Prescrizione [dir. lav.]

Diritto on line (2016)

Silvia Ciucciovino

Abstract

La voce approfondisce il particolare regime prescrizionale dei diritti dei lavoratori anche alla luce della evoluzione della giurisprudenza costituzionale in materia. Particolare attenzione viene prestata al tema della decorrenza della prescrizione dei crediti retributivi alla luce della recente riforma della disciplina sanzionatoria dei licenziamenti individuali di cui al d.lgs. 4.3.2015, n. 23. Vengono inoltre esaminate le questioni più frequenti e rilevanti in materia di prescrizione dei crediti di lavoro.

Il regime di prescrizione breve e decennale dei crediti di lavoro

Come tutti i diritti anche quelli scaturenti dal rapporto di lavoro sono soggetti ad estinguersi per prescrizione (art. 2934 c.c.). Gli unici diritti non soggetti a prescrizione sono quelli indisponibili e i diritti previsti espressamente dalla legge come imprescrittibili (art. 2934, co. 2 , c.c.).

ll regime di prescrizione dei crediti di lavoro è di regola quinquennale in base al disposto dell’art. 2948 c.c.; mentre la prescrizione ordinaria decennale, di cui all’art. 2946 c.c., assume nella materia del lavoro un rilievo soltanto residuale. Si prescrive infatti in cinque anni tutto ciò che viene corrisposto dal datore di lavoro al prestatore con periodicità annuale o infra annuale (art. 2948, n. 4, c.c.); le competenze spettanti alla cessazione del rapporto di lavoro; l’indennità di mancato preavviso e l’indennità per causa di morte (art. 2948, n. 5, c.c.).

Il regime prescrizionale quinquennale dipende essenzialmente dalle modalità temporali di soddisfazione deI credito del lavoratore, cioè dal fatto che tale soddisfazione avvenga con continuità a scadenze periodiche. Negli altri casi opererà la prescrizione ordinaria decennale. Rimangono assorbiti altresì nel regime prescrizionale breve quinquennale i crediti che sono accessori ad altri che trovano soddisfazione con continuità a scadenze periodiche, quandanche non vengano corrisposti anch’essi con la medesima periodicità (come ad esempio il compenso per lavoro straordinario, le retribuzioni per le festività nazionali coincidenti con la domenica, ecc.).

Il regime di prescrizione quinquennale riguarda tutti i crediti di lavoro che costituiscono adempimento di obbligazioni pecuniarie imposte al datore di lavoro da leggi o da altre fonti nel corso del rapporto di lavoro e traggono origine e titolo nel contratto di lavoro, anche se non trovano riscontro in una precisa prestazione lavorativa. Ne restano, viceversa, escluse le sole erogazioni originate da cause autonome (ad esempio il premio di invenzione) ovvero da responsabilità del datore di lavoro. In particolare è assoggettato alla prescrizione decennale il diritto al risarcimento del danno patito dal lavoratore per effetto di un’inadempienza contrattuale del datore di lavoro (ad esempio il diritto al risarcimento del danno per la mancata fruizione di ferie o del riposo settimanale; o il diritto al risarcimento per il danno all’integrità psico-fisica del lavoratore ex art. 2087 c.c.).

Quando poi il diritto forma oggetto di un atto transattivo avente natura novativa – cioè funzionalizzato a mutarne titolo od a estinguere le pregresse posizioni soggettive costituendone al loro posto altre autonome e distinte –non si applica il termine prescrizionale proprio (in ipotesi inferiore a quello ordinario) bensì il termine ordinario decennale. Così, ad esempio, il diritto ad un compenso nascente da un accordo transattivo avente natura novativa funzionalizzato all’incentivazione delle dimissioni del lavoratore non è assoggettato alla prescrizione quinquennale prevista per i crediti di lavoro dall’art. 2948, n. 4, c.c., bensì all’ordinaria prescrizione decennale di cui all’art. 2946 c.c. (Cass., 11.8.2000, n. 10657).

