SICARDO, principe di Benevento

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 92 (2018)

SICARDO, principe di Benevento

Vito Loré

SICARDO, principe di Benevento. – Figlio maggiore di Sicone e suo successore sul trono beneventano, non ne conosciamo la madre, né la data di nascita, collocabile però negli ultimi anni dell’VIII secolo: egli e il fratello Siconolfo sono infatti definiti giovani («floridam etatem gestantes»: Chronicon Salernitanum, a cura di U. Westerbergh, 1956, p. 44) nel contesto di un episodio databile agli anni precedenti l’817.

Non risulta dalle formule di datazione dei documenti d’archivio che Sicardo sia stato ufficialmente associato al trono dal padre; di certo lo affiancò però nell’ultimo periodo di regno, durante la guerra contro i napoletani dell’831, e fu da lui indicato come successore. Sicardo divenne principe di Benevento nell’ottobre dell’832. Il suo principale sostegno e consigliere fu lo stesso Rofrid, che già era stato fra i maggiori alleati di suo padre e che strinse ancora di più i rapporti con il figlio, divenendone cognato: poco dopo l’ottobre dell’832 sposarono entrambi figlie del potente beneventano Dauferio, detto il Muto; Adelchisa il nome della moglie di Sicardo.

La vicinanza di Rofrid al principe traspare anche dai diplomi principeschi, dove egli compare come intercessore sin da subito in ben sette occasioni, con il titolo di referendario e poi di tesoriere, oltre a ricevere un intero gualdo in Puglia: una concessione di ampiezza assolutamente eccezionale per un laico.

Più in generale, dai diplomi di Sicardo a noi noti (quattordici, più quattro deperdita e una carta in forma privata) appare strettissimo e condizionante il rapporto del principe con il suo entourage di parenti e fedeli.

Fra gli intercessori troviamo in posizione eminente (tre occorrenze) il tesoriere Radelchi, futuro successore di Sicardo sul trono beneventano, ma anche Azzone, marpahis e gasindio del principe, oltre che suo cognato. Gli stessi Azzone, Rofrid e Radelchi erano anche fra i pochissimi a detenere dotazioni di terre pubbliche, legate all’ufficio di corte.

Ai vantaggi cospicui garantiti a questi pochi, eminenti alleati corrisponde la persecuzione degli avversari, effettivi o potenziali, fra cui Maione, cognato del principe, e l’abate Alfano, prima fuggito a Napoli con il proprio, numeroso seguito, poi indotto a tornare nel principato e ucciso alle porte di Salerno. Perfino l’abate di Montecassino, Deusdedit, fu incarcerato. La politica di Sicardo nei riguardi della nobiltà beneventana appare dunque fortemente spregiudicata e divisiva. Ciò spiega la caratterizzazione concordemente negativa che di lui danno due fonti spesso inclini a valutazioni diverse, come il Chronicon Salernitanum ed Erchemperto: il principe traeva forza da un gruppo molto ristretto, cui concedeva risorse di grande rilievo, ma contemporaneamente acquisiva e redistribuiva solo in parte i beni confiscati agli avversari.

Il principe potenziò e ampliò la rete di relazioni con i centri monastici vicini a suo padre, attingendo al patrimonio ducale in misura sconosciuta dai tempi di Arechi II. Concesse interi gualdi a Montecassino, a S. Sofia e a S. Vincenzo al Volturno, che ricevette anche una grande estensione di terre e monti presso Venafro.

Pare invece da attribuire ad Arechi II e non a Sicardo, sotto il cui nome è stato tradito in Chronicon Vulturnense (a cura di V. Federici, I, 1925, pp. 297-302), un giudicato relativo alla chiesa di S. Felice, contesa fra il monastero di S. Maria in Luogosano e il vescovato di Benevento (la datazione del giudicato è stata corretta da H. Zielinski, Codice diplomatico longobardo, IV, 2, I diplomi dei duchi di Benevento, Roma 2003, pp. 129*-131* e 158 s.).

