Prescienza

Enciclopedia Dantesca (1970)

prescienza

Fernando Salsano

Il termine designa la conoscenza che si ha degli eventi futuri, prima che essi accadano. Occorre una sola volta, in Cv III XII 9 tanta fu l'afezione a producere la creatura spirituale che la prescienza d'alquanti che a malo fine doveano venire non dovea né potea Iddio da quella produzione rimuovere. Dio, che è somma bontà e da sé sperne / ogne livore (Pd VII 64-65; cfr. Platone Tim. 29 E, e Boezio Cons. phil. III m. IX 5-6) ha dato vita alla creazione mosso solo dall'amore (affezione; v. anche Pd XXIX 13-18), affinché il creato celebrasse la sua gloria (cfr. Pd I 1-3); la " conoscenza anticipata " della caduta degli angeli ribelli non ha potuto impedire (non dovea né potea) che Dio creasse gli angeli.

Il problema qui toccato da D. per un verso s'inquadra nella più generale problematica relativa al perché Dio ha creato gli esseri intelligenti liberi e responsabili, pur sapendo in anticipo che alcuni avrebbero scelto il male e perciò sarebbero stati condannati in eterno; per un altro verso è strettamente connesso con la spinosa questione del rapporto tra p. e libero arbitrio, che lo stesso poeta tocca in Pd XVII 37-42 La contingenza, che fuor del quaderno / de la vostra macera non si stende, / tutta è dipinta nel cospetto etterno; / necessità però quindi non prende / se non come dal viso in che si specchia / nave che per torrente giù discende.

Dio non può non conoscere in anticipo tutto ciò che avverrà (i teologi parlano in tal caso di " scientia visionis ": cfr. Tomm. Sum. tbeol. I 14 9c), o che è in potenza delle creature fare, ma che non avverrà mai (di ciò Dio ha " scientia simplicis intelligentiae ", ibid.). Tuttavia ciò non importa che nel mondo sublunare (mondo della contingenza, cioè delle cose che non hanno in sé ragione di necessità e non sono impossibili), nel quale operano gli uomini, gli eventi previsti da Dio accadano necessariamente (se così fosse, sarebbe distrutto il libero arbitrio, che è incompatibile con il determinismo universale), anche se in certo senso è necessario che accadano: ma tale necessità è dello stesso tipo di quella per la quale, quando vediamo una nave in movimento, diciamo che è necessario che si muova, e tuttavia la conoscenza che noi abbiamo del movimento della nave non è causa di esso.