Regimi speciali di prescrizione operano per i crediti contributivi. Si prescrivono in dieci anni le contribuzioni di pertinenza del fondo pensioni lavoratori dipendenti e delle altre gestioni pensionistiche obbligatorie dovute a tutto il 31.12.1995, mentre si prescrivono in cinque anni le stesse contribuzioni dovute dal 1.1.1996, salvi i casi di denuncia del lavoratore o dei suoi superstiti che consente la conservazione del termine decennale di prescrizione per i contributi dovuti (art. 3, co. 9 e 10, l. 8.8.1995, n. 335). Si prescrivono in cinque anni, tutte le altre contribuzioni di previdenza e di assistenza sociale obbligatoria ed in un anno le prestazioni economiche dovute dagli enti previdenziali al lavoratore in caso di malattia o maternità (art. 6, ultimo co., l. 11.1.1943, n. 138); in tre anni i diritti del lavoratore alle prestazioni dovute dall’INAIL in caso di infortunio o malattia professionale (art. 112, d.P.R. 30.6.1965, n. 1124); in cinque anni le rate di pensione non riscosse (art. 129, co. 1, R.d.l. 4.10.1935, n. 1827).

Per ciò che concerne la prescrizione presuntiva, che opera per i crediti retributivi, è possibile distinguere le retribuzioni erogate con cadenza mensile o più breve, assoggettate al termine di prescrizione annuale (art. 2955, n. 2, c.c.), dalle retribuzioni corrisposte a periodi superiori al mese, che invece si prescrivono in un triennio (art. 2956, n. 1, c.c.). L’inerzia del lavoratore protrattasi per tali periodi di tempo fa sorgere la presunzione della soddisfazione del suo credito.

L’effetto principale prodotto dalla prescrizione presuntiva è quello di invertire l’onere della prova dell’avvenuto pagamento. Prima del decorso del termine di prescrizione presuntiva, il debitore che afferma di aver estinto il debito deve provare il fatto estintivo; mentre una volta decorso tale termine si presume che il debito sia estinto e, pertanto, spetterà al creditore darne la prova contraria. Peraltro tale prova è soggetta a rigorose restrizioni in quanto può essere conseguita soltanto con il giuramento o la confessione (art. 2960 c.c.).

Il decorso del termine di prescrizione presuntiva surroga entro certi limiti la quietanza di avvenuto pagamento. Ciò evidenzia la principale differenza rispetto alla prescrizione estintiva: mentre la prescrizione presuntiva si fonda su una presunzione di avvenuto pagamento, la prescrizione estintiva determina il venir meno del credito prescindendo da ogni accertamento in ordine al suo adempimento.

Decorrenza della prescrizione in costanza di rapporto di lavoro

Di regola il periodo di prescrizione di un diritto inizia a decorrere dal momento della sua maturazione cioè dal momento in cui il titolare lo può far valere e, pertanto, la decorrenza della prescrizione dei crediti del lavoratore si ha normalmente in costanza di rapporto via via che vengono a maturazione i singoli diritti.

