Possessione

Universo del Corpo (2000)

Possessione

Cecilia Pennacini

Il termine possessione designa fenomeni abnormi dell'esperienza e del comportamento, dovuti a presunti influssi esercitati sul corpo umano da forze soprannaturali. I sintomi corporei e psichici indotti dalla possessione, quali appaiono nei diversi contesti etnografici, sono stati spesso catalogati sotto il profilo psicopatologico o psicologico (isteria, schizofrenia, suggestione), ma possono essere interpretati come espressione di un atto comunicativo intenzionale, 'messa in scena' che ricorre a espedienti di natura teatrale. Connessa con l'idea di un'alterità che invade il Sé provocandone la trasformazione, la possessione mette in gioco questioni relative all'identità e alle sue modificazioni nel corso della storia individuale e collettiva.

Definizioni

L'idea che il corpo di determinati individui possa essere in certi momenti invaso da forze estranee - identificate con spiriti di antenati, figure divine o semidivine, eroi, demoni, animali o non meglio definiti poteri sovrumani - è universalmente diffusa. La profonda, irriducibile 'stranezza' di questo fenomeno, che spesso è tale anche per i membri stessi delle culture che ne sono coinvolte, lo ha posto al centro dell'attenzione di studiosi appartenenti a diversi ambiti disciplinari e teorici. La storia delle religioni, l'antropologia, la psichiatria, la psicoanalisi, le teorie drammaturgiche ed estetiche e quelle della comunicazione, gli studi sociali e di genere, sono soltanto alcuni dei diversi approcci che hanno proposto spiegazioni o interpretazioni del problema. All'enorme varietà di espressioni culturali della possessione si affianca una molteplicità di prospettive esplicative. Limitandosi a considerare le tendenze più significative e recenti, è utile anzitutto distinguere la possessione da analoghe forme di relazione trascendente con forze sovrumane, che nei diversi contesti culturali e religiosi possono assumere le caratteristiche dell'estasi (v.), dello sciamanesimo o della mediumship spiritica. L'estasi è definita da M. Éliade (1951) come una condizione di 'uscita dal Sé' ottenuta tramite tecniche particolari, in grado di innalzare la persona alla dimensione del divino. R. Firth (1950), analizzando varie forme di espressione religiosa in uso presso popolazioni di interesse antropologico, distingue tra possessione spiritica, mediumship e sciamanesimo: mentre la possessione comporta la credenza nell'invasione dell'individuo da parte di forze sovrumane che giungono così a dominarlo, quasi sopprimendone momentaneamente la personalità, nella mediumship spiritica la relazione tra tali forze e il posseduto risulta maggiormente orientata alla comunicazione; dopo un periodo iniziatico che generalmente culmina in un rito, il posseduto diviene infatti il medium dello spirito, il quale parla e agisce per suo tramite. Nello sciamanesimo - termine di origine tungusa che viene in generale riferito a tradizioni siberiane, asiatiche e americane - è l'uomo a prendere possesso di una forza estranea, spesso rappresentata da un animale, di cui acquisisce i poteri: da qui la definizione dello sciamano come 'maestro degli spiriti'.

Pur riconoscendo l'utilità operativa di tali classificazioni, è opportuno tenere conto delle sovrapposizioni che contraddistinguono l'uso di questi concetti nei vari contesti etnici. Oltre alle distinzioni menzionate, la possessione ‒ un'idea quasi sempre presente anche nei culti medianici, sciamanici o estatici ‒ è un meccanismo fondamentale alla base di diverse tradizioni religiose. E proprio a partire dall'opposizione, comune a molte culture, tra il corpo inteso come semplice contenitore fisico e l'entità spirituale accolta in esso, la possessione trova una sua definizione generale. Numerose culture, infatti, separano concettualmente l'esistenza materiale, incarnata nel corpo, dalla vita spirituale: l'entità spirituale sembra poter sussistere anche al di fuori di esso dopo la morte degli individui, per tornare a reincarnarsi tramite la possessione.

