POSTMODERNO

Enciclopedia Italiana - V Appendice (1994)

POSTMODERNO

Giorgio Patrizi
Maria Anita Stefanelli
Stefano Chiodi
Ada Francesca Marcianò

Letteratura. - L'uso del termine p. è già rinvenibile negli anni Trenta, allorché il compilatore di una Antologia de la poesia española y hispanoamericana (1882-1932), del 1934, F. de Onis, con tale locuzione definiva la reazione alla Modernità che sorgeva al suo stesso interno; definizione poi ripresa dallo statunitense D. Fitts nella sua Antology of contemporary Latin-American poetry (1942). Alcuni anni dopo, nell'8° volume di A study of history (1954) di A. Toynbee, p. stava a indicare un nuovo ciclo della civiltà occidentale, iniziato attorno al 1875. Tra la fine degli anni Cinquanta e gli anni Sessanta il termine è ampiamente presente negli Stati Uniti, nella pubblicistica e nel dibattito estetico di varie discipline: per la letteratura, lo si ritrova negli scritti del poeta C. Olson; in accezione negativa, indicato come fase di decadenza, in saggisti quali I. Howe e H. Levin; con valutazione positiva nella critica di L. Fielder e I. Hassan. Ma è soprattutto in architettura che il p. diviene una categoria di aperta polemica con il moderno − le cui teorie sono accusate di aver distrutto la cultura tradizionale dei centri urbani −, di cui si prefigura il superamento, per es. nel lavoro dello statunitense R. Venturi negli anni Sessanta e Settanta, attraverso l'uso di stilemi derivati sia dalla cultura alta che da quella di massa o di consumo.

A partire dal 1979 il p. diviene materia di un dibattito molto ricco sia in sede filosofica sia sul piano creativo e ancora sul piano della cultura dei mass media: in quell'anno il filosofo francese J.-F. Lyotard pubblica La condition postmoderne, in cui indica l'età contemporanea come quella in cui la modernità ha raggiunto il suo termine con la scomparsa, la delegittimazione, di quelli che egli chiama i "grandi racconti", vale a dire le prospettive ideologiche che, a partire dall'Illuminismo, hanno organizzato e condizionato il pensiero, la conoscenza e il comportamento delle culture occidentali. Tre soprattutto: il "racconto" del processo di emancipazione degli individui dallo sfruttamento e dalla servitù, quello del progresso come miglioramento costante delle condizioni di vita, e ancora il "racconto" idealistico della dialettica come legittimazione del sapere in una prospettiva assoluta. Rispetto a questi "metaracconti", l'età postmoderna dichiara la sua sostanziale estraneità: non più legata quindi ai grandi progetti e ai grandi fini (la Rivoluzione, il Progresso, la Dialettica), essa si riconosce, secondo Lyotard, nella pluralità dei discorsi pragmatici che professano una validità soltanto strumentale e contingente. I "giochi del linguaggio" definiscono proprio questa realtà molteplice e antidogmatica, in cui l'individuo si colloca all'incrocio delle varie forme di conoscenza pratica, senza più perseguirne una visione totalizzante.

In Italia, riprende il concetto di p. ma conducendolo a prospettive diverse ed evidenziandone matrici nietzschiane e heideggeriane il filosofo G. Vattimo, che, in una serie di scritti usciti tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta, ha definito il p., secondo una prospettiva successivamente ribadita (Le avventure della differenza, 1979; Al di là del soggetto, 1981; La fine della modernità, 1985), come l'epoca del cosiddetto ''pensiero debole''.

Se la fine della modernità è caratterizzata dalla fine dei progetti ideologici che ne fissavano l'identità razionale, le motivazioni, le legittimazioni in termini "forti", la crisi di questi modelli implica anche la postulazione di un soggetto "debole", non più capace di arrogarsi la centralità conoscitiva e problematica che si era attribuito nella modernità, e quindi piuttosto testimone del presente, non più letto in rapporto − positivo o negativo che sia − con la tradizione, quanto autolegittimantesi da un atteggiamento di pietas. La liquidazione di Lyotard dei "metaracconti", afferma il filosofo italiano, fa ancora parte della logica narrativa e ideologica del moderno: occorre pertanto riguardare alla tradizione desacralizzandola, attraverso una pietas che indichi il rispetto umano per valori che tuttavia non hanno più alcuna assolutezza, ma un senso e una funzione contingente. Dunque si tratta non di un superamento − che riproporrebbe la ricerca ossessiva del nuovo tipica del moderno −ma di un riattraversamento del passato con l'intento di destrutturarlo, di coglierne elementi parziali da far valere nel presente.

Da qui deriva la giustificazione teorica di una tecnica che diviene centrale nelle pratiche creative del p.: la citazione come gusto dell'accostamento (proprio del bricolage) di stilemi appartenenti a epoche diverse, senza più alcuna istanza critica nei confronti di queste epoche. Tuttavia, se il ''pensiero debole'' precisa in direzione postmoderna l'istanza del superamento del soggetto affermata da Nietzsche (per cui Vattimo legge l'Uebermensch non più come "superuomo" ma come "oltreuomo", prospettando un fondamento ''debole'' per il nuovo individuo che annulli ogni valenza metafisica nella "volontà di potenza"), in esso è da rilevare, nell'idea di "decostruzione", l'influenza di J. Derrida (v. in questa Appendice).

Le tesi di Derrida, negli anni Settanta e Ottanta a lungo soggiornante negli Stati Uniti e dunque in contatto con il dibattito sul p., costituiscono infatti la più radicale teorizzazione del pensiero postmoderno e delle pratiche estetiche che ne derivano. La riflessione derridiana sul superamento della metafisica attraverso la "scrittura", intesa come rete di significanti che perdono il legame con il proprio significato e dunque con la propria "fondazione", nella cultura americana viene in contatto con le teorie della ''scuola di Yale'' (P. de Man, H. Bloom, G.H. Hartman) che disegnavano, con varie articolazioni, un tipo di lettura (anzi "dislettura") del testo letterario al di fuori di ogni processo comunicativo o espressivo, come pura retorica in atto, di figure senza istanza argomentativa o persuasiva (v. decostruzionismo, in questa Appendice). Su questa reazione al modello rigido del close reading dei New Critics degli anni Cinquanta e Sessanta, Derrida innesta la sua originale idea della "decostruzione" come cultura peculiare del postmoderno. Se il superamento della metafisica, di cui la modernità non è che un'estrema propaggine, avviene con la pratica e il riconoscimento della "scrittura" nell'accezione di cui si è detto, non ha più senso parlare di discipline, generi, tradizioni: tutto si scioglie in una permanente intertestualità in cui, al di là di ogni organicità testuale (filologica o storico-critica), si collegano frammenti di testi anche molto lontani per lingua o tradizione, ma apparentati da consonanze, evocazioni, casuali dialoghi che sembrano instaurarsi tra di essi. La decostruzione si presenta allora come la forma estrema del citazionismo, del rifiuto della tradizione storicizzata e della progettualità estetica (per es. quella tipica delle avanguardie) che caratterizzano il p.; da essa derivano scritture che mescolano critica e poesia, filosofia e autobiografia, in un vertiginoso e asistematico inseguirsi di frammenti di senso, che provoca l'irruzione di un irrazionalismo radicale nella speculazione estetica e filosofica.