Tuttavia la questione della decorrenza della prescrizione dei diritti retributivi dei lavoratori in costanza di rapporto di lavoro è stata sottoposta a più riprese a scrutinio di costituzionalità. Con la storica sentenza 10.6.1966, n. 63 la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità «degli artt. 2948, n. 4, 2955, n. 2 e 2956, n. 1, c.c., limitatamente alla parte in cui consentono che la prescrizione del diritto alla retribuzione decorra durante il rapporto di lavoro». La declaratoria d’incostituzionalità è stata argomentata dalla Corte sulla base della irrinunziabilità del diritto alla retribuzione di cui all’art. 36 Cost. desumibile «a fortiori dall’ultimo comma dello stesso art. 36, che stabilisce l’irrinunciabilità del diritto alle ferie e al riposo settimanale». Muovendo da tale premessa, e con la precisazione che l’irrinunziabilità del diritto è cosa diversa e meno ampia della indisponibilità (da cui conseguirebbe l’imprescrittibilità dello stesso ex art. 2934 c.c.), la Corte ha concluso che il lavoratore «può esser indotto a non esercitare il proprio diritto per lo stesso motivo per cui molte volte è portato a rinunciarvi, cioè per il timore del licenziamento; cosicché la prescrizione, decorrendo durante il rapporto di lavoro, produce proprio quell’effetto che l’art. 36 ha inteso precludere vietando qualunque tipo di rinuncia». In tal modo la Corte ha equiparato sostanzialmente la rinunzia al mancato esercizio del diritto per il timore del licenziamento. Va però precisato che all’epoca della pronunzia vigeva un regime di libera recedibilità dai rapporti di lavoro subordinato e non era ancora sancito il principio della giustificatezza del licenziamento, introdotto dalla l. 15.7.1966, n. 604 (C. cost., 1.6.1966, n. 63, è precedente alla legge).

Successivamente la Corte è tornata sul tema della prescrizione dei crediti di lavoro delimitando ed integrando la declaratoria di incostituzionalità del 1966 sotto un duplice profilo: a) restringendo il differimento del decorso della prescrizione alla cessazione del rapporto di lavoro solo ed esclusivamente ai crediti aventi natura retributiva; b) circoscrivendo ulteriormente tale differimento a quei rapporti che sono carenti del requisito della stabilità o resistenza.

Quanto al primo profilo il Giudice costituzionale ha precisato che non costituisce violazione del dettato costituzionale l’estinzione per prescrizione in costanza di rapporto di ogni e qualsiasi diritto del prestatore di lavoro, ma soltanto di quei crediti retributivi che godono delle garanzie specificamente apprestate dall’art. 36 Cost. in quanto hanno una funzione di sostentamento e, in quanto tali, sono da considerare alla stregua di un diritto della personalità. Così la prescrizione dei diritti non retributivi del lavoratore in costanza di rapporto di lavoro è stata riconosciuta pienamente legittima (C. cost., 29.4.1971, n. 86; C. cost., 21.5.1975, n. 115; C. cost., 18.6.1979, nn. 40 e 41).

Quanto al secondo profilo la Corte costituzionale ha circoscritto il meccanismo del differimento del termine iniziale di decorrenza della prescrizione dei crediti retributivi alle sole ipotesi in cui il rapporto di lavoro non sia dotato di stabilità. Sotto questo profilo si è consumato un netto ridimensionamento della portata della pronuncia del 1966. Dapprima Corte cost., 20.11.1969, n. 143 ha affermato il normale decorso della prescrizione in costanza di rapporto per i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici egualmente garantiti «dalle garanzie dei rimedi giurisdizionali contro l’arbitraria risoluzione anticipata del rapporto di lavoro».

Successivamente con sentenza del 21.12.1972, n. 174 la Corte costituzionale ha considerato caratterizzati da sufficiente forza di resistenza rispetto al timore del licenziamento tutti i rapporti di lavoro privato cui si applichi la l. n. 604/1966 e l’art. 18, l. 20.5.1970, n. 300; in sostanza consentendo il normale decorso della prescrizione per tutti i rapporti di lavoro dotati della stabilità cd. reale. La Corte ha infatti ritenuto che l’applicabilità delle due disposizioni menzionate (cioè il principio di giustificatezza di cui all’art. 1, l. n. 604/1966 e la tutela reintegratoria di cui all’art. 18, l. n. 300/1970) avesse fatto venir meno «per i rapporti regolati dalle norme ricordate, il fondamento giuridico su cui poggiava la parziale invalidazione statuita con la sentenza n. 63 del 1966». La sentenza n. 174/1972 ha sottolineato peraltro che l’art. 18, l. n. 300/1970 «deve considerarsi necessaria integrazione» dell’art. 1, l. n. 604/1966 «dato che una vera stabilità non si assicura se all’annullamento dell’avvenuto licenziamento non si faccia seguire la completa reintegrazione nella posizione giuridica preesistente fatta illegittimamente cessare».

