi datano in epoca posteriore, poiché la fanno coincidere con l'introduzione del censo sotto Servio Tullio (v. Mitchell, 1990, pp. 157 ss.): la formula Populus Romanus Quirites, che la lettura in esame colloca alle origini di Roma, starebbe appunto a evidenziare il significato civile, contrapposto a quello militare, dei componenti la comunità romana, dato che i Quirites sono i co-vires, cioè tutti i componenti della comunità al di là del loro impiego nell'esercito (v. Magdelain, 1990, p. 474).
c) Il populus romano come comunità dei cives romani o come persona giuridica
Ancora più complesso risulta, poi, il secondo dei problemi prima ricordati. Nel secolo scorso una parte consistente della storiografia giuridica, influenzata da un canto dall'entusiasmo culturale per la costruzione della personalità giuridica dello Stato cui la dottrina occidentale era pervenuta, dall'altro dalla limpidezza della visione teorica unitaria del diritto offerta dalla scuola pandettistica, iniziò ad applicare il modello dello Stato ottocentesco alle società precedenti, intendendolo come canone interpretativo iniversalmente valido per comprendere correttamente l'ordinamento istituzionale di ogni società. Per quanto riguarda, in particolare, la Roma repubblicana, sin dall'inizio del secolo scorso è prevalsa tra gli studiosi l'opinione che il populus aveva costituito un soggetto di diritto a sé, distinto dalle persone fisiche dei suoi componenti, una persona giuridica che, titolare di diritti privati e di diritti pubblici, aveva natura sostanzialmente identica a quella dello Stato ottocentesco: "Populus Romanus als Staat" (la tesi, formulata già da Rubino - v., 1839, pp. 233-240 - e successivamente ribadita - v., 1893 - è stata, poi, approfondita da Mommsen - v., 1886, pp. 824-832 - e ripresa dagli studiosi aderenti all'indirizzo pandettistico. Su questa corrente di pensiero rinviamo a Orestano - v., 1968, pp. 196-201 -, a Catalano - v., 1974, pp. 41-49 - e a Di Porto - v., 1994, pp. 498-503). L'idea gode anche oggi di vasto consenso (v. Coli, 1951, pp. 2-14; v. Nocera, 1956, pp. 565-567; v. Talamanca, 1990, p. 177; v. Crifò, 1994, pp. 123 ss.), ma è stata oggetto di critiche sin dal secolo scorso, a cominciare da Rudolf von Jhering (v., 1852-1865 e 1877-1883) il quale sottolineò l'impossibilità di applicare al mondo romano l'astrazione operata dalla dottrina ottocentesca che aveva costruito la persona giuridica Stato: a suo parere il populus non era mai stato visto come soggetto giuridico a sé, ma sempre come insieme di persone fisiche titolari di diritti. La sua impostazione ha trovato vasto seguito nella successiva storiografia - in particolare tra gli studiosi italiani (v. Fadda, 1894; v. Orestano, 1968; v. Catalano, 1974; v. Di Porto, 1994) e quelli di lingua inglese (v. Kunkel, 1966, p. 9; v. Brunt, 1988, p. 299) - al punto che di recente l'assenza di una nozione romana di Stato "nel moderno senso astratto" e la realtà del popolo romano come "collettività di cittadini" sono state presentate come idee ormai comunemente accettate dall'odierna storiografia (v. Cornell, 1991, p. 63). Ma l'accordo tra gli storici appare ben lontano dall'essere stato raggiunto. Qualche anno fa Leo Peppe, uno degli studiosi più attenti al tema del populus Romanus, ha sollecitato un riesame di ciascuna testimonianza delle fonti nel quadro della specifica fase storica cui la stessa si riferisce (v. Peppe, 1990, pp. 314 ss.).
In realtà le formule con cui nelle fonti più antiche era designato
La medesima funzione risulta svolta, inoltre, da parole ed espressioni che Orestano ha segnalato in fonti del III-II secolo a.C. Innanzitutto il termine res che, a suo giudizio, viene usato per indicare una comunità di persone abitanti in una città o in una regione: res Romana, res Latina, res Albana, ecc. non indicherebbero, perciò, i beni materiali appartenenti alla collettività, ma la comunità medesima, esprimendo "una sintesi di elementi personali e reali" ed evidenziando al contempo la pluralità dei suoi componenti (v. Orestano, 1968, p. 113). In particolare per quanto riguarda Roma, le fonti userebbero insieme con l'espressione res Romana, anche l'altra res publica, sempre con valore del tutto equivalente a quello di populus Romanus (ibid.). Tesi, questa, su cui sostanzialmente conviene anche Gaudemet (v., 1965, pp. 149 ss.) a parere del quale "Res publica designa la collettività presa nella sua individualità", ne sottolinea la forma organizzativa e quindi esprime "l'organizzazione giuridica del populus". Orestano aggiunge, poi, che accanto a res le fonti usano un altro termine collettivo, nomen, il quale, seguito dall'aggettivo di una popolazione, indicherebbe il complesso delle situazioni giuridiche e materiali relative a quanto e a quanti erano designati con l'aggettivo medesimo: nomen Romanum esprimerebbe l'insieme di persone e di cose cui si riferiva la qualifica di romano, al pari delle espressioni nomen Etruscum, nomen Vulscum, ecc., rispettivamente per tutto ciò che era riferito agli Etruschi e ai Volsci (v. Orestano, 1968, pp. 114-119).
Secondo questa tesi, dunque, l'esperienza giuridica più antica avrebbe forgiato termini collettivi per designare "situazioni unificate" (ibid., p. 119) senza astrarre dalla concretezza dei componenti: e tale esperienza non si sarebbe limitata alla designazione dell'intera collettività - indicata con i termini populus, res, nomen -, ma avrebbe riguardato anche unità minori per le quali furono usati i nomi collettivi di familia, gens, tribus, exercitus, senatus, ecc. (ibid.). E di tale esperienza viene trovata conferma sia in giuristi della fine della repubblica - come Alfeno Varo, che in un passo riportato in D.5.1.76 indica il popolo tra le res che non si modificano con il cambiamento dei singoli componenti - sia in autori più tardi, come Pomponio (vissuto verso la metà del II secolo d.C.) che in D.41.3.30.pr. distingue tre categorie di corpora - quelli formati "uno spiritu" come l'uomo, la trave, la pietra, quelli che derivano dall'unione di più elementi, come l'edificio, la nave e l'armadio, e infine quelli che sono formati "ex distantibus", cioè da elementi che non si dissolvono nel corpus, ma sono unificati dal solo nomen - e inserisce il popolo tra questi ultimi, sottolineando da un canto la funzione del nome collettivo, dall'altro la persistente individualità dei componenti del popolo. Una tesi, questa di Pomponio, che trova le sue radici nel pensiero di Seneca - secondo il quale (Epistulae, 102, 6) "Quaedam [...] corpora [...] ex distantibus [...] tamquam exercitus, populus, senatus, illi enim, per quos ista corpora efficiuntur, iure aut officio cohaerent, natura diducti et singuli sunt" (v. Peppe, 1985, p. 327) - e ben si collega con quella dell'altro grande giurista del II secolo, Gaio, il quale affermava (Inst., 1.3) che "populi appellatione universi cives significantur" (ibid., p. 326).
Le fonti ora esaminate sembrano dunque legittimare la tesi che vede nel populus Romanus il termine collettivo con cui era designata la comunità dei cives Romani - di quanti, cioè, godevano della cittadinanza di Roma - e, quindi, del tutto equivalente all'espressione "tutti i cittadini". È la tesi che nega per il periodo repubblicano la possibilità di vedere nel populus "un'entità astratta, distinta, cioè, dai cives che la compongono" (v. Di Porto, 1994, p. 489) e che consente di cogliere in maniera diretta la particolare natura degli interdetti popolari, quelle azioni che ciascun cittadino era legittimato a promuovere in tutela delle res in usu publico - i luoghi destinati al pubblico, le vie, i fiumi, le rive, le cloache -, beni su cui ciascun cittadino, appunto, aveva diritto di godimento in quanto componente del populus (ibid., pp. 506-519).
Più controversa risulta, poi, l'interpretazione di due passi del De re publica di Cicerone che sono correntemente giudicati testi fondamentali per la comprensione del significato di populus in età repubblicana. In De re publica 1.25.39 si legge "'Est igitur', inquit Africanus, 'res publica res populi, populus autem non omnis hominum coetus quoquo modo congregatus, sed coetus multitudinis iuris consensu et utilitatis communione sociatus"'. Secondo la corrente pandettistica il passo attesterebbe l'esistenza di una concezione del populus come persona giuridica distinta dalle persone dei cittadini. Coli, ad esempio, coglie nel brano "un arcaico processo di personificazione", in quanto Cicerone avrebbe configurato la res publica - equiparata a res populi - come "complesso dei rapporti e degli interessi dello Stato in antitesi ai rapporti e agli interessi dei singoli (res privata)" e, di conseguenza, avrebbe concepito il populus come "subbietto di diritti" con "un'individualità propria [...] che rispecchia l'unità organica dello Stato" (v. Coli, 1951, p. 3; v. Crifò, 1994, p. 123). Di opinione diametralmente opposta è, invece, Orestano (v., 1968, pp. 112 ss.), secondo il quale il passo fornirebbe la definizione di populus come comunità dei cittadini componenti l'ordinamento giuridico romano e quindi offrirebbe chiara testimonianza dell'equivalenza tra i termini populus e res publica, in quanto entrambi nomi collettivi usati per indicare la pluralità dei cives.