Negli anni Ottanta, una reazione al decostruzionismo, sempre nell'ambito del pensiero del p. statunitense, si è avuta nelle tesi del filosofo R. Rorty (Philosophy and the mirror of nature, 1979; Contingency, irony and solidarity, 1989) che, riaffermando paradossalmente in prospettiva postmoderna l'attenzione ai problemi sociali ed esistenziali dell'individuo, disegna un ruolo ''debole'' della filosofia che, non più arrogandosi la funzione di costruttrice di teorizzazioni assolute, si riconosce nell'"ironia liberale" con cui prende atto della propria contingenza e precarietà; e tuttavia essa non rinuncia a dare risposte pragmatiche, individuali, contingenti e non sistematiche, ai problemi della sofferenza e del bisogno di solidarietà. Da quest'ampia costellazione di teorie e discussioni deriva il p. divulgato sul piano della scrittura letteraria, della pittura, dell'architettura, del design, della musica: una molteplicità di pratiche che, spesso all'insegna di un gusto promosso dal mercato, si caratterizzano soprattutto per l'accostamento di elementi stilistici di varie epoche, assemblati ludicamente.

Alla diffusione del p. come teoria e come prassi si sono opposte tante voci che rivendicano la problematicità di un moderno non ancora chiuso o delegittimato: una delle opposizioni più interessanti al p. deriva dalla critica del filosofo tedesco J. Habermas (Der philosophische Diskurs der Moderne, 1985). Contro la liquidazione di Lyotard e poi di Derrida del progetto illuminista come legittimazione fondante, nella prospettiva emancipativa, dei comportamenti e dei saperi, Habermas (v. in questa Appendice) afferma la necessità di un recupero della carica progettuale del moderno, al cui interno la ragione, pur autocritica, mantenga un ruolo regolativo, dispiegandosi nei modi disegnati dalla "teoria dell'agire comunicativo".

Bibl.: Oltre alle opere degli autori citati (Lyotard, Vattimo, Rorty, Habermas: su Derrida, v. in questa Appendice), v. M. Ferraris, Tracce. Nihilismo, Moderno e Postmoderno, Milano 1983; F. Jameson, Postmodernism or the cultural logic of late capitalism, Durham 1984 (trad. it., Il postmoderno, o la logica culturale del tardo capitalismo, Milano 1989); Postmoderno e letteratura, a cura di P. Carravetta e P. Spedicato, Milano 1984; Moderno e postmoderno, a cura di G. Mari, ivi 1987; T. Maldonado, Il futuro della modernità, ivi 1987.

La letteratura postmodernista statunitense. - Il profilo letterario del p. statunitense è quello di un movimento artistico e culturale senza una specifica fisionomia di gruppo, nato dall'esperienza intellettuale degli anni Sessanta, in concomitanza con l'atmosfera d'illusorio ottimismo che distingue il periodo di presidenza di J.F. Kennedy e la successiva rimessa in discussione della storia causata dall'assassinio dello stesso Kennedy a Dallas, la delusione dovuta alle amministrazioni di L. Johnson e R. Nixon, turbate dalla guerra nel Vietnam e dallo scandalo Watergate. La letteratura postmodernista è caratterizzata da fittizie costruzioni di mondi artificiali, con allestimenti di scenari mitici, fantastici o fiabeschi, secondo un principio logico interno al testo, entro cui il soggetto è sempre più imbrigliato.

Lo spirito postmoderno, inaugurato dal romanzo di W. Borroughs Naked lunch (1959), permea gli scritti di F. O'Connor, R. Brautigan, R. Coover, D. Barthelme, J. Barth, T. Pyncheon, K. Vonnegut jr, W.H. Gass, J. Hawkes, I. Reed, J. Kosinski, e si esprime nello smembramento di immagini e forme, di codici linguistici, di generi letterari, che si ricompongono entro un linguaggio pesantemente tropico e alleggerito di norme e restrizioni, non controllato da una mente unificatrice. Il soggetto si nasconde, tendendo incessantemente ad annullarsi nel silenzio. In un mondo di parole e oggetti, di illusioni e di assenze, trionfa il principio del gioco nei suoi aspetti aleatori e prefissati, puramente ludici e rigorosamente normativi, probabilistici, circolari, infiniti. In queste alterazioni consapevoli del codice linguistico e letterario è riconoscibile il notevole influsso esercitato sulla letteratura postmodernista statunitense − come sulla teoria letteraria di questo periodo − dagli scritti di R. Barthes e J. Derrida.

La discontinuità e la frammentazione del linguaggio caratterizzano il genere letterario del black humor, che produce scritti in cui il dato storico è sottoposto a un rifacimento delirante e accoglie, nelle opere composte verso la fine del decennio e negli anni Settanta, una qualità blasfema (si ricordano S. Katz, M. Gins e P. Roth). L'espressione di una soggettività paranoica e schizoide, che aveva caratterizzato, nel dopoguerra, le opere degli scrittori ebrei (tra cui S. Bellow), si acuisce, aggravando il senso di frustrazione e isolamento e, allo stesso tempo, si colora di toni demistificatori.

Negli anni Ottanta il soggetto è sempre più intrappolato nelle differenze − di razza, di religione, di classe, di genere, di sesso − impossibilitato com'è a confrontarsi con il proprio opposto. Pullulano testi in cui la cerniera spaziotemporale cede alle lusinghe di un linguaggio che si esprime al limite dell'umorismo, dell'orrore, del fantastico, del fantascientifico. Tra gli scrittori di prosa di questo decennio si ricordano: H. Jaffe, K. Acker, W. Abish, R. Federman, R. Kostelanetz, D. De Lillo, J. Russ, R. Silliman, J. Arnold e S. Delaney. Tra i poeti: S. Plath, J. Berryman, T. Roethke ed E. Bishop.