La successiva giurisprudenza di legittimità si è adeguata, riscontrando il requisito della stabilità del posto di lavoro tutte le volte in cui, sul piano sostanziale, la disciplina del rapporto subordini il licenziamento a circostanze obiettive e predeterminate e, sul piano della tutela dei diritti, affidi al giudice il sindacato su tali circostanze con la facoltà di rimuovere gli effetti del licenziamento illegittimo (Cass., S.U., 12.4.1976, n. 1268; Cass., 19.8.2011, n. 17399). Rimozione che, secondo la Cassazione, non può esaurirsi nella previsione di un risarcimento del danno ma deve concretizzarsi nell’ordine di reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro (Cass., 23.6.2003, n. 9968; Cass., 20.6.1997, n. 5494; Cass., 13.9.1997, n. 9137), ancorché non necessariamente eseguibile in forma specifica.

I suddetti requisiti della stabilità (nel senso indicato dalla Corte costituzionale) possono essere previsti non solo da una disciplina legale, ma anche da una fonte contrattuale ed impediscono la decorrenza della prescrizione indipendentemente dalla natura pubblica o privata del datore di lavoro. Ne è derivata, tra l’altro, la sottrazione del rapporto di lavoro dirigenziale alla regola della decorrenza della prescrizione in costanza di rapporto in ragione della tutela esclusivamente indennitaria prevista nel caso di licenziamento illegittimo.

In ogni caso l’onere di provare il requisito della stabilità grava, ai sensi dell’art. 2697, co. 2, c.c., sulla parte che propone l’eccezione, cioè sul datore di lavoro, debitore del credito retributivo.

La Cassazione inoltre, in più occasioni, anche se con orientamento non univoco, ha puntualizzato che il requisito della stabilità reale del rapporto di lavoro va verificata avendo riguardo al concreto atteggiarsi del rapporto medesimo ed alla configurazione che di esso danno le parti nell’attualità del suo svolgimento (dipendendo solo da ciò l’esistenza o meno di una effettiva situazione psicologica di metus del lavoratore) e non alla stregua della diversa normativa garantistica che il giudice eventualmente ex post riconosca applicabile con effetto retroattivo al lavoratore (Cass., 4.6.2014, n. 12553; Cass., S.U., 28.3.2012, n. 4942, Cass., 19.1.2011, n. 1147; Cass., 12.11.2007, n. 23472).

Analogamente nel caso di più contratti a tempo determinato dei quali sia accertata la stipulazione in frode alla legge con conseguente conversione in un unico contratto a tempo indeterminato, la prescrizione dei crediti da esso derivanti non decorre in costanza di tale rapporto, poiché prima della declaratoria di illegittimità con effetto retroattivo, durante lo svolgimento di tali contratti, il lavoratore non aveva certezza della continuazione dei rapporti si trovava nella situazione di metus nei confronti del datore di lavoro tipica dei rapporti privi di stabilità (Cass., 13.8.1997, n. 7569).

Prescrizione dei crediti retributivi e d.lgs. n. 23/2015

Le modifiche che ha subito il regime sanzionatorio del licenziamento illegittimo nell’area della cd. tutela reale è destinato a rimettere radicalmente in discussione la questione della decorrenza della prescrizione dei crediti retributivi rispetto alla pluriennale interpretazione della giurisprudenza costituzionale e di legittimità sopra riportata.

L’art. 18, l. n. 300/1970, infatti, è stato riformato dall’art. 1, co. 42, l. 28.6.2012, n. 92 ed inoltre, a tutti i rapporti di lavoro a tempo indeterminato instaurati a decorrere dall’entrata in vigore del d.lgs. n. 23/2015 (7.3.2015) attuativo della l. 10.12.2014, n. 183 si applica, in sostituzione dell’art. 18, la nuova disciplina sanzionatoria per i contratti a tempo indeterminato a tutele crescenti.