L'idea di un'entità spirituale, incorporea, che si manifesta incarnandosi nel corpo di qualcuno, è richiamata dalla stessa etimologia del termine spirito, derivante dal latino spiritus: l'esistenza spirituale è associata al soffio d'aria, al vento, a una sostanza 'sottile' in grado di insinuarsi anche nei corpi altrui. Analogamente, in molte lingue bantu gli spiriti vengono rappresentati come venti o respiri, elementi appena percepibili che si ritiene possano assumere la forma del contenitore in cui si introducono. Lo spirito, inteso come sostanza invisibile, fluida e informe, ha dunque bisogno di un involucro che gli dia una forma, una voce, una sembianza umana, mettendolo così nella condizione di comunicare. La possessione offre una dimora corporea a tali spiriti immateriali, conferendo corporeità all'esistenza spirituale; in termini generali, essa consente dunque, in un certo senso, di gettare un ponte concettuale tra i poli della dicotomia corpo/spirito.

Interpretazioni in chiave psicologica

Molti osservatori hanno sottolineato l'associazione, comune anche se non universale, tra la possessione e gli stati di alterazione della coscienza. Di frequente, durante la possessione, il soggetto cade in trance (v.), in una condizione psicofisica alterata rispetto allo stato normale, contraddistinta da agitazione motoria, ansia, difficoltà di respirazione, pianto, sintomi che possono successivamente aggravarsi in una crisi di tipo isterico con allucinazioni, catalessi, perdita di coscienza e successiva amnesia. Talvolta, tale stato di dissociazione viene favorito dall'impiego di sostanze psicotrope, come bevande alcoliche o droghe allucinogene. In molti contesti etnici, e in particolare nelle possessioni africane, tuttavia, la trance è ottenuta unicamente attraverso l'ascolto di ritmi musicali forti e ripetitivi. Una volta superata la crisi, la situazione patologica si protrae, in molti casi, per un periodo la cui durata può variare da alcuni giorni ad alcuni anni, durante cui il posseduto manifesta sintomi considerati il segno del perdurare della possessione. Tale malattia si risolve, in generale, con un rituale di iniziazione che 'legittima' la possessione, attenuando o guarendo la sofferenza del posseduto. Spesso sono gli stessi posseduti a descrivere il percorso iniziatico con il vocabolario della malattia, le cui cause sono ricondotte al volere degli spiriti. La psichiatria propende, in generale, per un'interpretazione di questi fenomeni analoga, almeno inizialmente, a quella fornita dai posseduti e dai membri delle culture cui appartengono: la trance e la 'malattia iniziatica' (locuzione che indica la fase iniziale della possessione, caratterizzata quasi sempre da sintomi di tipo morboso) sono considerate dagli psichiatri fenomeni patologici e, più in particolare, sindromi di tipo isterico.

Alcune prospettive antropologiche accolgono questa spiegazione, riconducendo l'incidenza di tali malattie mentali all'espressione di un disagio sociale: i soggetti deboli e svantaggiati, come per es. le donne, sarebbero più esposti al rischio di contrarre queste patologie, che nelle società tradizionali vengono interpretate in termini di possessione e trattate ritualmente. Le tarantolate pugliesi, studiate da E. De Martino e dalla sua équipe pluridisciplinare (che si avvaleva anche di uno psichiatra), presentavano sintomi simili a quelli descritti. L'origine delle crisi, che esse imputavano al morso del ragno, venne dai ricercatori ricondotta alla condizione di profondo disagio che caratterizzava l'esistenza dei soggetti più deboli della società salentina, e in particolare delle donne. La possessione è interpretata da De Martino (1961) nei termini di una 'crisi della presenza' individuale: emarginate dal loro ambiente, divenute 'invisibili' sulla scena sociale, alle tarantolate non resta altro modo di esprimere la loro condizione se non attraverso la trance, cui la comunità fa fronte con una terapia musicale mirante a una risocializzazione della paziente. La sofferenza psicologica prende così la forma della possessione, interpretata qui come l'espressione di un diffuso malessere sociale. I.M. Lewis (1971) sviluppa una teoria generale dell'estasi religiosa non lontana da quella elaborata da De Martino a proposito del tarantismo. Partendo dallo studio del culto degli spiriti zar, che interessa una vasta regione comprendente Somalia, Etiopia e Sudan, Lewis identifica a sua volta nelle donne, e nella loro emarginazione sociale, il bersaglio favorito della possessione. A causa del loro status svantaggiato, le donne tendono infatti ad accusare una serie di patologie organiche e inorganiche strettamente connesse con le condizioni di esistenza materiale e sociale in cui vivono.