Bibl.: I. Hassan, The dismemberment of Orpheus, Madison (Wisconsin) 19822; F. La Polla, Un posto nella mente: il nuovo romanzo americano 1962-1982, Ravenna 1983; Postmodern fiction, a cura di L. McCaffery, New York 1986; Narrativa postmoderna in America, a cura di C. Bacchilega, Roma 1986; L. Hutcheon, A poetics of postmodernism, New York 1988; Some others. Contemporary American poetry, a cura di P. Sherman, in North Dakota Quarterly, 55 (1987), 4.

Arte. - Come molte etichette di successo, anche quella di p. ha potuto diffondersi dalle discussioni specialistiche alla vasta platea dei media solo a prezzo di un progressivo sfocamento concettuale, finendo spesso per diventare non molto più di una parola d'ordine o di un ammiccamento sul piano del costume. Il campo qui considerato −le arti visive nel quindicennio a cavallo tra la fine degli anni Settanta e i primi Novanta − non fa in questo senso eccezione, con una produzione assai cospicua, ma in buona sostanza ''secondaria'' e con tendenza alla ripetitività, che non potrà essere vagliata nell'ambito di questa voce. Si deve osservare peraltro, entrando nel vivo del dibattito intorno alla ''postmodernità'', come questo si sia sviluppato oltre che in forme consuete come il saggio critico o lo scritto d'artista, anche in modi ibridi, di difficile collocazione in ''griglie'' storiografiche tradizionali, con un indebolimento della distinzione tra ''opera'' e ''commento'' (dove spesso la prima si presenta nelle vesti del secondo e viceversa), e una diffusa contaminazione tra generi. In queste caratteristiche è possibile riconoscere un primo sintomo di quella più generale tendenza a forzare riferimenti ''istituzionali'' e ritualità di vario ordine, che costituisce, come vedremo, un tratto distintivo del panorama artistico contemporaneo.

Il periodo in questione è stato in effetti teatro di un profondo rimescolamento culturale, percepito inizialmente soprattutto per le manifestazioni più appariscenti − ''ritorni'' formali inaspettati, frenetico ricambio di ''stili'' − ma che ha via via mostrato una portata assai più vasta, tanto da porre in discussione le fondamenta stesse dell'edificio del modernismo con urgenti domande sull'identità attuale della pratica artistica. Alla base di tutto c'è senz'altro la sempre più diffusa consapevolezza del definitivo trasformarsi dell'avanguardia in ''tradizione'', contestualmente al venir meno della fiducia nell'''effetto emancipatore'' dell'arte e nel sogno utopico di un tempo di pura ''presenza'', di uno spazio ''oltre'' la rappresentazione. E tutto questo in un periodo che ha visto d'altro canto uno sviluppo senza precedenti della visibilità dell'arte contemporanea: musei, riviste, gallerie, si sono moltiplicati in tutto il mondo occidentale, attirando un pubblico nuovo e molto più vasto che in passato, mentre parallelamente si affermavano un rapporto meno conflittuale tra la pratica artistica e i meccanismi della società di massa (inclusi quelli connessi al mercato) e una sorta di scetticismo pragmatico contrapposto alle ''vecchie'' visioni ideologiche. L'adversary culture modernista, che aveva sfidato l'ordine culturale "borghese" e la "falsa normatività" della sua storia (Habermas 1980), viene percepita in questa prospettiva come una cultura ufficiale: opere un tempo considerate scabrose e rivoluzionarie appaiono ormai ''assimilate'' e consegnate alla più prosaica fortuna delle riproduzioni a colori. Una conseguenza di tutto questo è che l'artista, come nota H. Belting (1983), si trova in tal modo privato della distanza fissa dall'arte del passato, una distanza che gli era garantita dalla rottura storica inaugurale e dal carattere ''progressivo'' del modello modernista. Egli non crede più di occupare una posizione stabile nella storia e si sente conseguentemente libero di mettere in dubbio le posizioni assegnate alle opere, così come sono rispecchiate nell'ordine del museo. Ma oltre alla distanza, l'artista ha perso anche l'atteggiamento di opposizione all'arte del passato, un passato dov'è inclusa ormai anche la modernità novecentesca e che si rende disponibile per essere decomposto o reintegrato a volontà.

Rispetto al modernismo, il p. si presenta allora come superamento del pathos della novità e insieme come tentativo di procedere oltre la prospettiva della morte dell'arte che era questione che aveva caratterizzato le poetiche dell'avanguardia. Questa visione non direzionata e multifocale della storia trova una significativa corrispondenza nell'uso dominante del montaggio nell'arte più recente (Buchloch 1982), tecnica nella quale tendono a essere abolite le tradizionali gerarchie linguistiche e perde consistenza una categoria-feticcio della storia dell'arte come quella di ''originale''. Proprio nella definizione del piano della rappresentazione si può infatti individuare, come indica D. Crimp (Foster 1983), un punto di rottura col modernismo; il piano figurativo ora non viene più pensato come verticale, virtualmente trasparente e focalizzato su un osservatore unico (Dunning 1991), bensì come una flatbed surface - termine coniato da L. Steinberg (1972) in riferimento all'opera di R. Rauschenberg −, una superficie orizzontale che può ricevere un vasto insieme di immagini e segni che non erano compatibili con il campo pittorico moderno.

Emersa in un primo tempo nella critica letteraria statunitense degli anni Sessanta, la controversia sul p. ha estensivamente interessato il campo dell'architettura contemporanea, a partire soprattutto dall'influente intervento di C. Jencks (1977), che additava la valenza liberatoria di pratiche sino ad allora condannate dalla cultura modernista, come l'eclettismo, il revival, il citazionismo, ecc. È stato J.-F. Lyotard (1979) a fornire una base più ampia a tutta la questione. Muovendo dalla constatazione della crisi delle grandi "narrazioni" caratteristiche dell'età moderna, attraverso le quali si è realizzata la legittimazione politica e sociale del sapere, il filosofo nota come nella società informatizzata la conoscenza si disperda ormai in una "nebulosa" comunicativa, in cui viene minata la visione umanistica del sapere come progresso ed emancipazione. Secondo Lyotard nell'arte postmoderna non solo ci si confronta con l'universo della comunicazione succeduto a quello della produzione, ma le forme di questa riflessione vengono a essere sovradeterminate dai modi della comunicazione. P. sarebbe ciò che chiama in causa la presentazione stessa, ciò che si rifiuta al consenso di un gusto e va costantemente alla ricerca di nuove modalità di presentazione. E questo non in base a un puro capriccio: l'artista lavora sì senza regole, ma per stabilire le regole interne di ciò che sarà fatto.