All’atteggiamento di Sicardo verso la nobiltà beneventana faceva da contraltare verso l’esterno una nuova, aggressiva capacità di intervento e di relazione. Approfittando della morte di Sicone (settembre 832), i napoletani avevano sospeso il pagamento del tributo concordato dopo l’ultimo suo attacco e lanciato una pesante offensiva militare; riconquistarono la parte di Liburia assoggettata dai Longobardi e si spinsero fino a Sarno e a Forchia, in territorio salernitano e beneventano. Sicardo reagì solo nell’835, inducendo il duca di Napoli Andrea II a chiamare in suo aiuto milizie musulmane. Questa fase del conflitto fu interrotta da una tregua quinquennale, sancita con un patto stipulato nel luglio dell’836. Il testo dell’accordo, pervenutoci incompleto, ripristinava il pagamento del tributo e mostrava una situazione estremamente favorevole a Benevento. Sicardo si era spinto a sottomettere Nola, tradizionalmente sotto il controllo napoletano, facendone la sede di un gastaldo. È probabilmente riferibile al periodo della tregua con i napoletani l’episodio di uno scontro fra Sicardo e un gruppo di musulmani di Sicilia, espulsi da Brindisi, dove si erano insediati.

La tregua con Napoli non resse per i cinque anni previsti: fra l’836 e l’838 il principe stesso la ruppe, assediando Sorrento e Amalfi, sottratte al dominio napoletano. L’occupazione di Amalfi avrebbe avuto conseguenze di lungo periodo: la città si liberò dal dominio longobardo alla morte di Sicardo, ma rimase indipendente dal controllo napoletano. Prima ancora della conquista, il principe aveva inoltre iniziato ad attirare a Salerno un ampio gruppo di amalfitani, spingendo per una fusione fra le popolazioni dei due centri, con l’intento probabile di potenziare o avviare un’attività commerciale a partire dalla città salernitana; notizie superstiti di alcuni diplomi perduti confermano come Sicardo concedesse agli amalfitani terre nel territorio di Vietri.

Solo una parte di loro ritornò in patria dopo la morte del principe, in un contesto di violenze e di conflitto con la popolazione locale; altri rimasero, costituendo il primo nucleo di una colonia consistente e stabile, la cui area d’elezione fu proprio lo spazio fra la città e Vietri.

A questo disegno espansivo va forse ricondotta anche la politica monetaria di Sicardo. Sulla base del numero dei coni, la quantità di monete emessa durante il suo regno è stata calcolata come quattro volte superiore rispetto a quella del padre, per altro con un’ulteriore riduzione del contenuto di metallo prezioso.

All’irradiamento verso l’esterno dell’azione principesca corrispose lo sforzo di rafforzare ulteriormente il prestigio della capitale del principato su un piano sacrale: Sicardo arricchì ulteriormente la dotazione beneventana di reliquie, resa già notevole da Arechi e poi da Sicone.

Alcune traslazioni furono spesso realizzate a danno di centri estranei al Mezzogiorno longobardo, talvolta in accordo con il vescovo beneventano Orso. Le reliquie di s. Trofimena furono infatti per iniziativa di Sicardo sottratte nell’837 a Minori, presso Amalfi, e portate a Benevento, dove rimasero soltanto due anni, per tornare a Minori alla morte del principe. Nell’838 avvenne la traslazione più prestigiosa del periodo: le reliquie dell’apostolo Bartolomeo furono prelevate sull’isola di Lipari da un gruppo di beneventani e traslate a Benevento (va detto però che l’iniziativa del principe e del vescovo beneventano Orso non compare nei frammenti traditi delle versioni più antiche della traslazione); e all’iniziativa di Sicardo risalirebbe anche la traslazione delle reliquie di s. Sosio, conservate a Miseno. Il principe ebbe inoltre parte anche alla traslazione a Benevento dei resti di Deodato, vescovo di Nola, compiuta per volontà di un nobile beneventano, Paldo.

Nonostante la persecuzione degli avversari, il fronte interno ostile a Sicardo doveva rimanere ampio e il principe ne era consapevole; per questo motivo decise di mettere fuori gioco il fratello Siconolfo, sospettandolo di essere divenuto il punto di riferimento di oppositori decisi a spodestarlo. Siconolfo fu quindi – probabilmente dopo l’impresa amalfitana – tonsurato e confinato a Taranto, dove rimase fino alla morte di Sicardo, sottoposto a una dura carcerazione. L’allontanamento del fratello non fu però sufficiente a placare la fronda interna, che trovò nuovi referenti proprio nella più ristretta cerchia del principe, ucciso da una congiura fra luglio e agosto dell’839: come suo successore fu scelto il tesoriere Radelchi.

Maturata subito dopo la morte di Sicardo, la divisione del Principato beneventano in due distinte entità politiche, espressione di fazioni nobiliari irriducibilmente avverse, fu con ogni probabilità favorita dalla politica del principe.

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