L'interpretazione tradizionale riconduce alla possessione da parte degli zar la causa delle malattie sofferte dalle donne, le quali entrano così a far parte di una speciale confraternita dedita a complesse pratiche rituali. La possessione viene vista in questo caso come il tentativo di riscattarsi da una condizione di patologica marginalità, interpretazione, questa, che Lewis estende comparativamente a numerosi altri contesti etnici, giungendo a postulare un'associazione universale tra l'origine di pratiche religiose di tipo estatico e la condizione di emarginazione sociale. In taluni casi queste pratiche periferiche possono, secondo Lewis, evolvere trasformandosi in vere e proprie religioni, perdendo tuttavia gran parte del caratteristico 'entusiasmo'. Il fatto che le donne risultino essere, in molti contesti, i soggetti privilegiati della possessione è stato perlopiù spiegato, come appena visto, ricorrendo alla teoria dell'espressione del disagio e dell'emarginazione sociale; sviluppando ulteriormente questa argomentazione, si è tentato di dimostrare l'esistenza di una relazione specifica tra le deficienze nutrizionali che frequentemente caratterizzano la condizione femminile e la tendenza a cadere preda di crisi di tipo isterico (Kehoe-Giletti 1981). La scarsità di risorse alimentari, unita a regole suntuarie che spesso vietano alle donne gli alimenti più ricchi di potere nutritivo, la successione di gravidanze e periodi di prolungato allattamento, possono determinare una situazione di grave carenza alimentare (in particolare di calcio e di vitamina D), in grado di provocare disturbi del sistema nervoso centrale e dell'apparato muscolare, che le tradizioni locali leggerebbero come casi di possessione spiritica. Alla diffusione 'mondiale' di carenze nella dieta femminile corrisponderebbe dunque, in questa teoria, l'universale prevalenza delle donne nei culti di possessione.

Interpretazioni in chiave teatrale

All'opposto delle teorie che identificano la possessione con una patologia, vi sono le concezioni che ne evidenziano il carattere di deliberato atto comunicativo e la natura fondamentalmente teatrale. Spesso la possessione è intenzionalmente rappresentata in una 'messa in scena' che ricorre a espedienti di tipo teatrale. Il posseduto indossa allora particolari abiti, impugna oggetti dal significato simbolico, modifica il tono della voce contraffacendolo o impostandolo secondo precise convenzioni: in questo modo egli 'significa' la sua condizione di posseduto recitando la parte dello spirito che dimora in lui. Il culto degli zar, utilizzato da Lewis come modello di possessione patologica, diviene il prototipo della concezione teatrale della possessione in un lavoro di M. Leiris (1958). Secondo questo autore, le cerimonie del culto zar rispondono principalmente a obiettivi estetici e spettacolari: nelle regioni etiopiche da lui visitate, le possessioni zar si presentano come pantomime che, utilizzando costumi sfarzosi, musica, danze e recitazione, creano una rappresentazione del mondo parallelo degli spiriti, raffigurati all'interno dei rituali sotto la forma di maschere stereotipate che ispirano un'ampia gamma di improvvisazioni. Le rappresentazioni del culto, rese piacevoli dall'uso sapiente di strumenti spettacolari, contribuiscono efficacemente a esprimere e a trasmettere valori e temi caratteristici del patrimonio culturale e religioso. Ritroviamo una prospettiva vicina a questa nell'opera dedicata da A. Métraux, nel 1958, al vodù haitiano. Il vodù, diffusamente praticato sull'isola di Haiti, è costituito essenzialmente da un sistema di culti di possessione di origine africana. Gli adepti vengono sistematicamente posseduti dai loa, spiriti originariamente appartenenti al pantheon dei fon del Golfo di Guinea, verso cui si rivolgono pratiche che attingono sia a tradizioni religiose africane sia al cattolicesimo.

Le cerimonie che si svolgono nei templi sono caratterizzate da trance collettive indotte dalla musica e dalla danza, nel corso delle quali ciascun loa, identificabile grazie a specifici simboli e attributi, parla e agisce per il tramite dei posseduti. Anche in questo caso il rito assume la forma di una rappresentazione in cui i partecipanti in trance recitano la parte dello spirito che li sta 'cavalcando' (secondo un'espressione tipica del vodù), indossano particolari costumi ed eseguono movimenti e gesti convenzionali. Accanto alla dimensione teatrale del rito, Métraux descrive anche la sofferenza subita dagli adepti durante il periodo iniziatico, rivissuta poi nel corso di ogni nuova cerimonia. Questo complesso di disturbi, che un occidentale tenderebbe a considerare patologici, risultano essere, secondo Métraux, del tutto 'normali' nel vodù. Per chi è cresciuto all'interno di una cultura della possessione, i fenomeni che in Occidente sono descritti come malattie mentali o attacchi di nervi e curati come tali vengono, al contrario, incoraggiati in quanto segno della scelta degli spiriti. La malattia iniziatica e la dissociazione, quando presenti, sono dunque accolte e sollecitate quali mezzi per raggiungere lo status sacro del posseduto. Nell'interpretazione di Métraux, la natura teatrale della possessione non esclude dunque una dimensione di reale, drammatica sofferenza che il percorso iniziatico comporta. Tuttavia, la malattia stessa può essere considerata una sorta di copione esistenziale che il posseduto persegue e interiorizza fin dalla più tenera età, incoraggiato in questo dalle attese della sua stessa famiglia.