Nell'età postmoderna il nodo estetico centrale non è dunque più quello, moderno, del rapporto esiziale con la riproducibilità tecnica additato da W. Benjamin; è invece la constatazione che il nuovo, il reale, l'esperienza passano a priori attraverso le griglie della comunicazione: e che pertanto non esistono più, in senso stretto, né nuovo, né reale, né esperienza, ma una rete di "simulazioni" in un universo regolato da codici privi di finalità (Baudrillard 1976). Compito dell'arte diviene allora manifestare un possibile non sperimentato, ancora senza regola, della sensibilità o del linguaggio; caduta la fede nel soggetto fondante, nel linguaggio veridico e nell'essere fondamentale, l'attitudine centrale diviene così la sperimentazione - contrapposta all'esperienza hegelianamente intesa come manifestazione totale dello Spirito −, modalità adeguata alla condizione "metropolitana" della cultura postmoderna (Ferraris 1980).

Se la congiuntura dell'arte contemporanea partecipa dunque di una condizione radicalmente mutata rispetto alla "tradizione del nuovo" di cui parlava H. Rosenberg, un'energica revisione delle modalità operative e dell'orizzonte problematico si è imposta anche nel campo della critica. Un obiettivo polemico immediato, soprattutto in area anglosassone, diviene così la posizione di C. Greenberg, che più di altre ha rappresentato un modello normativo per il modernismo artistico. Secondo un tipico schema di perfezionamento, il critico ricostruiva la storia dell'arte moderna come un'evoluzione verso l'eliminazione della rappresentazione attraverso un progressivo tendere alla flatness: da Cézanne, ai cubisti, all'espressionismo astratto (dove però è ancora rilevata "pittoricità" in eccesso), si giungeva "finalmente", per es. con F. Stella o D. Judd, a un'arte non rappresentativa, autonoma e autoreferenziale. La contestazione di questo approccio, condotta soprattutto da critici statunitensi, muove precisamente dalla constatazione che la crisi dell'avanguardia, e del modello storico modellato su di essa, è ormai irreversibile, e che, una volta "decostruiti", i suoi "valori" si rivelano inutilizzabili nel contesto contemporaneo.

E tuttavia non è sufficiente rivendicare al p. caratteri selezionati tra quelli (polimorfo, figurativo, frammentario, pop, allegorico, ecc.) diametralmente opposti a quelli modernisti di Greenberg. Si potrebbe anzi dire che un modello interpretativo basato sull'assunzione che un'opera possa essere inerentemente postmoderna aggiorna ma non supera il formalismo del critico statunitense (Drucker 1990). In una logica diversa occorrerà invece considerare la possibilità di tematizzare la nuova differenza istituita dall'arte in un contesto orizzontale di codici e linguaggi in cui è venuto a cadere un telos trascendente. In questo senso è evidente l'influenza dello strutturalismo e della cultural philosophy sulla critica postmoderna. Ci si riferisca alla cultura come a un corpus di codici e miti (Barthes) o come a un complesso di soluzioni immaginarie a contraddizioni reali (Lévi-Strauss), come osserva H. Foster (1983, Introduzione), un'opera d'arte non sarà più un soggetto privilegiato, il terminale di un rapporto verticale con la Storia, l'Essere, il Linguaggio: essa è trattata nella critica d'arte contemporanea più in quanto testo già scritto, allegorico, contingente che come opera unica, simbolica, assiomatica. L'analisi testuale, nella forma proposta da J. Derrida, fornisce quindi, oltre a una strategia epistemologica generale, anche un modello operativo per una critica che si trova a dover stabilire il carattere artistico di prodotti inattesi senza poter più contare su una ratio storica generale: essa tende così a diversificare il proprio armamentario analitico (teoria dei media, psicoanalisi, sociologia, linguistica) e al contempo ad assumere forme "paraletterarie", dissolvendo il confine tra il campo dell'analisi e quello della creazione per aprire sistemi già chiusi alla "eterogeneità dei testi".

A spingere, per converso, all'estremo opposto le conseguenze di una presa di distanza dal modernismo è una tendenza interpretativa, di cui J. Clair è tra i più importanti esponenti, in cui post- è di fatto equivalente a pre-moderno. Archiviata l'epoca dell'avanguardia, che faceva tabula rasa del passato, occorre effettuare, sostiene il critico francese (1983), un ritorno alle fonti, nei termini di una vera e propria renovatio. Respingendo in blocco tutta l'esperienza della modernità, tutto l'atteggiamento moderno, incitando al ritorno al mestiere, alle "virtù" del disegno, Clair avanza un'ipotesi di radicale svalutazione dell'arte dall'impressionismo in avanti. Il p. è concepito allora in termini terapeutici, se non ''cosmetici'', come un ritorno alla verità della tradizione (nell'arte come negli altri campi). Il modernismo è così ridotto a uno stile (il "formalismo") e condannato, in quest'ottica ''neoconservatrice'', come un errore culturale.

A questa linea, che pure ha trovato, anche in Italia, numerosi sostenitori, si è contrapposta una gamma di posizioni (Appignanesi 1986, Risatti 1990), che pur scorgendo nel p. una rottura con il campo estetico della modernità, non ammettono tuttavia il ritorno sic et simpliciter alla ''tradizione''. Nella postmodernità − è un tratto da sottolineare − le acquisizioni moderne non vengono annullate: si opera invece una selezione, scartando solo quanto risulti assiologicamente incompatibile con quello che potremmo definire il ''paradigma provvisorio'' rappresentato dallo stesso postmoderno. Si reinstalla così la continuità dove c'era un'interruzione (Torres 1986), la memoria al posto della pagina bianca, s'introduce la storicizzazione dove regnava l'imperativo opposto della rottura. Il p. tenderebbe in definitiva a rivisitare criticamente la tradizione, non a produrre pastiches di forme pseudostoriche; a una critica dei fondamenti e non al ritorno a essi.