L'analisi esegetica del passo in esame, mettendo in luce altri aspetti dell'idea ciceroniana, ha fornito nuovi dati per approfondire la questione. È stato così rilevato che a parere di Cicerone il popolo è realtà diversa dalla moltitudine degli abitanti di una località: da essa si distingue per due elementi, il consensus iuris - variamente interpretato (v. Cancelli, 1973, p. 215, nota 3) come "un dato volontaristico o addirittura contrattualistico" (v. Peppe, 1985, p. 319) - e la communio utilitatis, che lo rendono comunità di persone non già occasionalmente riunite, ma volontariamente associate da ragioni giuridiche e politiche. Cicerone, secondo Peppe, avrebbe evidenziato la "necessità della partecipazione di tutti i cittadini alla res publica", una partecipazione, comunque, che - al pari di quanto accadeva nel mondo greco e per diretta influenza di questo - non comportava "uguaglianza di volontà", ma doveva esprimersi nel rispetto delle regole - prima di tutte quella del censo - e nelle forme istituzionali previste dall'ordinamento (v. Peppe, 1990, pp. 316 ss.). In quest'ottica il populus Romanus si presenterebbe come comunità di uomini "organizzata sulla base del census" e troverebbe la sua espressione istituzionale nelle varie assemblee popolari (v. Peppe, 1985, p. 322), in particolare, alla fine della repubblica, nei comitia centuriata e nei comitati tributa (v. Nicolet, 1976; tr. it., pp. 278-289). Di modo che nella descrizione ciceroniana populus non sarebbe "una nozione teorica", bensì una "espressione della parte della società romana prevalente nella storia reale e nelle elaborazioni intellettuali" (v. Peppe, 1985, p. 322).
Tale interpretazione, che rifiuta le conclusioni della linea pandettistica e al contempo fa coincidere la nozione di populus nella Roma repubblicana con le forme istituzionali in cui lo stesso trovava espressione ("Populus Romanus als Volksversammlung", lo definisce Peppe), sembrerebbe trovare conferma in un altro passo del testo ciceroniano (1.26.41) dove si legge "omnis ergo populus, qui est talis coetus multitudinis qualem exposui, omnis civitas, quae est constitutio populi, omnis res publica, quae ut dixi populi res est, consilio quodam regenda est, ut diuturna sit". Qui il populus viene presentato come distinto dalla civitas e "concettualmente precedente" (v. Peppe, 1985, p. 319) a questa, di modo che, ove anche si ammettesse per la repubblica romana la concezione astratta di Stato nel senso odierno, tale nozione dovrebbe essere riferita all'ordinamento istituzionale, alla civitas, non già al populus.
Il medesimo passo, però, è stato utilizzato a sostegno della tesi pandettistica. Nicolet, ad esempio, ha messo in particolare evidenza il richiamo al
Il problema della nozione astratta di popolo come Stato viene così a collegarsi con quello del ruolo politico e istituzionale da esso svolto nel periodo repubblicano. Ma prima di passare all'esame di tale questione appare necessario soffermare l'attenzione sul significato della formula "maiestas populi Romani" che viene presentata dai sostenitori dell'indirizzo pandettistico come chiara espressione dell'idea del popolo romano quale persona giuridica titolare del potere statale superiore ai singoli cittadini (v. Coli, 1951, p. 2). In proposito Hellegouarc'h ha chiarito che il termine maiestas esprime un'idea di superiorità non già sociale, ma religiosa: esso, infatti, viene riferito innanzitutto agli dei e successivamente a quanti erano ritenuti possedere un carattere sacro che li collegava agli dei, come il pater familias, i patrizi - e di conseguenza il Senato -, il popolo romano in quanto popolo eletto degli dei, infine i magistrati come designati dal popolo romano (v. Hellegouarc'h, 1963, pp. 319 ss.). Tale contenuto religioso spiega l'uso dell'espressione in riferimento alle due materie per la quale soltanto è attestato, il
d) Il populus romano nel quadro dell'ordinamento repubblicano
Abbiamo visto prima come per alcuni studiosi il problema della nozione giuridica del popolo romano si leghi con quello del ruolo istituzionale e politico da esso svolto nel periodo repubblicano.
In merito a questo ruolo viene richiamata la testimonianza di Polibio, che nel VI libro delle sue Storie descrive l'ordinamento istituzionale romano del suo tempo (verso la metà del II secolo a.C.) individuandone un'articolazione in tre parti - i magistrati, in primo luogo i consoli, il Senato e il popolo - tra loro strettamente connesse e reciprocamente integrate al punto da conferire alla costituzione dell'Urbe un carattere del tutto originale, difficilmente incasellabile nelle forme di governo monarchico, aristocratico o democratico (v. Gaudemet, 1965, pp. 155 ss.; v. Nicolet, 1983 e 1976, tr. it., pp. 266-270). Gli storici odierni concordano nell'affermare che il ruolo istituzionale del popolo in età repubblicana si esprimeva nelle assemblee e riguardava tre campi, l'elettorale, il legislativo e il giudiziario (v. Gaudemet, 1965, p. 156; v. Nicolet, 1976, tr. it., p. 278). L'assemblea più antica era quella delle curie, i comitia curiata, che riunivano le trenta curie in cui le tre tribù originarie si articolavano: alla fine della repubblica erano loro rimaste poche funzioni che riguardavano, in particolare, la materia religiosa,
Gli studiosi sottolineano che tali assemblee non coincidevano con la totalità del popolo romano, dato che non ne facevano parte né le donne, né i minori, né quanti erano esclusi dai censori in seguito alla revisione delle liste delle centurie e delle tribù da loro operata ogni cinque anni (v. Gaudemet, 1965, pp. 175-177; v. Peppe, 1985, pp. 323-326; 1990, pp. 327 ss.). Pertanto all'interno della corrente interpretativa che nega la nozione astratta di popolo romano equivalente a quella dello Stato odierno, alcuni autori individuano un duplice significato giuridico del termine: il populus Romanus come assemblee con funzioni elettive, giudiziarie e legislative, da un canto, come comunità di tutti i cittadini, dall'altro. E aggiungono che anche nel secondo significato il popolo in età repubblicana svolgeva un ruolo istituzionale di rilievo: esprimeva volontà normativa nei
Alla questione del ruolo istituzionale e politico del popolo romano si lega, peraltro, anche il quarto dei problemi prima segnalati, quello dell'esistenza di una nozione di sovranità popolare per l'età repubblicana. Secondo Orestano (v., 1968, pp. 209 ss.) le fonti configurerebbero il popolo come "fonte del potere dei magistrati" e quindi spiegherebbero la funzione di costoro con i "concetti di procuratio o di gestio", mentre presenterebbero la lex "come atto che scaturiva da uno iussum del popolo". A detta di Peppe accanto alla duplice accezione del termine populus Romanus - come insieme di tutti i cittadini e come assemblee con specifici compiti istituzionali - si sarebbe sviluppata una terza nozione che avrebbe inteso il popolo "come collettività organizzata nell'assemblea popolare titolare della sovranità", una nozione che sarebbe stata decisamente minoritaria, ma che avrebbe trovato chiara espressione nei provvedimenti sociali del periodo gracchiano (v. Peppe, 1985, p. 322; 1990, pp. 322 ss.).
La lettura di Orestano non sembra aver trovato consensi tra gli studiosi successivi, i quali hanno continuato a vedere nell'ordinamento istituzionale repubblicano l'incontro delle tre parti indicate da Polibio - magistrati, Senato e popolo - e a considerare ciascuna di loro come fondata su una propria legittimazione, senza riportarle a un'unica fonte, quella del popolo sovrano. La tesi di Peppe, dal canto suo, si connette con l'altro problema storiografico, quello dell'interpretazione delle lotte tra populares e optimates che caratterizzarono la storia di Roma dai Gracchi alla dittatura di Cesare.