La sofferenza e la malattia non vengono percepite, in tale contesto, come disgrazie, bensì come indizio della scelta degli spiriti che consente di raggiungere lo status privilegiato di posseduto. Quanto più severo è il decorso della malattia iniziatica, tanto più esso realizzerà il processo di trasformazione attraverso il quale una persona comune diviene un medium spirituale, dotato di prerogative sia divinatorie sia taumaturgiche. La malattia iniziatica viene pertanto considerata, nella suddetta prospettiva, come un percorso simbolico che determinati individui intraprendono per 'trasformare' il loro corpo in una sorta di contenitore, adatto ad accogliere gli spiriti che vi dimoreranno. Anche in questa fase la prospettiva teatrale assume un significato pregnante: per poter giungere a un'identificazione con gli spiriti, l'individuo deve in un certo senso oltrepassare il confine che separa il mondo reale dall'universo immaginario popolato di esseri mitici e spirituali, per stabilirsi in esso divenendone un portavoce terreno. Egli stesso deve contribuire a costruire lo scenario di quel mondo, rappresentandolo nel corso dei rituali nella maniera più efficace e realistica, avvalendosi per questo di diversi codici espressivi e di espedienti spettacolari. Ma ancor prima della concreta messa in scena offerta dai rituali, la possessione implica una sorta di rappresentazione interiore, all'interno della quale l'individuo ridefinisce sé stesso in vista del ruolo che dovrà ricoprire. Tale rappresentazione 'profonda' è necessaria per edificare all'interno del Sé quel mondo immaginario cui il posseduto per primo deve aderire. Questo meccanismo di identificazione interiore risulta indispensabile alla possessione; esso è per così dire il primo mattone di quella grande costruzione dell'immaginario di cui partecipano sia i posseduti sia gli spettatori. E tuttavia l'immersione nel mondo degli spiriti non risulta mai assoluta e definitiva: il posseduto e il suo pubblico sembrano infatti mantenere sempre una qualche consapevolezza del carattere costruito e teatrale della possessione, fosse anche soltanto per via delle tecniche utilizzate per entrare nella trance, che comportano di norma un periodo di apprendimento o l'uso di sostanze per favorirla. La possessione mantiene dunque una caratteristica ambiguità, che la porta a oscillare costantemente tra la consapevolezza della sua convenzionalità e l'esigenza di un'identificazione mistica con il mondo degli spiriti.

La prospettiva di considerare la possessione e le sue diverse fasi nei termini di una rappresentazione teatrale profonda, utile per rendere conto di tale ambiguità, non intende offrire un'immagine desacralizzata dei culti di possessione: al contrario si propone più in generale di indagare i complessi meccanismi della costruzione, dell'interiorizzazione e del funzionamento dell'esperienza religiosa. Lavorando in questa direzione, F. Kramer (1987) ha sviluppato una teoria che avvicina concettualmente la possessione alla dimensione artistica ed evidenzia la centralità svolta in entrambi gli ambiti dalla 'facoltà mimetica'. Il concetto di mimesi, di derivazione aristotelica, vede nell'imitazione la funzione fondamentale dell'arte, e in particolare del teatro e degli altri generi drammaturgici, che cercano di rappresentare la vita reale nella maniera più diretta e dettagliata, creando per così dire un 'doppio' della realtà. La possessione agisce, secondo Kramer, in maniera analoga, ricreando nel modo più vivido e verosimile la vita di esseri immaginari e utilizzando le tecniche e gli espedienti del teatro per farli rivivere dentro al corpo dei posseduti. In questo senso la possessione e la sua capacità mimetica svolgono un ruolo di grande importanza in molte tradizioni religiose, cui contribuiscono dando vita a miti e cosmologie di fronte agli spettatori del rito e all'interno del posseduto stesso.