In quest'ottica l'arte postmoderna non può che presentare una natura proteiforme, un ventaglio di esperienze oscillante tra polarità del tutto irriducibili a una lettura unificante: le mitologie eretiche di A. Kiefer (n. 1945) − meditazioni sull'identità culturale tedesca e le sue ''icone'' − possono confrontarsi in un esempio-limite con l'irridente ''disimpegno'' di J. Koons (n. 1955) e il gusto kitsch ai limiti dell'oltraggioso delle sue ''sculture''. In una relazione analoga, gli smaliziati ''montaggi'' polimaterici di J. Schnabel (n. 1951) o l'astrattismo ''simulato'' di P. Halley (n. 1953) − che introduce nella ''pura forma'' modernista componenti (humour, ironia) a essa estranee − possono essere posti a contrasto con la forte carica critica sul piano politico e sociale presente nei lavori di B. Kruger (n. 1945), con i suoi ''messaggi'' elevati alla scala urbana dei manifesti pubblicitari. O ancora, è su piani paralleli che si dispongono la figurazione frammentaria ed espressionista di R. Fetting (n. 1945), gli inediti accostamenti di oggetti e i rebus funzionali presenti nelle opere del francese B. Lavier (n. 1949), la rivisitazione del ''genere'' per eccellenza, il ritratto, da parte della coppia Clegg & Guttman (n. entrambi nel 1957), gli spessori materici e l'iconografia evocativa dello spagnolo M. Barceló (n. 1957). Oppure, in Italia, si possono osservare allo stesso tempo la libertà ''nomadica'' e la proliferazione di riferimenti figurativi di E. Cucchi (n. 1950), la suggestiva ricchezza cromatica e materica e la ''frontalità'' contemplativa di D. Bianchi (n. 1955) e l'algido e ''scientifico'' distacco dei monocromi di M. Bagnoli (n. 1949).

Sono questi solo alcuni dei possibili volti con cui si presenta la decostruzione delle ''supreme finzioni'' moderne: ma una semplice presa d'atto (compiaciuta o diffidente che sia) non è forse sufficiente: dal labirintico intreccio della creazione contemporanea emerge in modo sempre più pressante la necessità di rimodellare gli strumenti d'indagine e gli stessi termini della presentazione fisica delle opere. A un'osservazione ravvicinata la produzione artistica postmoderna appare infatti più come struttura consapevolmente aperta a interferenze culturali che non come medium o stile, rendendo perciò ''non pertinenti'' le analisi meccanicamente iconografiche o le tradizionali seriazioni di temi e motivi. E appare significativo in questa ottica l'approccio adottato da importanti manifestazioni come l'edizione 1992 di Documenta (Kassel) o la Biennale veneziana dell'anno successivo, in cui la variegata compagine dell'arte attuale è presentata in una forma che respinge appunto ogni modello tassonomico o genetico a favore di una ''giustapposizione'', anche materiale, dei differenti percorsi individuali.

Non risulta tuttavia appropriato equiparare la postmodernità a un generico anything goes. Il lavoro di molti artisti attuali non interrompe l'opera di autoanalisi dell'arte moderna: la realizza in un altro modo e in un altro contesto, in un ''dopo'' che non è né un ritorno all'indietro né un azzeramento dell'orologio. Si manifesta così un desiderio di pensare secondo il principio della tolleranza (che appare a questo punto come l'autentico "ideale regolativo" della postmodernità), ovvero in termini sensibili alle differenze, "multiculturali", in grado d'intrattenere una relazione con gli "altri" senza opposizione e con l'eterogeneo senza gerarchie (Foster 1983). E ancora, si diffonde uno scetticismo circa le sfere "autonome" della cultura e della società, cui fanno eco artisti che si concentrano sui processi comunicativi e informativi, rinnovando una critica dello statu quo da posizioni non connotate ideologicamente (McEvilley 1991).

Con i primi anni Novanta la crisi dei modelli moderni si manifesta anche come spinta a oltrepassare i limiti dei processi di filiazione formale per tracciare affiliazioni tra l'arte e il contesto sociale e politico; in questa luce un fenomeno appariscente, soprattutto negli Stati Uniti, è l'emergere di artisti segnati da un'appartenenza a gruppi etnici di minoranza e a movimenti ''trasversali'', come quelli femministi o di liberazione omosessuale, la cui valenza oppositiva corre talvolta il rischio di sostituire alle ''norme'' moderne regole non meno rigide e sin troppo rispettose del politically correct, di cui D. Kuspit (1991) ha notato i forti sottintesi moralistici.

Senza proporsi come un sistema estetico totalizzante, il p. ha costretto a rifocalizzare l'attenzione su problemi fondamentali dell'esperienza artistica la cui proposizione modernista si era rivelata ormai insoddisfacente. Il fluttuare di linguaggi e immagini separati da ogni referente, l'ironia, l'interesse per le condizioni della ''presentazione'', la diversificazione dei media, la consapevolezza di un limite storico valido anche per l'arte − caratteri sedimentati e non transitori della creazione contemporanea − appaiono ormai sempre più come segni, ancora solo parzialmente decifrabili, di un'ulteriore metamorfosi dell'esperienza artistica occidentale.

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Architettura. - Il termine p. (o postmodernismo) indica più una fase temporale dell'architettura che una vera e propria corrente culturale che presenti caratteri uniformi; essa è espressione di personaggi, luoghi e situazioni poco omogenei, le cui eterodosse declinazioni si sono sviluppate a partire dal tentativo, teorico, di lavorare sui ''residui concettuali'' di un pensiero compositivo volto a indebolire la nozione razionale di progetto e implicante la revisione degli impegni che si sono sin qui instaurati tra architettura e società.