Per effetto di tali riforme si può dire che sia venuto meno il regime di stabilità reale, così come inteso dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 174/1972 e cioè come garanzia che all’annullamento dell’avvenuto licenziamento consegua «la completa reintegrazione nella posizione giuridica preesistente fatta illegittimamente cessare». In effetti tale garanzia non l’assicura più né l’art. 18, l. n. 300/1970 riformato dalla l. n. 92/2012 (che continua a trovare applicazione esclusivamente ai rapporti di lavoro esistenti al 7 marzo 2015), né il d.lgs. n. 23/2015 per i rapporti di lavoro instaurati dal 7 marzo 2015 ovvero per i rapporti di cui all’art. 1, co. 2 e 3 del d.lgs. n. 23/2015 anche se instaurati precedentemente.

Senza scendere nel dettaglio delle innovazioni legislative, basti qui sottolineare come con la modifica dell’art. 18, sono state articolate e graduate le sanzioni per il licenziamento illegittimo, cosicché la sanzione della reintegrazione è stata circoscritta ai casi più gravi di violazione delle norme disciplinanti il licenziamento (cfr. art. 18, co. 1, 4 e 7); mentre in tutte le altre ipotesi di illegittimità del licenziamento trova applicazione una sanzione indennitaria più o meno cospicua la cui entità è stabilita dal giudice entro limiti minimi e massimi fissati dal legislatore (cfr. art. 18, co. 5, 6 e 7).

Rispetto a tale assetto il d.lgs. n. 23/2015 si è spinto oltre, specificando che la sanzione della reintegrazione è del tutto eccezionale e residuale, mentre la sanzione tipica del licenziamento illegittimo è costituita di regola dalla tutela indennitaria che consegue all’accertamento dell’illegittimità del licenziamento. Tale indennità è predeterminata nella sua entità dal legislatore e rigidamente rapportata all’anzianità di servizio del lavoratore. Inoltre la sanzione reintegratoria non può trovare mai applicazione nel caso di licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo.

Alla luce delle rilevanti innovazioni legislative che hanno interessato l’ambito della tutela cd. reale si può dire che non sia più rintracciabile un’area di sicura resistenza e stabilità del rapporto di lavoro, almeno nel senso delineato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 174/1972. Cosicchè proprio seguendo l’insegnamento della Consulta (e salvo una possibile rilettura aggiornata da parte della Corte della nozione di “resistenza” del rapporto di lavoro; cioè atta ad impedire che si realizzi la rinuncia implicita all’esercizio dei diritti retributivi per timore del licenziamento ipotizzata dalla sent. n. 63/1966) dovrebbe ormai ritenersi generalizzato il principio originariamente affermato dalla Corte costituzionale nel 1966 ed ormai sempre impedita la decorrenza in costanza di rapporto di lavoro della prescrizione dei crediti retribuitivi rientranti nella garanzia costituzionale di cui all’art. 36 Cost.

Interruzione della prescrizione

L’interruzione della prescrizione può avvenire attraverso l’introduzione di un giudizio, che ne sospende il decorso fino alla sua conclusione, ovvero in forma stragiudiziale. Sono ammessi gli atti interruttivi eseguiti da un terzo estraneo al rapporto, purché questi abbia agito in qualità di rappresentante o mandatario del titolare del diritto, in forza di un potere specificamente o generalmente abilitante dimostrabile con ogni mezzo di prova, anche presuntiva. Quando l’interruzione della prescrizione non venga effettuata dal lavoratore, poiché è indubbio che la costituzione in mora debba essere fatta per iscritto (art. 1219 c.c.), ci si chiede se anche la procura al terzo debba essere data in forma scritta ed in data anteriore alla costituzione in mora. A tale interrogativo, la dottrina e la giurisprudenza prevalente rispondono escludendo che all’atto interruttivo della prescrizione sia applicabile l’art. 1392 c.c., infatti tale norma trova applicazione per gli atti negoziali, ma non per l’atto di costituzione in mora che è un atto giuridico non negoziale (Cass., 22.2.2006, n. 3873; Cass., 16.4.2007, n. 9046).