Storia individuale e storia collettiva

Le prospettive che spiegano la possessione come una malattia cui è inevitabile sottomettersi e quelle che invece la considerano una rappresentazione simbolica e teatrale si fondono nell'esperienza individuale dei posseduti. Tale esperienza viene quasi sempre descritta come un processo che trasforma i sintomi patologici, caratteristici del periodo iniziale, nella rappresentazione simbolica e convenzionale della possessione offerta dai rituali che seguono l'avvenuta iniziazione. Al livello della storia individuale, la possessione sembra in effetti essere utilizzata per superare un momento di crisi esistenziale o psicologica, grazie all'intervento di un'interpretazione che spieghi tale crisi nei termini di una chiamata spirituale. Si innesca così un processo di 'guarigione', fondato sul meccanismo della trasformazione dei sintomi iniziali in simboli culturalmente condivisi; il carattere inizialmente coercitivo e doloroso della possessione si tramuta nella messa in scena pubblica, spettacolare e spesso gioiosa, di un universo spirituale con cui l'individuo è in un certo senso sceso a patti. Alcuni antropologi d'impostazione psicoanalitica hanno indagato i meccanismi attraverso i quali la possessione riesce a innescare tale processo di trasformazione 'psicodinamica'. V. Crapanzano (1977, 1980, 1981), che ha svolto ricerche sulla confraternita marocchina degli Hamadsha, propone di considerare la possessione come un idioma utilizzato per 'articolare' determinate classi di esperienza: essa interverrebbe a fornire un'interpretazione di certi sentimenti rudimentali (tipicamente quelli edipici) che si trasformerebbero così in eventi significativi. Gli spiriti rispecchiano, in questa visione, figure parentali nei confronti delle quali il soggetto prova desideri ambivalenti, costituendo proiezioni in senso freudiano utilizzate per esternare i sentimenti conflittuali e per acquisire quelli che Crapanzano definisce 'punti di orientamento biografico', figure percepite dal posseduto come guide in grado di indirizzarne l'esistenza. Nell'ambito delle prospettive psicoanalitiche, una teoria generale dei fondamenti psicologici della possessione e dell'esperienza religiosa si deve a G. Obeyesekere (1981, 1990), che ha analizzato le storie di vita di un gruppo di 'preti estatici' dello Sri Lanka.

Nei casi studiati l'esperienza mistica si articola sempre in due fasi: la prima corrisponde a una possessione descritta in termini demoniaci come una sequenza di attacchi violenti degli spiriti contro la persona. In essi Obeyesekere legge l'esigenza di esprimere ed espiare sentimenti di colpa primari e desideri latenti vissuti nei confronti di figure parentali. Nella seconda fase i parenti offesi rappresentati dagli spiriti si trasformeranno in figure benevole durante i rituali, che innescano un meccanismo di acting out, cioè una rappresentazione teatralizzata che favorisce l'esternazione dei sentimenti minacciosi, i quali risultano esorcizzati. I mistici dello Sri Lanka studiati da Obeyesekere segnalano tale trasformazione con la comparsa di un simbolo significativo: la crescita sul loro capo di ciocche di capelli aggrovigliati e proteiformi.

Nell'interpretazione psicoanalitica fornita dall'autore, la causa scatenante la possessione andrebbe rintracciata nella perdita dell'oggetto d'amore (per es., un abbandono o una separazione) e del successivo intensificarsi di una relazione spirituale descritta in termini erotici. I sintomi che seguono il primo, violento attacco spirituale si trasformano così in un simbolo ‒ le ciocche aggrovigliate ‒ che suggella il matrimonio mistico tra lo spirito e il posseduto, nonché il suo definitivo cambiamento di status. Nella forma particolare della vocazione mistica, la possessione funziona dunque come una sorta di psicoterapia che mette gli individui nella condizione di superare i traumi esistenziali, provocando un profondo, duraturo cambiamento non solo del loro status sociale ma anche e soprattutto della loro identità psicologica. Connessa com'è all'idea di un'alterità che invade il Sé inducendone la trasformazione, la possessione mette necessariamente in gioco una serie di questioni relative all'identità e alle modificazioni che essa subisce nel corso della storia dei singoli e dei gruppi. Ciò accade per quel che riguarda sia la relazione tra il corpo e le entità spirituali a esso associate, sia la storia dei traumi e dei processi dinamici inerenti alla personalità del singolo, sia, infine, l'identità collettiva di un gruppo o di una società. Anche in quest'ultimo caso, la possessione sembra avere la tendenza a mettere in discussione l'idea dell'integrità e dell'inviolabilità dei confini entro i quali le culture si riproducono e si trasmettono. Molto spesso, per es., gli spiriti protagonisti della possessione risultano stranieri rispetto alla società in cui il culto è praticato. Lo studio già menzionato di Kramer (1987) descrive numerosi casi di culti di possessione africani, incentrati su figure di spiriti alieni. Per es., a partire dalla colonizzazione, i rituali vengono rivolti a spiriti di origine europea, spesso mutuati dalla religione cristiana: attualmente, in un culto di possessione della regione centroafricana dei Grandi Laghi (denominato nelle lingue locali kubandwa) la Vergine Maria e l'apostolo Pietro prendono possesso dei medium, che assumono così poteri taumaturgici e divinatori (Beattie 1961; Pennacini 1998).