Un problema storiografico, quest'ultimo, che ha attirato sin dal secolo scorso l'attenzione degli studiosi e che si caratterizza per l'interesse delle tesi proposte, a cominciare da quella liberale - che vi vedeva un precedente del coevo bipartitismo britannico - per proseguire con l'indirizzo prosopografico - che riduceva lo scontro politico a una lotta tra gruppi e fazioni tutte appartenenti alla nobiltà - per concludersi con la storiografia di impostazione marxista, che vi ha letto un esempio di lotta di classe (per un quadro della storiografia sulle lotte tra ottimati e popolari v. Perelli, 1982, pp. 7-12). Oggi gli studiosi sembrano concordare su un punto che in questa sede appare importante sottolineare: l'obiettivo dei populares non era quello di rivoluzionare gli assetti istituzionali repubblicani imponendo il popolo come unico titolare dell'autorità pubblica, bensì quello di accrescere la sfera di competenza che spettava al popolo nella tripartizione del potere, assegnando maggiori funzioni alle assemblee, limitando il ruolo del Senato, accentuando il controllo popolare sui magistrati, ampliando le garanzie giuridiche dei cittadini e offrendo maggior tutela agli interessi dei cittadini meno abbienti (ibid., pp. 13-20; v. anche Serrao, 1974). I popolari avrebbero, dunque, rispettato la tripartizione tradizionale, limitandosi ad assegnare all'interno di questa un ruolo più significativo alle assemblee.
Tali conclusioni appaiono sostanzialmente condivise da Peppe, il quale ammette le difficoltà di usare per l'età romana la nozione moderna di sovranità popolare, anche se continua a ritenere che l'obiettivo dei popolari era non soltanto quello di ampliare il ruolo istituzionale del "populus-assemblea", ma anche quello di fare del popolo "l'unico soggetto del potere" (v. Peppe, 1990, p. 324).
e) Il populus romano nel quadro dell'ordinamento imperiale
Infine, in merito all'ultimo problema, quello del ruolo politico e istituzionale del populus nel quadro dell'ordinamento imperiale, gli studiosi appaiono sostanzialmente concordi nel segnalare un capovolgimento della situazione affermatasi durante la repubblica. La tesi di McIlwain, secondo la quale il popolo sarebbe rimasto fonte ultima dell'autorità imperiale (v. McIlwain, 1940; tr. it., p. 56), non è stata accolta dagli studiosi successivi, i quali hanno negato che il principe possa essere considerato come un magistratus populi Romani (v. Orestano, 1968, p. 219), hanno sottolineato che dopo la repubblica il perno dell'ordinamento divenne esclusivamente l'imperatore (v. De Martino, 1974, pp. 658 ss.) e hanno sostenuto che il popolo da protagonista si trasformò in "nozione tecnicizzata e (apparentemente) neutra di insieme di cives, in realtà di cives subiecti" (v. Peppe, 1985, p. 328), in "mera comparsa" o "gregge di sudditi" (v. Di Porto, 1994, p. 519). Tuttavia, mentre da alcuni studiosi la scomparsa del ruolo politico e istituzionale del popolo sembra esser vista come conseguenza immediata dell'avvento del governo imperiale, da altri viene giudicata frutto di un lungo processo iniziato con l'ascesa di Augusto e protrattosi almeno per tutto il I secolo d.C. Così Orestano ha rilevato che in questo periodo si ebbe un graduale passaggio di competenze dal populus all'imperatore, ma il primo rimase centro di imputazione politica significativa: continuò a essere visto come titolare di maiestas, di provinciae (accanto alle provinciae principis sussistevano le provinciae populi Romani), come autore di leges, come destinatario della provocatio. Solo con la fine della dinastia Flavia l'imperatore avrebbe acquisito il monopolio dell'autorità e il popolo avrebbe perso ogni significato sostanziale (v. Orestano, 1968, pp. 221-224 e 270-275).
2. Età medievale
a) Il populus nell'alto Medioevo
La ricchezza dell'analisi e l'approfondimento dei problemi che caratterizzano gli studi sul popolo della Roma repubblicana non si ritrovano, invece, nelle indagini riguardanti il tema del popolo nella società occidentale dell'alto Medioevo. L'eterogeneità delle fonti e l'assenza di precisione giuridica frequentemente riscontrabile nel linguaggio usato hanno certamente ostacolato ricerche approfondite dei numerosi aspetti della vicenda del populus in un arco di tempo tanto dilatato.In verità il tema del popolo non è assente dalle analisi relative alla società europea dell'alto Medioevo, anzi risulta addirittura al centro degli interessi di molti studiosi sin dalle prime espressioni della grande storiografia del secolo scorso. Si deve, però, rilevare che gli storici ottocenteschi hanno per lo più trasferito al passato l'idea di popolo forgiata dall'ideologia del loro tempo, e così facendo si sono avvalsi di quel termine per designare la collettività di persone residenti in una regione, unite da comuni tradizioni, dalla stessa lingua, dalla medesima cultura e dalla medesima religione. In questa ottica il popolo finiva col coincidere con
Se, invece, rivolgiamo la nostra attenzione alle fonti altomedievali, senza caricare le loro espressioni di significati moderni, ci accorgiamo che il termine populus è usato in accezioni per più aspetti diverse da quelle spesso attribuitegli dalla storiografia. Al riguardo appare opportuno prendere le mosse dalla definizione offerta da Isidoro di Siviglia, secondo il quale "Populus est humanae multitudinis, iuris consensu et concordi communione sociatus. Populus autem eo distat a plebibus, quod populus universi cives sunt, connumeratis senioribus civitatis. (Plebs autem reliquum vulgus sine senioribus civitatis). Populus ergo tota civitas est; vulgus vero plebs est" (Etymologiarum sive originum libri XX, a cura di W.M. Lindsay, vol. I, Oxonii 1911, l. IX, 4,5). Se la definizione isidoriana riecheggia da un canto quella ciceroniana - al pari della quale vede nel popolo una comunità legata da vincoli giuridici e di concordia politica -, dall'altro riprende la distinzione tra popolo e plebe proposta dalle Istituzioni di Giustiniano, indicando, come qui si faceva, nel primo la comunità intera dei cittadini, nella seconda soltanto la sua componente medio-bassa, cioè il popolo senza gli ottimati.Isidoro vede, dunque, nel populus l'insieme di persone legate dalla comune volontà della coesistenza e da vincoli di diritto: un diritto, peraltro, sulla cui natura nulla precisa. Vede anche nel popolo l'intera comunità, escludendo che il termine possa limitarsi a indicare una sola porzione di questa. Le fonti altomedievali confermano solo in parte tale duplice significato.
Per il primo dei due valori di populus è possibile trovare qualche conferma. In realtà per indicare l'insieme di persone legate dai vincoli giuridici più cogenti secondo
Quest'ultimo significato sembra potersi adattare anche al populus della città il quale, però, è correntemente visto dalle fonti come comunità unificata non solo dallo stanziamento nel medesimo luogo, ma anche da vincoli di natura giuridica - forse meno cogenti rispetto a quelli di sangue - e da comuni intendimenti. L'appartenenza al popolo della città era titolo per vantare alcuni diritti: in particolare, ai componenti di detto popolo la Chiesa attribuiva la potestà di eleggere il vescovo insieme con il
Per quanto riguarda il primo, si deve sottolineare che le fonti della tarda età antica e del primo Medioevo riguardanti la partecipazione popolare all'elezione episcopale usano indifferentemente i due termini, attribuendo loro il medesimo significato. Così verso la metà del III secolo si esprimeva, ad esempio, Cipriano vescovo di
Si può dunque affermare che in riferimento alle comunità cittadine populus è usato dalle fonti altomedievali nella duplice accezione di insieme degli abitanti, da un canto, e di plebe - cioè della comunità dei cittadini senza gli ottimati - dall'altro. Nel corso del tempo, tuttavia, il secondo significato sembra prevalere sul primo. Lo attestano, ad esempio, i Libelli de lite imperatorum et pontificum apparsi tra l'XI e il XII secolo nel corso della lunga lotta delle investiture. Così, sulla metà dell'XI secolo Umberto da Silvacandida affermava che "episcopus, secundum decretales sanctorum regulas, prius est a clero eligendus, deinde a plebe expetendus, tandemque a comprovincialibus episcopis cum metropolitani iudicio consecrandus" (Monumenta Germaniae Historica, Libelli de lite, vol. I, Hannoverae 1891, p. 108). Verso la fine del secolo Manegoldo di Lautenbach ricordava le norme tradizionali secondo le quali "nulla sinit ratio, ut inter episcopos habeantur qui nec a clericis sunt electi, nec a plebis expediti, nec a comprovincialibus episcopis cum metropolitani iudicio consecrati" e per l'elezione episcopale "cleri, plebis et ordinis consensus et desiderium requiratur" (ibid., pp. 400 ss.). E il contemporaneo Guido di
I passi ora ricordati dei Libelli de lite appaiono interessanti anche sotto un altro profilo: essi ci fanno conoscere il pensiero dei polemisti della lotta delle investiture in merito alla funzione spettante al popolo nel quadro dell'elezione episcopale. Si è visto prima come sulla metà del V secolo san Leone Magno articolasse tale elezione in tre fasi, assegnando al clero il compito di "eligere" il vescovo, al popolo quello di "expetere" l'eletto e ai vescovi della medesima provincia, col consenso del metropolita, quello di consacrarlo. Le fonti successive sembrano trascurare tale articolazione, la quale, al contrario, viene ripresa dai polemisti in esame.