Infatti, già nelle prime formulazioni architettoniche della ''condizione postmoderna'' si distinguono due posizioni: nella prima, la più colta, è preminente la ribellione verso l'excursus umanistico-scientifico occidentale e l'intuizione del possibile superamento di alcuni aspetti opprimenti del movimento moderno. Superamento che, per estensione, si configura quale ideazione, non necessariamente innovativa, di un'architettura autonoma, capace cioè di trovare ragioni e significati intrinseci al suo stesso formarsi senza scadere in figuratività esasperate. Si tratta di un ideale ''tardo moderno'' in aperto contrasto con l'ascetico rigore di stampo europeo (il "meno è il più" di L. Mies van der Rohe) e favorevole pertanto a un ridondante e talvolta allegro eclettismo non ortodosso, non implicante alcuna rottura definitiva con i codici degli assunti contemporanei: è la strada delineata dallo statunitense R. Venturi e poi sfociata nelle tendenze neorazionalista e del regionalismo critico. La seconda formula, di gran lunga la più diffusa, si basa invece sulla critica serrata (e che è sconfinata ben presto in un irriducibile ostracismo) dell'''utopia del moderno'', sull'insanabile frattura con gli obiettivi fondamentali delle avanguardie (funzionalismo internazionale e impegno ideologico), soprattutto con il mito del nuovo nonché con la fiducia nel progresso a ogni costo, idea peraltro già messa in discussione proprio all'interno del movimento per la sua sospetta linearità storica e fattuale. Il congedo dalle ideologie del moderno e la discriminazione della razionalità se, da un lato, comportano l'ingiustificata riduzione del pluralismo dei linguaggi e delle eredità del moderno, dall'altro, nei momenti migliori, aprono al mutamento e alla contaminazione. Il ritorno nel ''grembo della storia'' viene perciò descritto e praticato come illimitata libertà d'ampliamento dei repertori stilistici a disposizione del progettista, libero ormai di attingere alla tradizione premoderna senza temere l'etichetta di epigono. Anzi, si viene tessendo addirittura l'elogio dell'imitazione, poiché questa, al contrario dell'invenzione, è alla portata di tutti e nella sua mediazione ripetitiva genera "il miracolo delle città" (Portoghesi, in Pisani 1989). Con ogni evidenza si tratta di un paradosso polemico, giacché la storia non può intendersi né come passiva imitazione né come "vago e fluttuante patrimonio da depredare" (Benedetti 1994), semmai quale stimolo criticamente vagliato per attivare l'azione progettuale. Con l'annuncio di morte del moderno ''per eccesso di razionalità'', decretato inizialmente dai gruppi radicali degli anni Settanta (Superstudio e SITE) poi ripreso dalla pubblicistica statunitense, si assiste a una sorta di rituale ''uccisione del padre'', opportunamente resuscitato, nel primo caso, per essere trasformato in uno degli stili possibili: appunto l'ipermoderno.

Sia la posizione più pervicacemente antimoderna sia quella più meditata hanno naturalmente dei punti di contatto: anzitutto l'esaltazione del valore di continuità delle esperienze storiche, rappresentate come sequenza infinita di aggiunte e lievi modificazioni, riscattanti creatività represse dai primati funzionali e tecnologici; quindi il recupero della valenza simbolica attraverso la quale rendere intelligibile, immediatamente comunicativo per mezzo di similitudini e metafore, il senso e il contenuto sia pure recondito dell'architettura. Tutto ciò insomma che, secondo i teorici postmoderni, non può essere espresso con le rapide sintesi del linguaggio razionale bensì efficacemente reso mediante l'impiego di modelli ideali, archetipi. La rifondazione degli approcci disciplinari entro le tematiche evocative della ''grande durata'' della tradizione storica sottolinea allora un culmine di crisi dell'architettura del 20° secolo, preannunciato, sempre nel decennio Sessanta-Settanta, dai contributi non professionali, vernacolari o spontanei dell'''architettura senza architetti'' e delle prime drop city che, radicandosi al luogo, si opponevano alla degenerazione delle intelaiature dottrinali delle megastrutture.

Si afferma, in tale maniera, la nozione di ''luogo'' quale struttura tipica primaria dello spazio antropico; nozione sviluppata nel p. anche come ricerca di un'identità figurale specifica, in cui imperi la continuità delle memorie collettive locali, adatte pertanto ad assicurare consonanza a ogni occasione. La risoluzione della particolarità del sito in modi ''discorsivi'', leggeri, è poi volta ad assicurare la generale riconoscibilità del singolo manufatto e, dunque, la sua appartenenza a un dato universo, a un ''contesto'' dato. Si crea così una piattaforma professionale senz'altro utile a ridurre le distanze culturali tra centro e periferia, la cui materia risulta tuttavia in delicato equilibrio, entrando in gioco problematiche che oscillano tra sapienze costruttive e i pericoli derivanti dal fornire − attraverso l'impiego indiscriminato di elementi della tettonica vernacolare, quali il tetto a falde e le finestre a riquadri − un discutibile primo piano a pittoresche mitologie nazionalistiche.

Sarà ancora Venturi, dichiarando l'indipendenza fra esterno e interno, a mettere in discussione l'imperativo fondamentale forma/funzione del moderno: l'esigenza di una ''nuova purezza'', che non crede di poter più abitare un confuso presente, convince a rivolgersi a un colloquio privato con le forme, a un sentimento che riabilita, metafisicamente, l'oggetto monumentale, secondo la lezione di L. Kahn, da una parte, e le fonti storicizzate dell'asse Ledoux-Boullée-Loos, dall'altra. Culto delle radici e della memoria, revisioni storiografiche e un certo gusto antiquario, rivendicazioni di identità marginali e attenta sensibilità verso il contesto, si mescolano alle meditazioni sui mutati bisogni dell'architettura e delle città, organizzando vari approcci metodologici, alcuni dei quali però solo momentaneamente in sintonia con la temperie postmoderna. Due i versanti principali delle teorizzazioni in controtendenza: gli Stati Uniti e l'Italia; da qui si riverberano praticamente ovunque, e per circa un decennio, i molti filoni, adombrati forse più nella pubblicistica specializzata che nella reale produzione edilizia.

Nonostante il p., come si è accennato, sia stato introdotto e ufficializzato come corrente di pensiero solo nel 1977 nei volumi di C. Jencks (The language of post modern architecture) e di R.C. Smith (Supermannerism), la trama complessiva veniva posta in essere da P. Johnson in alcune note conferenze e da Venturi con il saggio del 1966 Complexity and contradiction in architecture (cui si aggiunge, nel 1972, Learning from Las Vegas, scritto con la moglie D. Scott Brown e con S. Izenour). Johnson per i suoi aforismi − in una recente intervista ha dichiarato: "La funzionalità non è un obiettivo ... L'architettura è una suppellettile. Il suo scopo è decorare l'ambiente e abbellire la cultura in cui si vive" − e Venturi per la sua intensa attività vengono generalmente considerati quali padri spirituali. Ciò nonostante entrambi hanno preso le distanze anche se, sia l'edificio AT&T a New York (1978-84) del primo sia le argomentazioni del secondo, rappresentano la summa filosofica e programmatica del postmoderno. Si può invero aggiungere che i suasivi ragionamenti popular di Venturi, ex allievo di Kahn ma con forti legami con i dettati delle arti visive, plasmano l'idea-guida di tutte le ricerche di fine millennio. Infatti, il riconoscimento della validità relativa dei sistemi convenzionali (ogni motivo, banale od ordinario che sia, immesso in ambiti ''altri'' acquista valore), l'accettazione per ''inclusione'' di una maglia interrelata di fenomeni interferenti, ma tra loro equiparati (l'asperità e la molteplicità delle stratificazioni metropolitane), e la convinzione che ogni forma esprima un contenuto-forza di per sé valido, e come tale veicolo di comunicazione (dal cartellone pubblicitario alla strada commerciale e agli appliqués simbolici dell'architettura popolare), permettono infinite possibilità combinatorie con ogni codice espressivo utilizzato. Immagini tratte dalla storia o dal quotidiano contemporaneo posseggono in quest'ottica una continuità biologica prima che concettuale.