Analogamente, la confraternita religiosa degli Hauka - una setta sviluppatasi dal vasto ceppo di culti bori diffusi in Africa occidentale e centrale - durante l'epoca coloniale officiava riti nei quali gli adepti in trance mettevano in scena parate militari; in questo modo gli Hauka intendevano impossessarsi simbolicamente del potere dei coloni inglesi. Già prima dell'arrivo degli europei, molte società tradizionali rispecchiavano nei loro rituali di possessione i contatti, gli scontri o gli scambi avuti con culture diverse. La possessione e la sua capacità mimetica sembrano utilizzate, in questi casi, come mezzi per esprimere e concettualizzare la differenza culturale, trasformandola in qualcosa di maggiormente familiare. Spesso la possessione, sedimentando le une sulle altre figure spirituali diverse, attinte alle varie tradizioni straniere con cui una società è entrata in rapporto, fornisce una sorta di visione della storia in grado di restituire, nella forma mitica e stilizzata della rappresentazione rituale, alcuni degli eventi accaduti nel passato. In tal senso, la possessione è storia 'congelata' dei diversi contatti con l'alterità che, inevitabilmente, hanno turbato e al tempo stesso arricchito l'esistenza di gran parte delle culture.

Nelle società melanesiane, per es., tale processo d'importazione di spiriti dall'esterno è estremamente comune: a partire dal 19° secolo, i flussi migratori interni legati a spostamenti di manodopera verso le isole principali costituirono altrettante occasioni per acquisire, o talvolta anche per 'comprare', idee religiose straniere, spiriti o poteri magici, che si sono sovrapposti gli uni agli altri documentando in qualche modo i contatti interetnici avvenuti nell'area. Il risultato complessivo di tali scambi è una situazione religiosa che in alcune culture, come per es. tra i kwaio dell'isola di Malaita, appare profondamente improntata al relativismo, alla tolleranza, al pluralismo (Akin 1996). Allo stesso tempo, tuttavia, taluni spiriti stranieri possono essere considerati pericolosi, in quanto ritenuti capaci di minare la cultura e l'identità tradizionali.

Un'ambivalenza fondamentale caratterizza dunque i culti di possessione di questa regione: da un lato essi risultano profondamente attratti dall'alterità, mentre dall'altro mostrano di idealizzare una chiusura dei confini culturali e religiosi. I confini etnici, i confini corporei e quelli che identificano il Sé risultano essere, in generale, luoghi cruciali delle culture che la possessione contribuisce a definire, a ripensare o, talvolta, a sgretolare. Alla luce dei fenomeni della possessione, infatti, tali confini, spesso considerati sacri e immutabili, risultano invece porosi, facilmente attraversabili da entità spirituali o da identità altre che giungono a modificarne il contenuto interno. La possessione registra così, a suo modo, la storia dei rapporti che una cultura ha avuto con l'alterità che la circonda, come anche la storia dei conflitti e dei desideri che una persona ha provato nei confronti di 'altri' significativi, o ancora la storia delle numerose trasformazioni del Sé che il contatto con altri comporta e che a volte può essere percepito come vera e propria invasione. D'altro canto, lo sviluppo di tradizioni religiose fondate sulla possessione in determinate società può essere visto anche come l'indice della presenza di concezioni della persona e della cultura pluralistiche e tendenzialmente aperte ad accogliere al loro interno alterità sconosciute.

Bibliografia

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