Potere costituente

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Quando si parla di potere costituente, ci si intende riferire al fondamento, alla forza creatrice e alla legittimazione di una costituzione. In linea di massima, per potere costituente si intende ciò che è alla base dell’instaurazione di un ordinamento costituzionale, ovvero di un nuovo ordine politico-giuridico che sostituisce in maniera traumatica (in genere, a seguito di una rivoluzione) quello precedente. D’altra parte, l’espressione potere costituente ha una valenza duplice: con esso si intende designare sia il soggetto che instaura il nuovo ordinamento, sia il fondamento di validità e legittimità dello stesso. Pertanto, il potere costituente si colloca sempre al di là della costituzione, in quanto è un potere extralegale, posto al di fuori dell’ordinamento che intende sostituire. Proprio perché extralegale, il potere costituente non si lascia ingabbiare o predeterminare dalla dimensione giuridica ed anzi è espressione massima della politica, anche se poi tende a fondare e ad organizzare un ordine giuridico costituito.

Se questo è vero sul piano della teoria costituzionale (Diritto costituzionale), è altrettanto vero che, nella pratica, in molteplici casi il confine tra esercizio del potere costituente e della revisione costituzionale è assai labile: basti pensare, ad esempio, al passaggio tra la IV e la V Repubblica in Francia nel 1958 o alla transizione dei Paesi dell’Europa orientale dal socialismo alla democrazia costituzionale nel biennio 1989-1991 o, ancora, all’esperienza svizzera, la cui complessa procedura di revisione totale della Costituzione è sfociata nell’adozione di un nuovo testo costituzionale nel 1999.

Le modalità di attivazione e di esercizio del potere costituente possono essere molteplici, a partire dall’elezione di un’Assemblea costituente, con o senza un referendum confermativo finale: l’elezione di un’Assemblea con successiva ratifica popolare del testo approvato è stata la procedura seguita in Francia per le Costituzioni del 1793, del 1795 e del 1946 e in Spagna per la Costituzione del 1978; l’elezione di un’Assemblea senza successiva ratifica popolare è stata, invece, la procedura scelta in Francia per le Costituzioni del 1791 e del 1848, in Germania per le Costituzioni del 1849 e del 1919 e in Italia per la Costituzione del 1947. Tuttavia, il potere costituente può essere esercitato anche tramite procedure diverse dall’elezione di un’Assemblea costituente: in alcuni casi, può essere prevista un’Assemblea (non elettiva), formata da delegati degli Stati membri di uno Stato federale e incaricata di redigere un testo, da sottoporre alla ratifica di una maggioranza qualificata degli Stati membri (tale è stato il caso della Costituzione U.S.A. del 1787 e della Legge fondamentale di Germania del 1949); in altri casi, il testo costituzionale può essere unilateralmente predisposto dal Governo e poi sottoposto a referendum-plebiscito (tale è stato il caso della Costituzione francese del 1958).

Secondo il costituzionalismo moderno, titolare del potere costituente è sempre e solo il popolo, inteso come gruppo di individui costituitosi in quella comunità politica fondamentale denominata Stato: la nozione di popolo è, quindi, strettamente collegata con quella di democrazia, di sovranità popolare e di nazione, come rilevato, tra gli altri, da Grimm. La problematica del potere costituente, tuttavia, è stata oggetto di studio per lo più da parte dei filosofi (o, comunque, dei teorici) della politica e assai meno dai costituzionalisti, poiché, come ha ben evidenziato Böckenförde, il potere costituente rimane un concetto limite del diritto costituzionale. Va detto, però, che lo stesso Böckenförde aggiunge che l’interrogarsi sul fondamento del diritto appartiene comunque al diritto (costituzionale) medesimo.

In ogni caso, si può dire che la nozione di potere costituente caratterizzi inequivocabilmente la modernità politica, poiché era sconosciuta alla riflessione antica e medioevale. Gli studiosi sono divisi su chi sia stato il primo pensatore ad anticiparne alcune problematiche (vi è chi lo individua in Machiavelli, chi in Spinoza, chi in Hobbes ecc.), ma sono unanimi nel ritenere che la dialettica tra potere costituente e potere costituito risalga alle due Rivoluzioni della fine del XVIII secolo (quella americana e quella francese), anche se sono diverse le risposte allora fornite: mentre, infatti, in America la dialettica tra potere costituente e potere costituito è stata risolta a vantaggio del secondo, in Francia l’«istituzionalizzazione» del potere costituente ha comportato una continua elaborazione di testi costituzionali e impedito una cristallizzazione delle carte costituzionali rivoluzionarie.

Per quanto riguarda l’esperienza statunitense, esemplare, in tal senso, è il dibattito tra Jefferson e Madison. Se per il primo una generazione non aveva il diritto di vincolare le generazioni successive e il documento costituzionale da lui ispirato (la Dichiarazione di indipendenza del 1776) prevedeva esplicitamente il diritto del popolo di modificare o abolire la forma di governo che negasse i fini per cui era stata istituita, sono state le idee del secondo a ispirare la redazione della Costituzione federale del 1787. Mentre Jefferson riteneva insufficiente la possibilità di adottare degli emendamenti costituzionali e proponeva una serie di plebisciti costituenti da tenersi ogni venti-trent’anni, nei Federalist Papers Madison rispose che quel sistema avrebbe comportato l’emergere di una serie di questioni decise dall’opinione pubblica in base più alle passioni, che non alla ragione.

Per quanto riguarda la Rivoluzione francese, invece, è emblematico l’art. 28 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1793, che prevedeva il diritto di ogni generazione di «rivedere, riformare e cambiare la sua Costituzione», espressione eloquente dell’impossibilità di uscire dalla logica del potere costituente permanente. Se, quindi, la Rivoluzione francese si è caratterizzata per l’enfasi su tale potere, un ruolo di primo piano in proposito è stato svolto da E.-J. Sieyès: in una serie di interventi, recuperando i concetti teologici di potestas constituens e di creatio ex nihilo, nonché la distinzione (spinoziana) tra natura naturans e natura naturata, questi ha contrapposto il carattere originario del potere costituente della nazione all’assolutismo monarchico.

Il più grande teorico novecentesco del potere costituente come potere assoluto ed illimitato è senz’altro C. Schmitt, il quale definisce il potere costituente come la volontà politica il cui potere (o la cui autorità) è in grado di prendere la decisione concreta fondamentale sulla specie e la forma della propria esistenza politica, ossia di stabilire l’esistenza dell’unità politica. Schmitt aggiunge che l’adozione di una Costituzione è lungi dal poter esaurire o assorbire il potere costituente, in quanto la «decisione politica fondamentale», che la Costituzione implica, non può ripercuotersi contro il suo soggetto. Di conseguenza, accanto e al di sopra della Costituzione continua ad esistere il potere costituente e qualunque conflitto o lacuna che tocchi i presupposti della decisione politica fondamentale può essere deciso solo dalla volontà del potere costituente. Da tutto ciò Schmitt trae la conseguenza che non può esistere alcun procedimento attraverso cui vincolare l’attività del potere costituente.

La possibilità teorica di esercizio del potere costituente è stata, invece, negata in tempi più recenti da Häberle, che ha esplicitamente parlato di un «esaurimento» di esso, preferendo utilizzare l’espressione «processo costituente». A suo dire, infatti, le conquiste del costituzionalismo contemporaneo (i diritti fondamentali, la separazione dei poteri, il federalismo ecc.), che trovano espressione nel modello di «Stato costituzionale», sono ormai irreversibili e, perciò, insuscettibili di essere rimesse in discussione dall’esercizio del potere costituente futuro.

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