Questo problema ha occupato a lungo la mente dei filosofi antichi, coree D. ben poteva apprendere da s. Agostino (Civ. V 9-11, dove si difende la p. divina contro l'opinione di Cicerone che la rifiutava agli uomini e agli dei al fine di salvare il libero arbitrio) e da Boezio (il quale ne ha trattato nei due commenti ad Arist. De Interpretatione 9, e in Cons. phil. V III ss.). Il contesto nel quale D. accenna alla compossibilità di p. e libertà richiama da vicino la soluzione boeziana del De Cons. phil.: si veda in particolare il riferimento al rapporto tra vista ed eventi presenti in V IV 15-16 " Plura... dum fiunt subiecta oculis intuemur, ut ea quae in quadrigis moderandis atque flectendis facere spectantur aurigae, atque ad hunc modum cetera. Num igitur quicquam illorum ita fieri necessitas ulla compellit? ", e 20 " sicut scientia praesentium rerum nihil his quae fiunt ita praescientia futurorum nihil his quae ventura sunt necessitatis importat ". Boezio ritiene che la risposta al problema possa essere fornita solo se si considera il ‛ modo ' della conoscenza che il soggetto ha delle cose, strettamente dipendente dalla natura stessa del soggetto conoscente (VI 1 " omne quod scitur non ex sua sed ex comprehendentium natura cognoscitur "). Poiché Dio è eterno (§ 2) e l'eternità è " interminabilis vitae tota simul et perfecta possessio " (§ 4), segue che la conoscenza di Dio è in realtà conoscenza attuata in un eterno presente (§ 15 " Quoniam igitur omne iudicium secundum sui naturam quae sibi subiecta sunt comprehendit, est autem deo semper aeternus ac praesentarius status, scientia quoque eius omnem temporis supergressa motionem in suae manet simplicitate praesentiae infinitaque praeteriti ac futuri spatia complectens omnia quasi iam gerantur in sua simplici cognitione considerat "; cfr. Pd XVII 17-18 mirando il punto / a cui tutti li tempi son presenti), ed è piuttosto scienza di un eterno presente che non p. del futuro, attuata in un unico atto d'intuizione (Cons. phil. V VI 16 " si praevidentiam pensare velis qua cuncta dinoscit [Deus], non esse praescientiam quasi futuri sed scientiam numquam deficientis instantiae rectius aestimabis ", e 22 " Nec rerum iudicia confundit unoque suae mentis intuitu tam necesarie quam non necessarie ventura dinoscit, sicuti vos cum pariter ambulare in terra hominem et oriri in caelo solem videtis, quamquam simul utrumque conspectum tamen discernitis et hoc voluntarium illud esse necessarium iudicatis "). Ma poiché si ha scienza solo di ciò che è certo e necessario (III 18 ss.), Boezio distingue due tipi di necessità, l'una simplex, l'altra condicionis (VI 27 ss.); la prima è la necessità propria di una conoscenza il cui oggetto non può essere altro da quello che è, espressa da una proposizione nella quale il rapporto tra soggetto e predicato è necessario, come in " necesse est omne homines esse mortales "; la seconda è la necessità per la quale diciamo che colui che cammina, sebbene si muova liberamente, tuttavia è necessario si muova posto che cammini (" si aliquem ambulare scias eum ambulare necesse est "): quest'ultima dà luogo a una proposizione ipotetica, in cui la necessità è correttamente predicata solo del conseguente quando è data la condizione espressa dall'antecedente. La necessità della conoscenza divina dei futuri ‛ contingenti ', o eventi futuri ‛ non necessari e non impossibili ', è del secondo tipo, non del primo tipo; essa attiene non alle cose in sé considerate, ma alla conoscenza che se ne ha; ciò salva la validità della p. in quanto ‛ scienza certa ' e non toglie la libertà dell'arbitrio (§ 31 " Atqui deus ea futura quae ex arbitrii libertate proveniunt praesentia contuetur; haec igitur ad intuitum relata divinum necessaria fiunt per condicionem divinae notionis, per se vero considerata ab absoluta naturae suae libertate non desinunt ").

Per i rapporti tra p. e predestinazione, cfr. Paolo Rom. 8, 29 " quos praescivit et praedestinavit ", e v. PREDESTINAZIONE. Connesso con il problema della p. divina (per la quale si veda Iudith 9, 6, che ha πρόγνωσις nel testo dei Settanta; Eccli. 31, 2; Petr. I Epist. 1, 2; Act. Ap. 2, 23 nel testo della volgata), è quello della p. profetica (discusso dai padri greci in rapporto alla divinazione o μαντική: cfr. Clemente Alex. Strom. I 21, 133 1s. e anche II, 12, 54,1; cfr. Cicerone De Div. I I 1 ss.), della p. degli angeli (cfr. Bonaventura II Sent. d. IV a. 2), dei beati (dello stesso D. cfr. Pd XVII 16 ss. per la p. del futuro che ha Cacciaguida) e quella dei dannati (v.).

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Prescienza dei dannati. - Per disporre di un campo maggiore nella prospettiva temporale della narrazione, a vantaggio della varietà degl'incontri e delle rappresentazioni, D. attribuisce ai dannati la conoscenza del futuro, e l'immagina anche, sulla scorta della relativa problematica teologale, soggetta a una limitazione singolare: essa vien meno quando l'avvenimento sta per passare dalla categoria del futuro a quella del presente. A questa facoltà soggettiva si affianca la possibilità, nel dannato, di una conoscenza indiretta, derivante dalla comunicazione di altri o dalla propria memoria del passato.