Se, allora, mettiamo a confronto la definizione di Isidoro di Siviglia con la testimonianza delle fonti successive rileviamo non poche differenze - le seconde usano il termine in accezioni non registrate da Isidoro e spesso attribuiscono alla parola il medesimo significato di plebs - insieme con la conferma della mancata definizione della natura giuridica dei vincoli posti a fondamento dell'unità del popolo, tanto che il termine viene da loro riferito a comunità tra loro differenti, analoghe solo perché in grado di dar vita a un ordinamento (v. Caravale, 1994).Quest'ultimo significato viene confermato dalle fonti che definiscono con il termine populus il variegato insieme di abitanti di un territorio che fa capo a un re, un insieme diviso nei numerosi ordinamenti particolari ivi vigenti, ma accomunato dalla protezione e dalla tutela giuridica che riceveva dal monarca. In particolare, sono ancora i Libelli de lite a offrire spunti interessanti. Così l'Anonimo normanno affermava che i sovrani, in seguito al sacramento dell'unzione, assumevano natura sacerdotale e diventavano, di conseguenza, "inter Deum et Populum mediatores" (Monumenta Germaniae Historica, Libelli de lite, vol. III, Hannoverae 1892, p. 669), mentre Ugo di Fleury indicava il "legitimi regis officium" nella funzione di "populum in iustitia et aequitate gubernare et aecclesiam sanctam totis viribus defendere" (vol. II, p. 473) e il Tractatus Eboracense de consecratione pontificum et regum dichiarava che il sovrano veniva consacrato "ut [...] populum christianum sibi commissum cum pace propitiationis feliciter regat" (vol. III, p. 677). Gli autori ora ricordati individuavano, dunque, la ragione d'essere del re nella funzione di tutela delle persone e dei diritti delle comunità residenti in un territorio: l'insieme di dette comunità essi chiamavano populus. A quest'ultimo veniva riconosciuto un ruolo attivo nel rapporto con il sovrano, non soltanto al momento della scelta del titolare della dignità regia, ma anche nel concreto esercizio della potestà monarchica. Così Gerhoh di Reichersberg affermava: "Nam neque episcopi reges creant vel ordinant, sed principum ac populi electione et acclamatione creatis [...] episcopi benedicunt" (vol. III, p. 345) e Manegoldo di Lautenbach riteneva che il re "qui pro coercendis pravis, probis defendendis eligitur, pravitatem in se fovere, bonos continere, tyrannidem, quam debuit propulsare, in subiectis ceperit ipse crudelissime excercere, norme clarum est, merito illum a concessa dignitate cadere, populum ab eius dominio et subiectione liberum existere, cum pactum, pro quo constitutus est, constet illum prius irripuisse" (vol. I, p. 365). Una testimonianza, quest'ultima, particolarmente interessante, perché documenta come alla fine dell'XI secolo si pensasse all'esistenza di un vero e proprio pactum tra il popolo e il re che lo doveva proteggere.
b) Il populus nel basso Medioevo
"Populus est collectio multorum ad iure vivendum, quae nisi iure vivat, non est populus": così nella prima metà del XII secolo l'operetta De verbis quibusdam legalibus (a cura di
c) Il ruolo del populus nell'elezione episcopale
Per quanto riguarda il primo problema si deve ricordare che la riforma gregoriana introdusse un cambiamento nella disciplina precedente, poiché intese ridurre l'ambito di intervento laico e accrescere quello riservato alla gerarchia ecclesiastica. Punto di partenza del nuovo corso appare il decreto di Niccolò II del 1059 sull'elezione pontifica (v. Hägermann, 1970; v. Ullmann, 1982) che assegnava la potestà elettiva ai soli cardinali e aggiungeva che "reliquus clerus et populus ad consensum novae electionis accedant", rendendo definitiva la marginalità, già da tempo affermatasi nella prassi, del ruolo del popolo romano nella scelta del papa e al contempo riducendo l'intervento del clero romano a vantaggio delle massime dignità gerarchiche della Chiesa. Il medesimo obiettivo di lotta contro l'intervento potenzialmente simoniaco degli ottimati laici (v. Benson, 1968, p. 33) si ritrova nella disciplina dell'elezione episcopale introdotta da Gregorio VII e diretta a conciliare la tradizione con i nuovi obiettivi della Chiesa riformata. Il pontefice conservò, infatti, al clero e al popolo della diocesi la potestà elettiva, ma dispose che la stessa doveva esprimersi sul nome - o sui nomi - proposti dal visitatore apostolico, inviato dal pontefice o dal vescovo metropolita.
Nel secolo XII, poi, venne introdotta una chiara distinzione tra l'intervento del clero e quello del popolo. Graziano nella Expositio alla distinctio LXII ricordava l'antica regola per la quale "electio clericorum est, expetitio plebis" (v. Ganzer, 1971, p. 33) e pochi anni dopo Alessandro III precisava che "electio est per canonicos ecclesiae cathedralis et religiosos viros, qui in civitate sunt et diocesi, celebranda" (v. Ganzer, 1972, p. 169), escludendo così il popolo da un ruolo attivo nell'elezione episcopale. Tale attenuazione del significato del popolo sembra trovare conferma nella prassi elettorale esaminata dal Ganzer in riferimento a due grandi diocesi tedesche, quelle di
d) Il ruolo del populus negli ordinamenti unitari facenti capo a un principe
Accanto al tema dell'elezione episcopale, la storiografia ha esaminato con particolare attenzione quello del ruolo del popolo negli ordinamenti unitari facenti capo a un principe, soprattutto sotto il duplice profilo del suo rapporto con il sovrano e della sua partecipazione alla formazione del diritto.Per quanto riguarda il primo aspetto la storiografia giuridica sostiene da tempo che le fonti medievali testimoniano due diverse idee sull'origine dell'autorità del principe, una che la faceva derivare da Dio, l'altra che l'attribuiva alla volontà del popolo, e rileva, di conseguenza, che il ruolo del popolo era considerato nell'una passivo e nell'altra attivo (la tesi dell'esistenza di tale duplice indirizzo è stata sostenuta da Ullmann: v., 1961). Espressione chiara del primo indirizzo è considerata la formula dell'unzione regia recitata dal sacerdote, che si rivolgeva al principe con le parole "ut sis benedictus et constitutus rex in regno isto super populum istum, quem Dominus Deus tuus dedit tibi ad regendum et gubernandum" (ibid., p. 129). E la medesima impostazione viene indicata nella dottrina, ampiamente diffusa nei glossatori civilisti e canonisti e nei commentatori, che riconosceva il principe titolare di una plenitudo potestatis da esercitare al di fuori di ogni condizionamento da parte del popolo (v. Pennington, 1993). Il secondo indirizzo, poi, è stato colto nelle tesi dei giuristi che da Accursio a Cino presentano il popolo come causa proxima dell'autorità imperiale - causa proxima che si affiancava, quale fattore indispensabile, alla causa remota costituita da Dio (v. Cortese, 1964, pp. 198-203) -, nella dottrina che vedeva nell'imperatore il "vicarius populi" (ibid., pp. 131, 174 ss.), nell'idea elaborata da Tommaso d'Aquino, per cui "ad populum pertinet electio principum" (v. Ullmann, 1961, p. 255), e soprattutto nella teoria di Marsilio da Padova che assegnava all'universitas civium, coincidente con il populus (v. Kölmer, 1979), l'intera potestà di governo. La storiografia, inoltre, segnala la presenza di entrambi gli indirizzi nella dottrina riguardante la produzione normativa.