In base ad un orientamento giurisprudenziale prevalente le organizzazioni sindacali possono interrompere validamente la prescrizione del diritto del singolo lavoratore iscritto, senza necessità di un mandato ad hoc. La richiesta dell’organizzazione sindacale però deve assumere la forma di intimazione formale ed indicare nominativamente i singoli lavoratori rappresentati.

Per quanto riguarda, invece, la richiesta di espletamento del tentativo di conciliazione della controversia nata in merito ai diritti per i quali opera la prescrizione, l’art. 410 c.p.c. prevede ormai espressamente – dopo la riformulazione operata dalla l. n. 183/2010 – che la richiesta di espletamento del tentativo di conciliazione interrompe la prescrizione e sospende, per la durata del tentativo di conciliazione e per i venti giorni successivi alla sua conclusione, il decorso di ogni termine di decadenza.

In giurisprudenza si sottolinea come l’atto interruttivo della prescrizione richiesto dall’art. 2943, co. 3, c.c., non deve essere necessariamente identificato con le costituzioni in mora e con i criteri che individuano quest’ultima, sicché ha efficacia interruttiva della prescrizione la dichiarazione del creditore resa in giudizio di voler insistere nella propria pretesa creditoria, anche se tale dichiarazione è resa nei confronti del difensore del debitore e non verso questo personalmente, ed anche se la dichiarazione – che risulti dalla verbalizzazione ufficiale del processo – non abbia forma scritta (Cass., 21.6.2007, n. 14517).

Prescrizione e imprescrittibilità dei fatti produttivi

Una doverosa distinzione va tracciata tra i diritti maturati dal lavoratore, sottoposti ciascuno al proprio regime di prescrizione, e le situazioni giuridiche e di fatto (la natura subordinata o autonoma del rapporto, l’anzianità di servizio, ecc.) da cui traggono origine tali diritti che, in quanto tali, non sono suscettibili di estinguersi per prescrizione.

Oggetto della prescrizione, infatti, sono i diritti e non anche il rapporto negoziale dal quale essi discendono. Così l’anzianità di servizio non si estingue per inerzia del lavoratore poiché non forma oggetto di un diritto soggettivo, essendo piuttosto il presupposto di fatto per l’attribuzione di specifici diritti che sono soggetti alla prescrizione secondo i regimi sanciti per ciascuno di essi (Cass., 27.2.2004, n. 4076; Cass., 12.5.2004, n. 9060; Cass., 1.9.2003, n. 12756).

L’anzianità di servizio rileva soltanto come uno dei presupposti costitutivi o dimensionali di alcuni diritti soggettivi del lavoratore azionabili nei confronti del datore di lavoro e, come tale, essa configura un mero fatto giuridico insuscettibile di prescrizione autonoma e distinta da quella di ciascuno di tali diritti. Ne consegue che l’estinzione per inerzia colpisce solo i diritti nascenti dall’esecuzione del rapporto e correlati all’anzianità in tal modo maturata, e non il rapporto di lavoro o l’anzianità che, quindi, restano estranei alla fattispecie della prescrizione.

Così pure, mentre l’accertamento della natura subordinata del rapporto può essere sempre esercitato per stabilire quale sia l’anzianità del dipendente utile a computare i relativi scatti (o aumenti periodici) di anzianità, soggetto a prescrizione è il diritto di credito correlato ai singoli scatti, che deve essere fatto valere nei termini di legge decorrenti dalle singole date di maturazione.