Siffatta teoria è in atto in quei personaggi infernali che il poeta chiami a un qualsiasi rapporto con il futuro o il presente del mondo dei vivi o dello stesso Inferno (p. es. in Ciacco, If VI 64-72; Farinata, X 79-81; Brunetto, XV 61-72). Ma D. trova anche il modo di enunciarla, a complemento della sua attuazione in un particolare episodio. Ciò accade, al primo ingresso nella città di Dite, in quel duplice incontro con Farinata degli Uberti e Cavalcante Cavalcanti in cui gl'interessi dei protagonisti divergono per differenti terrestri passioni e conseguentemente si riferiscono alla dinamica temporale della storia, per il primo, e alla staticità di un affetto, per il secondo. In questa trama di rapporti con il tempo il poeta può collocare la constatazione che Farinata conosce il futuro e Cavalcante ignora il presente (X 94-99), e l'inserisce nel vivo dell'azione (la sorpresa che ne deriva è infatti condizionante nei confronti dell'incontro con Cavalcante, vv. 70-71 e 112-114) di modo che l'enunciazione della norma, fatta per bocca di Farinata (vv. 100-108), non ha ombre di didascalismo, e anzi aderisce tanto alla situazione particolare, che la si è potuta considerare esclusiva del cerchio degli eretici.

Come in altre occasioni consimili, l'invenzione poetica (lodata come tale dal Foscolo) ha precedenti in Virgilio, Stazio e Lucano, ma con evidenza si appoggia (come notarono già gli antichi commentatori, e poi più analiticamente il Tommaseo) alla tradizione filosofica e teologica, della quale era tramite sufficiente la Summa theologica di Tommaso, nelle parti dedicate alla conoscenza (in particolare, I 86 4, dove si sostiene la possibilità di conoscere il futuro nel distacco dai sensi, e anche I 89 dove si afferma che l'anima separata " intelligit... per species ex influentia divini luminis participatas " [1 ad 3], e che i morti possono " etiam facta viventium non per seipsos cognoscere, sed vel per animas eorum qui hinc ad eos accedunt; vel per angelos seu daemones; vel etiam Spiritu Dei revelante " [8 ad 1]).

Il pensiero di Tommaso non sempre coincide con quello di Agostino o di Gregorio: e in effetti si tratta di una materia alquanto problematica, con proposizioni discordi tanto tra i padri quanto tra le maggiori correnti del pensiero scolastico (Pietro annoterà: " Circa haec videtur esse dubitatio in Scriptura nostra sacra et inter nostros theologos "); ma il poeta vi trovava gli elementi utili ai suoi propositi, e se ne serviva conciliando come sempre la libertà dell'invenzione con la coerenza dei principi. Tuttavia, la discrepanza delle fonti, la diversità delle situazioni e l'assenza di esplicite giustificazioni per ogni caso di conoscenza attribuita o negata ai dannati, se non anche il preconcetto di taluni lettori, hanno fatto vedere nelle manifestazioni della p. una mancanza di uniformità, disponibile come documento, ora dei diversi tempi della composizione, ora della disattenzione del poeta, ora della libertà della fantasia o dell'irrazionalità dell'arte.

Nell'esegesi più antica non si registra alcun atteggiamento problematico, tranne le comuni divergenze interpretative e il richiamo alle fonti patristiche e scolastiche, che abbiamo dette per sé incerte e discordi. Nel Cinquecento si fanno indicare come esempio, rispettivamente, di estremismo e di equilibrio i commenti del Castelvetro e del Gelli. Il primo, con la solita spregiudicatezza, denunzia la contraddizione tra la conoscenza tutta morta (X 106) e la memoria delle cose passate, tra l'attribuire la p. del futuro agli eretici e negarla ai limbicoli e a Virgilio, e dichiara oziosa la notazione relativa alla fine del tempo. Il Gelli invece si rivolge con fiducia agli appoggi filosofici e teologici; e bene illustra il paragone della presbiopia e la relativa espressione mala luce (X 100).