Per il primo, il principe sarebbe titolare esclusivo della potestà legislativa: a lui si applicava, secondo un'opinione costante che va dai glossatori ai grandi commentatori, la regola ulpianea per la quale "quod principi placuit legis habet vigorem" purché tale volontà si esprimesse in una norma generale; a lui solo i giuristi riconoscevano la funzione di eliminare, per il tramite della legge, consuetudini inique e quindi di tradurre in diritto positivo i principî superiori dell'aequitas (v. Caravale, 1994, pp. 524-544). Per il secondo indirizzo la funzione normativa del popolo non sarebbe secondaria. Gli spettava, innanzitutto, la produzione delle consuetudini: a detta di Bartolo "usus et mores sunt causa consuetudinis: dico causa remota, nam proxima causa est tacitus consensus populi" (In Primam Digesti Veteris Partem, Venetiis 1615, f. D. 1.3.23). Gli spettava, poi, la potestà di deliberare norme vincolanti per la comunità: "quando populus habet omnem jurisdictionem, potest facere statutum" affermava ancora Bartolo (ibid., f. D. 1.1.9), aggiungendo che l'assemblea era la sede in cui tale produzione normativa doveva accadere (v. Ullmann, 1962, pp. 716-733); e la sua tesi fu ripresa e approfondita da Marsilio da Padova (v. Rubinstein, 1979). Tale corrente avrebbe, infine, trovato il suo esponente più avanzato in Baldo, a detta del quale il popolo stesso, in quanto tale, è diritto: "Populi sunt de iure gentium, ergo regimen populi est de iure gentium: sed regimen non potest esse sine legibus et statutis, ergo eo
In proposito appare opportuno formulare alcune osservazioni. In primo luogo è fin troppo ovvio sottolineare la necessità di leggere le fonti documentarie e dottrinali sopra ricordate alla luce delle idee politiche e giuridiche coeve. In una tale ottica la
Per quanto, poi, riguarda la legislazione del principe si deve tener presente che mentre oggi la legge è la fonte primaria del diritto, nel Medioevo era fonte decisamente secondaria rispetto alla consuetudine, alla giurisprudenza delle corti e alla dottrina dei giuristi. Essa nasceva all'interno della funzione di giustizia del principe come strumento per eliminare consuetudini inique e sostituirle con norme ispirate al superiore principio dell'aequitas. Pertanto il problema della partecipazione del populus alla produzione normativa non può essere limitato per il Medioevo al tema della legislazione, ma deve riguardare innanzitutto la formazione degli usi e delle consuetudini: e in questo campo, come abbiamo visto, il ruolo decisivo del populus non veniva messo in discussione.
Si deve aggiungere che l'ordinamento facente capo a un principe non era l'unico ordinamento unitario: lo era anche, tra gli altri, quello comunale che riuniva ordinamenti particolari costituiti dalle famiglie, dalle organizzazioni di vicinato, dalle consorterie, dalle corporazioni di mestiere, dalle associazioni, ecc. E nel Comune la funzione di tutela e di giustizia unitaria spettava ai cittadini stessi, al populus: era questo il titolare unico della jurisdictio di cui faceva parte anche la potestà legislativa. Le fonti che evidenziano detto potere del popolo del Comune, allora, non sembrano proporsi la difesa di ideologie contrastanti con la dottrina dell'autorità regia, bensì solo la descrizione di una delle tante realtà istituzionali vigenti nel mondo occidentale. In proposito si può ricordare che nel XV secolo il giurista inglese John Fortescue teorizzò l'esistenza di due forme di governo, il dominium regale e il dominium politicum, distinti tra loro perché nel primo il principe esercitava da solo la jurisdictio unitaria, mentre nel secondo tale compito era svolto dal popolo al quale solo spettava la scelta dei governanti, ma al contempo precisava che in entrambi i casi la potestà giurisdizionale era identica, di modo che la differenza tra i due tipi di governo risiedeva esclusivamente nei titolari della stessa e nei modi del suo esercizio (v. Caravale, 1994, pp. 633-639).
Né, infine, si può sottovalutare il problema del significato attribuito dalle diverse fonti al termine populus. Così, ad esempio, è stato precisato da Cortese che i glossatori, nel discutere in merito alla potestà legislativa del populus, prendevano in considerazione non già le comunità cittadine o dei castri o quelle, variamente articolate, residenti nel territorio di un regno, bensì solo il populus Romanus, l'unico di cui le norme giustinianee si occupavano: "sic hic nomine 'populus', per se prolato, intelligitur romanus", dichiarava Piacentino (v. Cortese, 1964, pp. 129 ss. e nota 63, pp. 177-180). Pertanto la definizione delle funzioni del populus da loro proposta non potrebbe essere estesa a qualsiasi comunità definita dalle fonti come populus. Un diverso significato, anch'esso riferito a una specifica realtà comunitaria, ma diversa da quella dell'antico popolo romano, sembra poi avere il termine nella celebre formula di Baldo prima ricordata. L'additio posta a completamento dell'opera precisava, infatti, "appellatio populi refertur ad populum unius civitatis" (In Primam Digesti Veteris Partem Commentaria, f. 15 rb), come se volesse limitare l'uso del termine alla sola comunità che dava vita a un Comune ed escludere, di conseguenza, ogni generalizzazione della teoria, formulata da Baldo, per la quale il popolo era di per sé ordinamento giuridico.Un'accezione più generale presenta, invece, il termine nella formula dell'unzione regia, dove indica l'intera comunità degli abitanti del regno, una comunità articolata in tante realtà istituzionali e giuridiche e legata insieme dal solo vincolo - certamente più tenue di quelli del mondo particolare - dell'unità facente capo al monarca. E numerose fonti usano il termine in questo significato generale di comunità che compone un ordinamento unitario, costituito da un regno, da una signoria, da un Comune. Un significato che trova conferma sia nell'uso della parola 'popolo' da parte di Dante (v. Lanci, 1973, pp. 594 ss.), sia nella definizione di Tommaso d'Aquino per cui populus era "multitudo hominum sub aliquo ordine sociatus" (Summa Theologiae, I, q. 31) dove si ribadiva ancora una volta l'idea del diritto come fondamento del popolo, continuando a lasciare imprecisata la natura di questo (anche Antony Black - v., 1992, p. 18 - ritiene che la maggior parte delle fonti medievali riferisca il termine populus - al pari di universitas, communitas e commune - "alla comunità politica, in qualunque forma essa venisse percepita come esistente dai contemporanei").
Peraltro, anche questo significato appare bisognoso di qualche precisazione. Se torniamo a esaminare, ad esempio, la dottrina di Bartolo, troviamo che il termine, pur nella sua accezione più estesa, presenta una duplice valenza: da un canto indica la comunità nella sua interezza - e perciò comprendente tutti i componenti maschi adulti, le donne e i minori -fonte di norme consuetudinarie, dall'altro restringe la comunità ai soli partecipanti alle assemblee cittadine - quelle che approvavano leggi e statuti -, eliminando, di conseguenza, non solo i minori e le donne, ma anche i maschi adulti appartenenti ai gruppi esclusi dalle magistrature municipali. Si tratta - come si può facilmente notare - di due significati tra loro non omogenei.La lettura delle fonti documentarie e dottrinarie sopra ricordate risulta, dunque, ben più complessa e incerta di quanto appaia a prima vista e deve necessariamente tener presente il quadro istituzionale e culturale dell'epoca, nonché la specifica realtà giuridica cui la singola testimonianza si riferisce, senza cedere alla tentazione di proporre facili generalizzazioni o soluzioni più familiari alla cultura odierna.
e) Gli altri significati di populus nel basso Medioevo
Il termine populus, peraltro, non presenta nel basso Medioevo soltanto questi significati: altri se ne aggiungono cui la storiografia ha rivolto particolare attenzione.
È certamente mancato negli studiosi qualsiasi serio tentativo di attribuire al termine l'accezione di Stato nel significato moderno: le proposte avanzate in questo senso a proposito dell'universitas civium teorizzata da Marsilio da Padova - e corrispondente, come sappiamo, al populus - sono state fermamente respinte. È invece correntemente riconosciuto che il termine ha recuperato nel basso medioevo il significato geografico che aveva nell'antichità: in molti Comuni italiani esso designa sia la comunità di fedeli sia il distretto di una parrocchia, e in Spagna indica gli abitanti di un villaggio e il villaggio stesso.
Varie interpretazioni, poi, hanno riguardato la composizione del populus che nei Comuni dell'Italia centro-settentrionale si contrappose all'aristocrazia. Al riguardo si deve ricordare che nella maggior parte dei municipi tra la fine del XII secolo e gli inizi del successivo i cittadini che godevano dei diritti di libertà e di proprietà piena, ma erano esclusi dalle magistrature, monopolio delle famiglie fondatrici del Comune, cominciarono a contestare tale forma istituzionale: in una prima fase si dettero un'organizzazione distinta da quella comunale, mentre dalla metà del XIII secolo si proposero di appropriarsi del governo cittadino, sottraendolo ai tradizionali detentori. Tale componente della cittadinanza comunale viene indicata dalle fonti con il termine di populus, termine che finisce così per avere nelle fonti comunali il duplice significato di comunità urbana e di parte non aristocratica della stessa.
La storiografia ha a lungo dibattuto sulla composizione del populus municipale che si opponeva alla nobiltà urbana. La prima ricostruzione approfondita delle vicende di un 'popolo' municipale riguarda la città di
L'impostazione di Ottokar ha finito col prevalere nella storiografia successiva, che ha messo in evidenza con De Vergottini (v., 1931, 1934, 1943, Arti... e Note...) la molteplice natura delle organizzazioni popolari - che non si esauriscono nelle sole corporazioni, ma comprendono anche le associazioni di vicinato, o vicinia -, ha sottolineato con Heers (v., 1974) il ruolo dominante svolto nei Comuni dall'ordinamento familiare e l'importanza dei suoi legami con gli altri gruppi dinastici, legami per i quali la distinzione tra popolo e aristocrazia risulta irrilevante, ha fornito con Koenig (v., 1986) una ricostruzione attenta e puntuale delle associazioni e delle istituzioni cui il popolo dette vita, ha approfondito con Artifoni (v., 1990) le forme di governo da quello create.