Occorre altresì tenere distinto il diritto alla qualifica superiore dal diritto alla retribuzione per l’attività lavorativa effettivamente prestata con tale qualifica. Quando il lavoratore agisce per ottenere il riconoscimento di un diverso e superiore inquadramento collegato alle mansioni più qualificate svolte o per altri fatti (conseguimento di un titolo di studio, decorso di un certo lasso di tempo) considerati idonei dalla contrattazione collettiva a determinare progressioni di carriera, il diritto alla qualifica acquisisce autonoma rilevanza e, quindi, può essere oggetto di prescrizione decennale ai sensi dell’art. 2946 c.c.; fermo restando comunque il concorrente decorso della prescrizione quinquennale in ordine ai crediti di retribuzione connessi al conseguimento della qualifica superiore.

Invero l’espressione sintetica «diritto alla qualifica superiore» normalmente individua non già un diritto soggettivo autonomo alla qualifica superiore, bensì il complesso di diritti e di obblighi del lavoratore nascenti da un inquadramento in un livello superiore. Di conseguenza il problema della estinguibilità per inerzia del cd. diritto alla qualifica superiore dovrebbe essere impostato, piuttosto, in termini di prescrizione dei singoli diritti connessi all’inquadramento più elevato.

Diversamente si consentirebbe alla prescrizione di investire, simultaneamente e globalmente una pluralità di situazioni soggettive del lavoratore, operando in modo contrario al disposto dell’art. 2934 c.c. che sottopone a prescrizione ciascun diritto in sé considerato e non già la matrice comune di posizioni giuridiche diverse e, addirittura, non identificate o identificabili a priori.

Diversa, invece, si prospetta la questione del diritto all’effettivo esercizio delle mansioni superiori. Tale diritto (ammesso che di diritto possa parlarsi), infatti, non può estinguersi per l’inerzia del lavoratore in quanto possono in esso rintracciarsi i connotati dell’indisponibilità che, ai sensi dell’art. 2934, co. 2, c.c., sottrae il relativo diritto a qualsiasi regime prescrizionale. Ne consegue che il lavoratore potrà far valere in ogni tempo il diritto all’esercizio delle mansioni; siano esse quelle equivalenti alle ultime effettivamente svolte o quelle superiori acquisite in via definitiva.

La prescrizione del trattamento di fine rapporto

Per quanto riguarda il trattamento di fine rapporto (tfr) il termine di prescrizione applicabile è quello quinquennale previsto dall’art. 2948, n. 5, c.c., mentre il termine è decennale se il diritto al tfr è riconosciuto da una sentenza passata in giudicato (art. 2953 c.c.). Invece, non opera per questo diritto la prescrizione presuntiva, a causa della carenza del requisito della periodicità richiesto dagli artt. 2955, n. 2 e 2956, n. 1, c.c. Infatti, sebbene l’art. 2120 c.c. preveda un sistema di accantonamento annuo, esso costituisce soltanto un sistema di calcolo per quantificare le somme dovute al lavoratore alla cessazione del rapporto di lavoro. Ciò sta a significare che il dipendente non matura un diritto di credito sulle quote di trattamento di fine rapporto di anno in anno accantonate.

Inoltre, benché il diritto al trattamento di fine rapporto sorga alla cessazione del rapporto di lavoro, concorrono a determinarne l’ammontare anche gli accantonamenti relativi a retribuzioni per le quali il diritto sia ormai prescritto, poiché quelle retribuzioni rilevano solo come base di computo del tfr e non come componenti del relativo diritto (Cass., 23.5.2014, n. 11579).

Riguardo l’individuazione del dies a quo la prescrizione del trattamento di fine rapporto inizia a maturare, la soluzione generalmente accolta – per le ragioni già indicate – è quella della decorrenza del termine dalla cessazione del rapporto, quando appunto si ha la maturazione del diritto al tfr. Solo allora il lavoratore potrà pretendere la corresponsione del trattamento previsto dall’art. 2120 c.c. e, conseguentemente far valere tale credito nei confronti del datore di lavoro.