L'attenzione alla varietà di applicazione delle facoltà conoscitive dei dannati ha una reviviscenza da quaestio in un tempo significativo per la dantologia, tra la fine dell'Ottocento e i primi decenni del Novecento: l'Arezio e il Garollo proposero ipotesi conciliative, considerando la confusa conoscenza del presente come una parziale memoria di quanto era stato conosciuto come futuro (Arezio), o riducendo le profezie a un'elaborazione intellettuale, un procedimento unicamente umano, dei fatti passati e presenti (Garollo); il Rosso, sulla scorta delle fonti tradizionali, puntualizzò la differenza tra la conoscenza delle cose in seipsis che discende da Dio ed è privilegio dei beati, e la conoscenza in suis causis connaturata nei dannati; il Belloni tentò di eliminare l'eccentricità delle manifestazioni conoscitive di Ciacco, ipotizzando che il relativo episodio fosse stato inserito dopo la composizione dei primi dieci canti.

Gli studi di maggiore impegno, che quasi suggellano il passaggio dal positivismo fin de siècle alla più dotata filologia del Novecento, appartengono al Surra e al Parodi. Il Surra raccoglie dalla tradizione i segni di contraddizione già indicati dal Castelvetro e le ragioni dell'arte già proposte dal Foscolo; e pertanto, da una parte accentua la problematicità della norma, dall'altra tenta di eliminarla con il radicalismo dell'irrazionale nella letteratura (suggerito dal noto studio del Fraccaroli); e conclude che la teoria di If X non ha valore di legge fissa, è uno " spediente momentaneo ", e che D. " non si è sognato di seguire altra legge, altro freno che quello dell'arte ". Il Parodi, come in altre occasioni del genere, è sensibile al pregiudiziale problema dei rapporti tra le fonti e la libertà dell'artista, e tra intelletto e fantasia; e dal punto di vista metodologico si preoccupa anche di ristabilire l'equilibrio tra " i diritti dell'erudizione " e " quelli della critica o dell'estetica ". Ne risultano pagine interessanti quanto meditate; ma neppure da queste il problema della p. ha pace: anzi il Parodi concorre a cronicizzarlo, riaffermando la provenienza scolastica della teoria dantesca e un certo suo " scopo dottrinale ", ma giudicandola " raffazzonata alla buona " (per Ciacco D. segue la dottrina vulgata che le anime infernali si conoscono fra loro; nell'episodio di maestro Adamo se ne allontana per necessità artistica).

Anche tra i più recenti lettori di If X permane la disposizione a veder conciliate, nella realtà della poesia, le ragioni dell'intelletto e quelle della fantasia; ma permane anche il senso della problematicità della p.: così il Sansone propone che il discorso di Farinata si riferisca ai soli eretici, e il Frugoni rileva le differenze tra Ciacco che conosce il presente dei propri conterranei e Rusticucci o Guido da Montefeltro che l'ignorano; tuttavia riconosce che nell'episodio di Cavalcante, il quale ignora la sorte del figlio, l'incerto sistema delle conoscenze ha un suo tempo indipendente e felice.

Bibl. - L. Arezio, Sulla teoria dantesca della p. nel c. X dell'Inferno, Palermo 1896; N. Garollo, La p. del futuro e l'ignoranza del presente ne' dannati di D., Trapani 1897; F.. Rosso, L'uomo nell'oltretomba e nelle ombre della D.C., Fossano 1902 (cfr. recens. di S.A. Venturi, in " Bull. " X [1903] 307-309); A. Belloni, Frammenti di critica letteraria, Milano 1903; G. Fraccaroli, L'irrazionale nell'arte, Torino 1903; G. Surra, Studi su D., I, Novara 1911; E.G. Parodi, in " Bull. " X (1903) 201, 205; XIX (1932) 169-183; ID., La p. delle anime nel c. X dell'Inferno, in " Fanfulla della Domenica " 28 marzo 1915; ID., Il primo viaggio di Virgilio attraverso l'Inferno, ibid. 11 luglio 1915. Tra le letture del c. X dell'Inferno v. soprattutto M. Sansone, Roma 1951; A. Frugoni, in Nuove lett. I 261-283.