Oggi la storiografia sembra convinta che il 'popolo' dei municipi italiani aveva una composizione variegata ed era costituito da famiglie estranee al gruppo dei fondatori del Comune. Ne facevano, perciò, parte signori fondiari, mercanti, artigiani; le loro organizzazioni erano non solo le arti, o corporazioni di mestiere, ma anche le vicinie e le associazioni di natura diversa, come le milanesi Credenza di
Per quanto, poi, concerne le istituzioni popolari si deve ricordare che nella prima metà del XIII secolo, accanto alle organizzazioni prima ricordate, in molti municipi nacquero Comuni di popolo, che avevano propri statuti e propri magistrati - innanzitutto il capitano del popolo - e si distinguevano, pertanto, dal Comune cittadino nel cui territorio operavano. La scissione, comunque, non durò a lungo: dalla metà del secolo il popolo cominciò a contendere alla nobiltà il governo del Comune cittadino, dando inizio a una fase di duri contrasti politici. Quasi ovunque vincitore, il popolo dette al governo comunale nuove forme istituzionali, incentrate, per lo più, sulla magistratura degli Anziani e sulla presenza di più consigli cittadini. Inoltre finì in genere per accogliere nelle sue fila molte famiglie dell'antica nobiltà e per accentuare la gerarchia sociale al suo interno. L'incontro tra famiglie di ceto diverso ebbe la conseguenza di appannare la valenza antinobiliare del popolo e di favorire la formazione di una nuova oligarchia composta da dinastie di estrazione diversa. Tale oligarchia assunse il governo di molti Comuni e costituì anche la classe politica di molti regimi signorili. Il fenomeno trovò a
(V. anche Democrazia; Politica).
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sommario: 1. Introduzione. 2. Da Machiavelli alla Rivoluzione inglese. 3. La 'grande realtà'. 4. Per lo Stato nazionale. 5. Tra nazionalismo e socialismo. 6. Conclusioni. □ Bibliografia.
1. Introduzione
Il termine 'popolo' nell'età moderna è stato usato in tutta una serie di significati, alcuni dei quali neutri (popolazione, gruppo etnico, gente) altri, invece, carichi di implicazioni politiche, spesso molto differenti. Ciò ha indotto, più di una volta, a ritenerlo talmente equivoco da risultare inservibile "per ogni indagine realmente esatta" (Weber) o "per una teoria della democrazia" (Sartori), o addirittura ad espungerlo dai lessici politici, salvo poi inserirlo in unione ad altri concetti (per esempio popolo-nazione). Tuttavia 'popolo' è stato usato quasi sempre pensando anche ad altre entità - repubblica, impero, Stato, patria - sicché il termine designa ora una realtà esistente, ora una aspirazione o addirittura un 'mito' (A. Pessin), una forza ora di resistenza ora di progresso, ed è stato invocato dai conservatori e dai rivoluzionari, ciascuno dei quali riteneva di interpretarne le tendenze profonde proponendo un modello ideale, descrittivo e prescrittivo.
A seconda che il popolo esistente fosse o no conforme a quel modello, si ritenne che esso potesse esercitare direttamente la sovranità, ovvero che dovesse essere educato ad esercitarla da nuclei selezionati (le leghe e le sette all'epoca dei conflitti di religione, poi le società popolari e i clubs, più tardi ancora i partiti, i sindacati, le milizie). Nell'uso politico dell'età moderna 'popolo' designa, insomma, sia la fonte della sovranità, sia coloro sui quali il potere, derivante dalla sovranità, si esercita. Questo carattere bifronte era ben presente a Hobbes, che si sforzò di esorcizzarne le conseguenze introducendo una distinzione, che ha avuto molta fortuna, tra popolo inteso come "un certo numero di uomini" che vivono in un'area geografica (il popolo d'Inghilterra e il popolo di
Nella formula bismarckiana, malgrado il tono polemico, si scorge l'idea della "nazionalizzazione delle masse" (Mosse), cioè dell'amalgama, nello Stato moderno, di tutti i gruppi della popolazione. Eppure 'popolo' continua a mantenere il suo significato bivalente: nei testi costituzionali esso compare come il detentore della sovranità (art. 1 della Costituzione italiana; art. 20 del Grundgesetz tedesco; preambolo alla Costituzione francese del 1958), ma viene presentato, anche, come colui cui è impedito, o almeno reso difficile, di esercitare davvero quella prerogativa. Rassemblement du peuple français si chiamò il movimento costituito nel 1947 in sostegno del generale de Gaulle, dopo che questi si era dimesso dal governo; ma anche il più lucido avversario di de Gaulle, P. Mendès-France, che pure riconosceva alla Assemblea nazionale di essere "la depositaria della sovranità", deplorava che la "volontà popolare non avesse mai potuto dare ordini e ottenere soddisfazione". In questi usi del concetto di popolo è implicita l'idea di una forza che non trova il modo di manifestarsi costruttivamente.
2. Da Machiavelli alla Rivoluzione inglese
Negli scritti di Machiavelli il termine 'popolo' ricorre con estrema frequenza, ma non designa mai una forza direttamente attiva (salvo che nelle insurrezioni e nei tumulti), bensì un corpo senza la collaborazione del quale non è possibile né la sicurezza del governo né la durata dello Stato. Il popolo è anzitutto distinto dai grandi, dai gentiluomini, ma anche dai cittadini (e si intende quelli autorevoli, che sono ascoltati nelle assemblee), il suo interesse è di non essere offeso. Tuttavia un principe è obbligato "a vivere sempre con quello medesimo populo", per cui gli è necessario averlo devoto, "altrimenti non ha, nelle avversità, remedio". Nell'alternativa, se sia meglio avere fortezze o l'appoggio del popolo, la scelta è, senza esitazioni, per il secondo corno del dilemma. Tanto più che un principe, per essere sicuro, deve avere "armi proprie", esercitando nella milizia una parte dei sudditi. Non bisogna credere che questo non esiga, da parte del principe, qualche contropartita: quando Machiavelli consiglia, a chi voglia tenere una città "consueta a vivere libera", di "abitarvi", non si riferisce ad una residenza anagrafica, o ad una diretta sorveglianza poliziesca, bensì raccomanda di fare di quei cittadini i collaboratori e gli strumenti della sua potenza.