La soluzione indicata non è influenzata dal fatto che si accolgano tesi diverse in ordine alla natura da attribuire, durante lo svolgimento del rapporto, al trattamento di fine rapporto. Sia che si ritenga il lavoratore titolare soltanto di un’aspettativa di diritto, sia che lo si ritenga titolare di un diritto già perfetto sulle quote accantonate, comunque l’esercizio pieno di tale diritto non è giuridicamente possibile se non alla cessazione del rapporto.

Prescrizione e omissione contributiva

Una questione dibattuta in dottrina e giurisprudenza riguarda la prescrizione del diritto al risarcimento dei danni per omissione contributiva, ex art. 2116, co. 2, c.c. La responsabilità in cui incorre il datore di lavoro per mancata o irregolare contribuzione ha natura contrattuale e non aquiliana; conseguentemente il termine di prescrizione non è quello quinquennale previsto dall’art. 2947 c.c., bensì quello ordinario decennale di cui all’art. 2946 c.c.

Si deve, poi, aggiungere che la prescrizione del diritto al risarcimento del danno per l’irregolare versamento da parte del datore di lavoro dei contributi di assicurazione contro l’invalidità e la vecchiaia, può decorrere anche in pendenza del rapporto di lavoro, in quanto tale diritto non gode della speciale garanzia derivante dall’art. 36 Cost. (C. cost., 29.4.1971, n. 86).

Riguardo al dies a quo decorre la prescrizione, in un primo tempo le Sezioni Unite (Cass., S.U., 16.5.1975, n. 1744) avevano indicato nell’esaurimento del termine di prescrizione del diritto dell’istituto previdenziale al conseguimento dei contributi non versati dal datore di lavoro, il momento iniziale del decorso della prescrizione dell’azione risarcitoria ex art. 2116, co. 2, c.c. Tale soluzione, però, non venne recepita dalla sezione lavoro (Cass., 15.12.1975, n. 4113) che continuò ad identificare il dies a quo nell’emanazione del provvedimento definitivo di rifiuto, totale o parziale, della prestazione assicurativa da parte dell’istituto previdenziale.

Tale situazione determinò un nuovo intervento delle Sezioni Unite (Cass., S.U., 18.12.1979, n. 6568) che, modificando il precedente orientamento, hanno affermato che la prescrizione dell’azione risarcitoria per l’inadempimento contributivo decorre, non dal momento in cui si compie la prescrizione dei contributi omessi, né in quello di emanazione del provvedimento definitivo di rifiuto della prestazione, bensì dal momento in cui matura il diritto del lavoratore alla prestazione previdenziale. Infatti i due elementi necessari ad integrare la fattispecie risarcitoria ex art. 2116 c.c., cioè l’omissione contributiva e la perdita totale o parziale del trattamento previdenziale, si concretizzano soltanto nel momento in cui il lavoratore ha maturato il diritto alla prestazione previdenziale.

La giurisprudenza, tuttavia, negli ultimi anni si è assestata sulla distinzione di due tipologie di danno scaturenti dall’omissione contributiva. Il danno da perdita, totale o parziale, della prestazione pensionistica, che può verificarsi soltanto al raggiungimento dell’età pensionabile quando matura il diritto alla prestazione previdenziale e, prima del raggiungimento dell’età pensionabile e del compimento della prescrizione del diritto ai contributi, il danno da irregolarità contributiva a fronte del quale il lavoratore può esperire un’azione di condanna generica al risarcimento del danno ex art. 2116 c.c. ovvero di mero accertamento dell’omissione contributiva quale comportamento potenzialmente dannoso (Cass., 7.12.2005, n. 26990, Cass., 22.1.2015, n. 1179).

Fonti normative

Art. 2943 c.c.; art. 2948 c.c.; art. 2955 c.c.; art. 2956 c.c.

Bibliografia essenziale

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