Così, nell'esposizione statunitense della teoria della complessità, squisitamente postmoderna, la finestra quadrata o quella termale, il frontone o le colonne doriche possono essere estratti dall'ordine cui appartenevano ed essere conseguentemente reimpiegati in sistemi diversi non più associativi. Questo "manifesto gentile" (Vaccaro 1991) e antieroico s'invera inoltre nella nutrita serie delle ''case eclettiche'', elaborate con J. Rauch a partire dal 1959, e nel padiglione-insegna degli USA all'Esposizione universale di Siviglia del 1992. All'altro estremo delle raffinate proposizioni di Venturi e dell'affluente edonismo johnsoniano − non sufficientemente in linea con le tendenze classiciste ortodosse − si pongono professionisti decisi a cavalcare l'ondata protestataria verso l'International Style coltivando un manierismo onnicomprensivo, classificato, in un secondo tempo, da R. Stern come "classicismo moderno" o "ironico". Esponenti principali sono: C. Moore, S. Tigerman, R. Stern (il teorico del gruppo) e M. Graves. Moore con il pathos sgargiante della piazza d'Italia a New Orleans (1977-79, realizzata con l'Urban Innovations Group e collaboratori) − duramente stigmatizzato da critici quali R. Banham, B. Zevi, K. Frampton come scenografia cinica e volgare − fa convivere, nella commistione più disinvolta, motivi tratti dal folklore e dalla storia, sino a inserire un "ordine d'invenzione gastronomico". Per l'autore l'operazione è legittima, giacché il kitsch dell'insieme risarcisce gli utenti della "dolorosa assenza della favolistica" durante il periodo del moderno. Si allineano con questa impostazione le case Hot Dog a Harvard, Illinois e Daisy a Porter, Indiana (1977) di Tigerman. Stern presceglie, a sua volta, il free-style classicism, definizione che accumula, estensivamente, tutte le esperienze derivanti dalle strutture basilari, individuate quali "icone di permanenza". Ben altra accezione è rivendicata dall'operato di Graves, progettista di talento proveniente dal team dei Five Architects di New York, che negli uffici di Portland (1978-82) realizza con ottima fattura un sorprendente fuori-scala, un brillante e gigantesco ready made: accentuazione voluta del carattere complesso e artificioso dell'urbanizzazione statunitense, che non seleziona e non respinge né il brutto né il disarmonico.

Diversa appare la situazione europea e, segnatamente, italiana, dove gli enunciati della rammemorazione s'innestano in un tessuto culturale già preparato ad affrontare le tematiche sollevate dai recuperi della città storica e della ''facciata'' quale forma simbolica. Giocano un ruolo notevole in ciò gli approfondimenti degli studi urbani, avviati dalla cosiddetta ''scuola romana'' e dai riusciti interventi neoeclettici, che vanno, per es., dal neorealismo di M. Ridolfi al neoliberty della Bottega di Erasmo a Torino di Gabetti e Isola (1953), dall'ambientamento della milanese Torre Velasqua dei BBPR (1951-58) alla veneziana Casa alle Zattere di I. Gardella (1954-58). Modulazioni neobarocche e rarefatti monumentalismi presiedono alla ritrovata unità della dimensione storica: allusiva e sommessa nell'entourage della rivista milanese Casabella-Continuità diretta da E.N. Rogers; esplicita e filologica in sede romana, per cui l'inattualità di formule regresse si trasforma in impegno disciplinare e disciplinato. La trasmissibilità delle esperienze e la fedeltà a codici rassicuranti, perché stabilizzati, formano la piattaforma teorica da cui muovono le riformulazioni storiciste del romano S. Muratori (v. in questa Appendice) e dei suoi allievi, interpreti di una critica della crisi dei valori del moderno che non lascia spazio a "umanesimi disalienanti", e nutrita dalle ricerche sui tipi edilizi e sull'organicità costruttiva dei centri antichi.

La riflessione muratoriana, che sfocia nel più che dignitoso riserbo formale degli uffici ENPAS a Bologna (1952-57), trova diversi e personali sviluppi nelle elaborazioni di P. Portoghesi, G. Spagnesi, S. Benedetti e G. Caniggia. In comune essi hanno l'intento di unitarietà e leggibilità dei manufatti; nei quali, contrariamente alle manifestazioni d'oltreoceano, il ricorso alla storia si stempera in una radice strutturale priva di citazioni arbitrarie, come lingua che non parla il dialetto. Così, esemplare di un ''moderno tradizionale'' è la parrocchia dei santi Anna e Gioacchino a Roma (1979-84) di Benedetti, dove la distribuzione delle aree liturgiche e simboliche si incarna in volumetrie d'intensa espressività. Anche le diffuse viscosità dovute a scritture multiple, se nella casa Baldi (1959-61) e nella chiesa della Sacra Famiglia a Salerno (1969-73) di Portoghesi impalcano scene teatrali puntando su una "semantica della ridondanza" (Tafuri 1986), si risolvono invece, nella Villa a Fregene (1965) e nella Posta centrale di Vasto (1987-88) di Spagnesi, in una concentrazione di sofisticati meccanismi geometrici; significando tuttavia, per entrambi i progettisti, che l'ostentato graficismo barocco è comunque immune da marcati storicismi. Per Caniggia, infine, l'architettura scaturisce dall'uso dell'esperienza mediante la memoria "operante a livello di coscienza spontanea" (1969). Infatti, le risoluzioni vanno reperite in problemi analoghi soddisfatti in tempi precedenti, quindi tali nozioni vanno organizzate in un corpus unitario: i modelli tipologici. Coerentemente Caniggia realizza, con il Palazzo di Giustizia di Teramo (1968-75/81, con R. Greco, G. Imperato e collaboratori), un organismo ''totale'' dall'intrinseca storicità.