Il rapporto dinamico tra governati (popolo) e governanti (principe o legislatore) emerge in maniera nettissima nella celebre analisi della corruzione, che si diffonde quando il popolo ha perduto la pratica della libertà e delle armi e si lascia ingannare dai potenti, e accecare da chi (Cesare) si atteggia a tutore dei suoi diritti. Si apre, a questo punto, una fase di convulsioni interne e di rovesci esterni che possono offrire l'occasione per l'intervento ordinatore di un capo. Ma quando la "corruzione di materia" è troppo avanzata è quasi impossibile che quegli interventi abbiano successo, mentre qualche speranza c'è se il popolo non ha perduto ogni ricordo della passata virtù e degli antichi ordini. Ricordando che i popoli stanno molti secoli in una opinione, Machiavelli raccomanda a chi li vuol riformare di "ritenere l'ombra almanco dei modi antichi"; e non si tratta di semplice apparenza, essendo una legge generale che, onde la salute dei popoli non si guasti definitivamente, questi vengano periodicamente ridotti "verso e' principî suoi", "i quali conviene che abbiano in sé qualche bontà". L'artifizio del legislatore deve incontrarsi, cioè, con l'essenza dell'ordinamento che ha costituito il carattere di quel popolo, e soltanto a questa condizione può avere successo: un semplice inganno non farebbe che aggravare il male. Si può ben dire, con
Pochi decenni dopo la morte di Machiavelli, l'esplodere, in buona parte d'Europa, delle guerre di religione cambiava i termini del problema: non si trattava più di ricostituire un popolo, bensì di stabilire a chi spettasse, in esso, la sovranità, e quali fossero sia il fondamento che gli strumenti del diritto di resistenza. Una lunga tradizione storiografica indica in alcune correnti protestanti le fonti del liberalismo; ma si tratta di un rapporto tutt'altro che diretto. Per circa un secolo coloro che rivendicavano la libertà dell'individuo di professare pubblicamente le proprie convinzioni furono nettamente minoritari, e spesso proprio costoro restano volontariamente ai margini dello scontro armato. Per quelli, invece, che vi si impegnavano il popolo fu una importante figura teorica: il 'popolo di Dio', esemplato sull'antica
Ma non c'era il rischio che, in nome della delega, si spogliasse il popolo della prerogativa che pure gli era riconosciuta? Fu quanto sostennero, verso la metà del Seicento, molti pubblicisti radicali inglesi (per esempio G. Winstanley e H. Vane), che tentarono di correggerla con la breve durata, e la non immediata rinnovabilità, del mandato rappresentativo. Sotto queste proposte, di per sé tutt'altro che originali (basta pensare all'ordinamento di tanti Comuni italiani), affiorava la concezione che una autorità esercitata permanentemente dai notabili avrebbe conservato il
3. La 'grande realtà'
Come ha osservato
È notissima la figura del contratto che costituisce la società, e che opera il passaggio dalle comunità naturali allo 'Stato civile', e si deve tenerla presente, sia perché è la volontà dei singoli che costituisce la repubblica, e che può scioglierla, sia perché l'idea del contratto è la griglia teorica con la quale valutare se la legislazione vada nella direzione giusta. Ciò peraltro non autorizza a concludere che per Rousseau la società sia soltanto "mutua assicurazione" (come intese Mazzini), o ad avvicinarlo a quei suoi contemporanei che paragonavano lo Stato ad una società per azioni, cosa che è agli antipodi del suo pensiero. Tra l'altro, l'atto di volontà con cui ci si associa è di uomini che si sono già "aggregati" per superare gli ostacoli della natura; ma una aggregazione non è una associazione, ed è soltanto quest'ultima a costituire un popolo come corpo politico, "corpo morale e collettivo". Gli associati "prendono collettivamente il nome di popolo, e sono, uno per uno, cittadini in quanto partecipano dell'autorità sovrana, e sudditi in quanto sottoposti alle leggi dello Stato". Rousseau osserva, inoltre, che si verificano quotidianamente révolutions des empires, ma non si formano più popoli; è dunque con un materiale storicamente e fisicamente già dato che si confronta colui che "osa accingersi ad istituire un popolo", il che vuol dire che egli lo trova già strutturato in ceti: contadini, artigiani, pescatori, ma anche i patrizi di
Un popolo, insomma, non è tale senza essere indipendente dagli altri, e senza tutelare la propria fisionomia. Si è voluto precisare (Fetscher) che questo concetto di popolo è politico e non etnico, il che è esatto, tanto più se si ricorda che Rousseau è quasi del tutto estraneo alla moda, corrente ai suoi tempi, delle caratterizzazioni antropologiche delle nazioni. Occorre però aggiungere che la storia di un popolo incomincia prima che esso sia tale in senso politico: il momento giusto per istituirlo è quando esso è "giovane", ma più vicino alla maturità che alla fanciullezza; situazione ottimale sarebbe quella in cui fossero riunite "la solidità di un antico popolo" e la "docilità di un popolo nuovo". Non sarebbe corretto voler ricavare troppo da queste formule, ma è difficile contestare che, a caratterizzare il popolo, ci sia anche una memoria collettiva.Qualche cosa di simile accade anche nel Nordamerica, ove l'esigenza di allargare le prerogative politiche dei coloni si faceva forte dei 'diritti' della tradizione britannica. In un territorio in cui l'espansione demografica era condizione di sviluppo, anzi, di sopravvivenza, 'popolo' è spesso sinonimo di popolazione; così in
Tra i principali motivi della ribellione ci fu la consapevolezza che il governo di
Accanto a 'popolo', Rousseau usava assai frequentemente 'nazione', concetto che nel Settecento europeo aveva una maggior rispettabilità in quanto implicava un vincolo culturale e adombrava diritti politici. La distinzione, beninteso, è tutt'altro che rigida, ma chi preferisce 'popolo' lo fa per prendere le distanze dalla cultura alta, degli intellettuali e delle corti, e per evocare una realtà che ha una propria naturale consistenza. È questo il caso di J.G.
Non sarebbe giusto dire che Herder preferiva la barbarie alla civiltà, ma certo egli negò che fosse un vantaggio la omogeneizzazione culturale auspicata dagli illuministi, segno di decadenza più che di progresso, e in contrasto con le forze attive nella natura. Questa non era una opinione isolata, ma riaffiorava ovunque, con le più diverse motivazioni. Diderot raccomandava di non perdere di vista i "selvaggi" (con l'argomento che non erano stati ancora sottoposti a leggi politiche) e non c'è quasi gruppo etnico soggiogato - dagli Scozzesi ai Croati - che non abbia i suoi estimatori; 'popolo' è ciò che non è logorato dalla civilizzazione, o che ha, almeno implicitamente, capacità di rinnovamento.
È questa mentalità diffusa a riflettersi nell'uso del termine durante la Rivoluzione francese. All'inizio di essa Luigi XVI parlava ancora dei "suoi popoli", ma prestissimo Mirabeau propose che i deputati si chiamassero "rappresentanti del popolo francese", e la formula è ripresa nella Dichiarazione dei diritti dell'agosto 1789. 'Popolo' designa tutti coloro che non sono 'privilegiati', la stessa contrapposizione si ritrova in Sieyès, che pure usa prevalentemente 'nazione'. Negli anni successivi la parola è impiegata con tutta una gamma di significati, che si possono esemplificare facendo riferimento agli scritti di Saint-Just. Egli si dice consapevole della corruzione nella quale l'antico regime ha ridotto il popolo, eppure esso, "eterno fanciullo", ha una sua fierezza; i suoi membri sono "anime nuove, incolte, violente", che hanno però una sensibilità immediata per la giustizia (è il trasferimento, al popolo insorto, delle caratteristiche dei popoli non civilizzati) tanto che, a riconoscerne la maestà, esso può diventare "il principio della virtù". E non manca un interessante accenno ai popoli: "un popolo, in quanto corpo (perché esistono dei popoli) forma una forza politica contro la conquista". La Costituzione giacobina del 1793 collocava nel popolo la sovranità. Ed anche Napoleone si richiamò più volte a questa fonte di legittimità: nel luglio 1802 fu eletto Console a vita con un plebiscito ("il popolo francese sarà consultato [...]"); l'esercito venne da lui definito "l'avanguardia del grande popolo", e durante i '
4. Per lo Stato nazionale
Nei paesi confinanti con la Francia i richiami al popolo si diffusero in un primo tempo all'unisono con quelli francesi, di cui sono quasi sempre una copia (ma qualche volta una anticipazione: in Italia, nel 1797, si loda il generale Bonaparte "che d'un popolo di servi ne fece una rispettabile nazione"). La vera rielaborazione di queste stesse formule venne fatta però, in funzione antifrancese, in Germania, nei primi decenni del nuovo secolo. E qui di 'popolo' vennero delineandosi due accezioni, spesso confuse, ma in realtà assai differenti. La prima, nella quale, in qualche caso, si sente l'influenza della polemica antirivoluzionaria di Burke, intende il popolo come una continuità ininterrotta di stirpi, unite dalla comunità di linguaggio, di costumi e di "reggenti" (con questo termine si intendono tutte le gerarchie, dal padre di famiglia al principe). È questo il caso di
Negli autori menzionati, per differenti che siano le loro posizioni politiche, c'è l'idea che i bisogni del popolo vadano interpretati dai governanti o dai giuristi, i quali hanno lo stretto dovere di non sovrapporre le esigenze livellatrici dell'amministrazione alla molteplicità dei diritti particolari e dei costumi; d'altra parte, lo "spirito del popolo" non va confuso con lo "spirito del tempo", o, peggio, con "l'opinione pubblica".
Tutt'altra accezione ha il termine in quegli scrittori i quali sono convinti che l'unificazione politica sia il bene più alto, e che essa debba venir ottenuta attraverso l'impegno diretto delle masse popolari. Anche da parte di costoro ci si appella ad una continuità di stirpe, di lingua, di costumi, ma si sostiene che questo valore è stato messo in pericolo, oltre che dalle periodiche aggressioni francesi (e, più indietro, dalle intrusioni latine: la Chiesa romana e il diritto romano) dai signori territoriali, che hanno privato il popolo della sua libertà, e dai ceti colti, accecati dal cosmopolitismo. (Questa contrapposizione tra governanti e colti da una parte, e popolo dall'altra, sarà ripresa, molti decenni dopo, nel 1882, da
Dei grandi filosofi dell'epoca, molto vicino a queste posizioni è Fichte, il quale definì i tedeschi "popolo originario", e pose popolo e patria molto più in alto dello Stato. Assai diverso l'atteggiamento di Hegel, soprattutto negli scritti della maturità; a suo avviso un popolo senza Stato (cioè senza istituzioni politiche, e la relativa gerarchia) sarebbe un "aggregato", una "forza selvaggia e cieca" votata all'autodistruzione. Persino il termine, se non altrimenti specificato, non è che un "astratto indeterminato", e non ha senso parlare di sovranità del popolo. Questi enunciati così recisi non esauriscono però la questione, in quanto i popoli hanno pure una "esistenza naturale", e un principio, lo "spirito del popolo" che ciascuno di essi si sforza di realizzare. Tale principio è presente allo stato germinale anche prima che i popoli si diano forma politica ed entrino nella storia e non implica affatto una qualche unità politica (né i Greci né i Germani la hanno mai avuta). Questo aspetto del concetto hegeliano di popolo, che egli aveva verosimilmente ripreso da Herder, è così vago che lo stesso Hegel finì con l'abbandonarlo quando passò ad occuparsi di storia moderna: qui le partizioni sono di paesi e nazioni, non di popoli.
Anche nella mentalità politica italiana del XIX secolo l'idea di popolo ebbe gran peso; la fede nell'esistenza di un solo popolo era del resto la premessa per negare la legittimità del frazionamento territoriale e del sistema politico che lo reggeva. La lunga tradizione di una lingua letteraria sembrava non permettere dubbi sull'unità culturale della nazione ma, sull'altro piatto della bilancia, pesavano i costanti conflitti che avevano portato alla perdita della libertà italiana, la passività dei secoli successivi, l'avversione di larghi strati ai nuovi ordinamenti introdotti dai Francesi, senza peraltro che ci fosse stato nulla di simile alle sollevazioni antinapoleoniche spagnole e tedesche.
Mazzini, come è noto, fece del popolo il 'dogma' della sua azione politica. 'Popolo', per lui, è "l'universalità degli uomini componenti nazione", e in esso sono comprese tutte le classi. Ma è facile rendersi conto che egli intende soprattutto la moltitudine dominata, che pure è distratta, "giacente", inerte. Soltanto in essa, infatti, si trovano gli elementi motori del progresso: a) l'istinto di "unità morale" (presente in tutti i popoli) che è la premessa dell'unità politica; b) la "vita latente che freme nella tradizione"; c) "l'istinto d'azione e l'immensa forza": è dal popolo che procede "l'iniziativa materiale", è esso "la sola vera forza rivoluzionaria". Tutte queste espressioni hanno corrispettivi in autori che si sono citati prima, che non è però obbligatorio considerare fonti di Mazzini. Le analogie risalgono semmai al modo stesso di impostare il problema in termini di un rinnovamento non di individui, bensì di corpi collettivi, giustificato dalla storia, ma non indotto necessariamente da essa. Il protagonista doveva essere quella moltitudine che, non avendo potuto esprimersi direttamente nelle istituzioni, era immune dalle colpe imputate ai gruppi dirigenti. La sua istintualità era la garanzia che essa non era stata intellettualmente corrotta: conclusione, questa, quasi ovvia per chi non accettava l'idea di una caduta da cui il genere umano dovesse redimersi e che era invece invocata, dalla parte opposta, come legittimazione dell'autorità. Certo, occorreva lavorare su questa base prerazionale, e portarla alla coscienza per rigenerare i popoli, non già per crearli, che sarebbe stata pretesa vana. Tale rigenerazione sarebbe avvenuta attraverso l'insurrezione, definita, più di una volta, 'l'intuizione' di un popolo. Non è troppo azzardato suggerire che essa ha un ruolo analogo alla deliberazione costituente di cui aveva parlato Rousseau, in quanto rappresenta il momento nel quale il popolo opera in prima persona, e si sente libero. Ma l'insurrezione non sarebbe che ribellione, cioè rivendicazione di diritti individuali, se non avesse alla base una continuità di generazioni che parlano la stessa lingua, che abitano nella stessa area geografica (meglio se ben delimitata da confini naturali), e che, in Italia, dura da trenta secoli, dai Sabini ed Etruschi sino al presente; è questa che dà al popolo il senso della sua missione, nella prospettiva della alleanza dei popoli che sarà l'umanità futura.
Idee molto simili vennero espresse in Francia, soprattutto tra il 1830 e il 1848, da storici e pubblicisti di gran nome:
Questa fede perde rapidamente terreno nella seconda metà del secolo. Già il primo svilupparsi di una scienza della società imponeva di guardare al popolo in tutt'altra prospettiva e basta sfogliare Die Naturgeschichte des Volkes als Grundlage einer deutschen Sozialpolitik ((1851-1869) di W.H. Riehl, e confrontarla col libro di Michelet (di cui paradossalmente, è una sorta di corrispettivo tedesco), per rendersi conto del cambiamento di mentalità, che portava a chiedersi, addirittura, se il 'popolo' fosse stato davvero una forza di progresso. Per rendersi conto del carattere della discussione basta scorrere due opere contemporanee, la Storia della letteratura italiana di F. De Sanctis, e il Dello svolgimento della letteratura nazionale di
5. Tra nazionalismo e socialismo
Ad indebolire il concetto di popolo contribuì anche la diffusione del socialismo scientifico. Sia Marx che
Eppure rimaneva il problema di designare chi è escluso dal potere, ma pure costituisce la base della comunità nazionale. Sono soprattutto scrittori conservatori (ma avversari feroci dei conservatori ufficiali) ad accusare l'economia e le scienze di essere estranee ed ostili agli istinti naturali. È uno scenario non molto dissimile da quello di un secolo prima; soltanto che adesso, data l'accentuata mobilità sociale, è più difficile parlare semplicemente di popolo. Si addita ancora nei ceti rurali (Langbehn e Lagarde in Germania, Renan in Francia) il nucleo resistente, che va mantenuto ed incrementato con la colonizzazione, ma si cerca di introdurre altri concetti, uno 'spirituale', quello di Volkstum, l'altro 'naturale', quello di razza, che sembravano più idonei ad indicare la zona profonda dei valori e delle disposizioni permanenti. Assai significativa in proposito è la seguente esclamazione di Barrès: "Non c'è, ohimé, una razza francese, bensì un popolo francese, una nazione francese, cioè una collettività di formazione politica". Le connotazioni più positive della razza non sono biologiche. Per Péguy essa è "il muro del silenzio", "l'enorme anonimato", nel quale, pure, si vuole "sprofondare con gioia". È alla razza che vengono trasferite molte delle caratterizzazioni che prima erano del popolo, termine che si trova, adesso, a venir usato come sinonimo debole ora di masse proletarie, ora di razza, a seconda dell'occasione e del contesto.
È con la
In queste tesi operavano evidentemente suggestioni di derivazione germanica. I nazionalisti, e poi i nazionalsocialisti, tedeschi erano sempre stati critici verso la statolatria italiana: "Lo Stato è un mezzo in vista di un fine", aveva scritto Hitler. Anche coloro che, prima del 1918, avevano considerato il primato dello Stato come una lodevole specificità tedesca avevano ricavato, dal crollo repentino dell'Impero, la lezione che l'amministrazione non poteva sostituire la politica (lo aveva riconosciuto, del resto, anche Weber) e nella lotta contro l'ordinamento di
Quella che
6. Conclusioni
Si sono ricordate, all'inizio, le riserve sulla funzionalità del concetto di popolo ad una analisi dei fenomeni politici. Quanto a concepirlo come attore, ci sono lucide notazioni di C. Schmitt, nella Verfassungslehre (1928) sulla 'inesauribilità' della forza vitale di un popolo, ma insieme sulla assenza di forme costanti di manifestazione di essa. Il popolo non è una 'istanza' suscettibile di un "funzionamento quotidiano e normale" e per questo "è così facile ignorare, fraintendere o falsificare le manifestazioni della sua volontà".
La rassegna di teorie, o ideologie, sul popolo che si è esposta, conferma che 'popolo' designa una base prepolitica in procinto di, o che dovrebbe, diventare politica; ma anche che esso è un corpo che aspetta di ricevere forma, di essere compreso, riconosciuto, rigenerato. Nel significato di popolo come idea-forza sono compresi almeno tre connotati: a) la partecipazione; b) la forza; c) la permanenza, non sempre necessariamente presenti con la stessa intensità, né con le stesse sfumature. Anzi, ciascuno di essi è integrato con elementi tratti da altri paradigmi politici: per esempio la partecipazione può essere intesa, in chiave giusnaturalistica, come l'esercizio di un diritto originario dell'individuo a dare il proprio assenso alle leggi che lo governano, e a designare coloro che lo guidano; la forza segnala che vengono dal popolo gli uomini delle guerre e delle rivoluzioni, ma anche quelli del lavoro; la permanenza, a sua volta, può essere spiegata in base alla geografia (sono la natura e la disposizione del suolo a plasmare il carattere di chi vi risiede durevolmente, a prescindere dalle sue origini etniche), alla razza (ivi compresa la capacità di essa di assimilare i nuovi arrivati), alla tradizione culturale, di cui espressione fondamentale è il linguaggio. Questi connotati conducono quasi sempre a due valori: l'unità del popolo e l'eguaglianza in dignità dei membri di esso. Il primo è evidente, ma è ben chiaro anche il secondo, persino in quei teorici, e non sono molti, che difendevano l'antica società strutturata per ceti: ciascuno di questi, infatti, è naturale e integra e limita gli altri. Comunque la diversità, all'interno del popolo, è un carattere positivo, in quanto consente ad ogni singolo di dare il meglio di sé, ma anche di vivere a proprio talento, senza la costrizione delle regole, artificiali, di uno Stato burocratico. C'è, in quasi tutte le ideologie popolari, anche in quelle che non predicano la rivoluzione, e magari la combattono, una forte carica antiautoritaria (se ne resero conto immediatamente i governanti che, in Germania e in
(V. anche Nazione, idea di).
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