''Oltre il moderno'' si pongono, negli anni Settanta, con classiche severità archetipe (e con la rivisitazione dell'universo novecentista), A. Rossi, ex redattore di Casabella e autore del saggio-manifesto Architettura della città, e G. Grassi. Il particolare ermetismo liricizzante dei disegni di Rossi e alcune sue realizzazioni come l'onirico blocco nel quartiere residenziale Gallaratese ii di Milano (1969-70), il galleggiante Teatro del Mondo per la Biennale di Venezia (1980) e il cupo Cimitero di Modena (1971/76-1980/85, con G. Braghieri) ottengono consensi internazionali, divulgando i parametri simbolici degli incantati modelli rossiani, sempre più avulsi dalla pratica costruttiva: oggetti pensati per vivere sulla carta in plastiche solitudini. Si tratta di una poetica del silenzio condivisa, in ambito romano, da un altro autore come F. Purini. Portoghesi opta, invece, per una clamorosa e frenetica promozione della causa postmodernista, culminante nella mostra di architettura alla Biennale di Venezia del 1980, dedicata, come recita il testo del catalogo, alla Presenza della memoria e alla Fine del proibizionismo. Episodio centrale della rassegna è la Via Nuovissima, dove a un gruppo composito di professionisti (tra gli altri, O.M. Ungers, F.O. Ghery, A. Isozaki, Venturi, Graves, Moore, H. Hollein, il GRAU) viene demandato il provocatorio compito di creare, tramite il riverbero enfatizzato delle ''facciate'', un illusorio andito urbano. L'esercizio ossessivo della memoria, l'impiego facile della citazione, la manipolazione degli strati del passato segnano, allo scadere degli anni Ottanta, la battuta d'arresto della controtendenza, reificata dalle derive di un ''contestualismo'' chiuso ai problemi del mondo. Si eccettua felicemente la produzione più recente di personaggi come M. Nicoletti (tra le molte opere, si citano: Casa Moncada a Bagheria, 1985-87; la città universitaria di Udine, 1983-94, con G. Gigli e il progetto vincitore del concorso per il museo dell'Acropoli di Atene, 1990, con lo Studio Passarelli), A. Natalini (fondatore del gruppo Superstudio, autore, con altri, della Cassa rurale di Alzate Brianza, 1979-83, e della nuova sede del Teatro regionale toscano a Firenze, 1984-87) e A. Anselmi (cimitero di Parabito, Lecce, con P. Chiatante, 1967-82; sistemazione della piazza comunale di Santa Severina, Catanzaro, 1979-83, con G. Patané), che perseguono serenamente nuovi e originali obiettivi di ricerca con un metodo che rimette in gioco la coscienza del giudizio di valore.

La duplice polarizzazione dei motivi statunitensi e italiani si diffonde, con molteplici e contrastanti qualificazioni, dalla Germania alla Svizzera e alla Francia, dalla Spagna all'America latina, dai paesi scandinavi al Giappone, originando l'impressionante ''babele degli stili'' dello scorso decennio, fortunatamente intercalata da qualche valido esempio. Il gruppo più intransigente è formato da operatori nati negli anni Quaranta (la seconda generazione postmodernista) e propugna un formalismo neoilluminista talmente estremo da arrivare alla negazione dell'ars construendi. Caposcuola il lussemburghese L. Krier, per il quale un "architetto pensante" non può realizzare nulla in un mondo popolato dagli odiati organismi edilizi modernisti. Maggiormente pragmatica la posizione del fratello Robert (assistente a Colonia di Ungers) che reinventa spazi monumentali, inserendo indifferentemente tecnologie avanzate ed elementi tradizionali. Il tedesco O.M. Ungers tralascia l'iniziale espressività funzionale (la Casa dell'architetto a Cologne, 1959) per un sempre più austero monumentalismo. Sia Krier che Ungers sono tra i fautori della ''ricostruzione critica'' della berlinese IBA (Internationale Berliner Bauausstellung), pianificata da J.P. Kleihues e conclusa nel 1987, dove brani di città vengono riprogettati a più mani.

In Spagna, esponente dell'anticentrismo catalano, O. Bohigas tesse le fila del ''contestualismo regionale'', cui inizialmente aderisce R. Bofill con il vernacolare Barrio Gaudí in Reus (1964-67), quartiere ideato con il Taller de Arquitectura sulla scorta dei desiderata degli abitanti, per passare, con Les Echelles du Baroque a Parigi (1979-86), a quello che Stern (1990) definisce come il migliore manufatto del free-style classicism. Un discorso a parte riguarda il ticinese M. Botta, che opera con "calcolate deviazioni" e le cui prove più ingegnose trovano però la giusta dimensione nella contenutezza delle abitazioni unifamiliari; mentre O. Zoeggeler, specie nella Cooperativa residenziale a Chiusa (Bolzano, 1982-84), segue un proficuo regionalismo. In Francia, J. Nouvel e C. de Portzamparc uniscono riferimenti accademici e moderni, passando per Le Corbusier. La Galleria di Stoccarda (1977-84) di J. Stirling (da poco scomparso) è il segno dell'ingresso di un maestro del movimento moderno nel cosmo del citazionismo; ciò nonostante l'abituale virtuosismo di Stirling fa sì che l'alternanza di tradizione e avanguardia, lungi dal proporre l'impossibile conciliatio oppositorum, accresca la malinconica qualità di un'immagine del disincanto. Appartato, Isozaki, un tempo collaboratore di Tange, gestisce con eleganza e misura i simbolismi postmoderni, senza distaccarsi da un lucido magistero formale. Appena tangenti al p. risultano infine il viennese H. Hollein e F.O. Gehry, nato a Toronto ma californiano d'adozione, lavorando il primo nel circuito di uno spensierato manierismo e caratterizzandosi il secondo per la suggestione delle sue avveniristiche ipotesi progettuali.

Da questo momento il p. intreccia, per aggiornarsi, il proprio specifico itinerario con la nuova, multiforme ribalta internazionale; si attenuano gli eccessi polemici e le cifre stilistiche, permettendo, in un tempo di grandi cambiamenti, di affermazioni e negazioni insieme, la ripresa equilibrata degli studi.

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