Privatizzazione e regolamentazione

Enciclopedia del Novecento III Supplemento (2004)

Privatizzazione e regolamentazione

Alessandro Petretto

di Alessandro Petretto

Privatizzazione e regolamentazione

sommario: 1. Liberalizzazione dei mercati ed efficienza economica. a) Riforma dei servizi di pubblica utilità e nozioni di efficienza. b) Concorrenza, rivalità e contendibilità. c) Concorrenza, informazione e incentivi. 2. Processi e organismi di regolamentazione. a) Il modello tradizionale di regolamentazione. b) La 'nuova' regolamentazione dei mercati. c) Le Autorità indipendenti di regolamentazione. 3. Privatizzazione: convenienza sociale e attori istituzionali. a) Teoria dell'impresa e assetti proprietari. b) Conflitto di interessi e asimmetria informativa. c) Limiti di impegno e credibilità del governo. d) Il contributo della teoria della political economy. e) Quadro sinottico riassuntivo. □ Bibliografia.

1. Liberalizzazione dei mercati ed efficienza economica

a) Riforma dei servizi di pubblica utilità e nozioni di efficienza

Privatizzazione e regolamentazione sono modi di essere della 'nuova' forma di intervento pubblico che ha determinato nei principali paesi industrializzati un'incisiva riorganizzazione dei mercati, in particolare quelli dei servizi di pubblica utilità (Public Utilities, PU). La moderna teoria economica, pur riconoscendo il ruolo 'strategico' di servizi come energia, gas, acquedotti, trasporti e telecomunicazioni, data la loro ampia diffusione nei processi di consumo e produttivi, vede con favore la loro fornitura senza un intervento diretto della pubblica amministrazione, attendendosi guadagni di efficienza economica da un nuovo contesto di liberalizzazione dei mercati.

Un intervento pubblico regolatore diviene, comunque, necessario quando la tecnologia di produzione consente alle imprese di conseguire extra-profitti con pregiudizio degli utenti, per cui si raccomandano interventi, oltre che per la promozione e la tutela della concorrenza e per la privatizzazione degli assetti proprietari, anche per il controllo dei vincoli tariffari e della qualità. D'altra parte, anche in presenza di imprese pubbliche, un intervento regolatore è indispensabile dal momento che i managers (e i politici che li hanno nominati) possono essere indotti a perseguire benefici personali - monetari e anche non monetari, in termini di potere e consenso - che comunque distolgono risorse a danno degli utenti. Inoltre, sovente accade che la fruizione dei servizi di PU si configuri come un diritto che impone, come si dice, 'obblighi del servizio pubblico universale', ossia un livello minimo di fornitura a chiunque senza discriminazioni e interruzioni, a un prezzo accessibile e con qualità determinata. In tali casi, si auspica una regolamentazione anche se le condizioni di mercato sono di tipo concorrenziale.

I processi di privatizzazione e di regolamentazione vengono analizzati verificando le condizioni di efficienza che possono essere conseguite con queste trasformazioni istituzionali. Al riguardo, la teoria economica propone almeno quattro accezioni di efficienza cui riferirsi. Innanzitutto, si ha efficienza allocativa quando si realizza un'allocazione razionale, nel senso di Pareto, di risorse scarse nel sistema economico; ciò ha luogo quando in ogni settore si applica la regola del prezzo pari al costo marginale, pervenendo così a una situazione detta di first best. Si parla, poi, di efficienza interna all'impresa, o efficienza-x, con riferimento alla capacità di un'impresa di impiegare livelli e composizione dei fattori produttivi che minimizzino i costi di produzione per una data quantità di prodotto. L'efficienza della configurazione industriale si manifesta quando in un settore industriale, con una data struttura di prezzi e con un dato numero di imprese cui spettano determinate quote di mercato (imprese incumbent), si minimizza il costo totale per produrre un ammontare di produzione corrispondente alla domanda aggregata. Infine, si ricorre al concetto di efficienza dinamica quando si fa riferimento alla capacità delle imprese e del relativo settore industriale di attuare investimenti per innovare i servizi e le tecniche produttive, migliorare la qualità e ridurre i costi nel lungo periodo.

b) Concorrenza, rivalità e contendibilità

Come sintetizza efficacemente John Vickers (v., 1995), il concetto di concorrenza è da sempre associato a quello di rivalità, in particolare tra produttori; pertanto, la concorrenza si realizza quando: vi è libertà di entrata di rivali, il numero di questi è consistente, le possibilità di collusione sono limitate e tra i rivali prevale un comportamento indipendente. Inoltre, il compenso dell'attività economica è legato all'ottenimento del risultato per cui ci si trova a rivaleggiare, e, in caso di fallimento, si subisce una penalità. È questa una nozione di concorrenza reale che non implica necessariamente requisiti di efficienza, legati invece al concetto più astratto di concorrenza perfetta. Quest'ultima è identificabile con un certo comportamento assunto nel mercato dai rivali, detto price taking, che realizza un meccanismo di decentralizzazione in grado di ricondurre a esiti cooperativi efficienti le strategie di agenti che perseguono il proprio interesse. Invece, forme di mercato in cui i produttori assumono comportamenti non cooperativi e sono in qualche modo capaci di 'fare il prezzo' conseguono livelli di efficienza minori.

La distorsione nel sistema dei prezzi di mercato è, dunque, nulla in presenza di concorrenza perfetta e massima in presenza di monopolio, passando per soluzioni intermedie identificabili con le varie tipologie di oligopolio. In concorrenza perfetta, l'equilibrio implica l'uguaglianza tra prezzo e costo marginale (lungo la 'funzione di costo') e, nel lungo periodo, con libertà di entrata, l'uguaglianza si estende al costo medio nel suo punto di minimo quando assume la tradizionale forma a U; si realizzano, così, a un tempo, l'efficienza-x, l'efficienza allocativa e l'efficienza della configurazione industriale. In monopolio, invece, l'impresa sceglie la quantità di produzione totale che massimizza il profitto avendo come riferimento la domanda di mercato, che coincide con quella dell'impresa. La condizione di equilibrio implica che il cosiddetto 'indice di Lerner' - lo scostamento relativo del prezzo dal costo marginale - sia pari al reciproco dell'elasticità della domanda di mercato e, quindi, sia tanto maggiore quanto più elevate sono le 'possibilità di sfruttamento' dell'utenza, che non dispone di soluzioni alternative o beni sostituti. In oligopolio, con concorrenza sulle quantità à la Cournot, l'impresa sceglie la sua strategia di produzione considerando come date quelle delle concorrenti. Il corrispondente indice di Lerner è, come in monopolio, inversamente correlato all'elasticità della domanda di mercato, ma è anche tanto minore quanto minore è la quota di mercato di ogni impresa. Pertanto, l'acquisizione di elementi di concorrenza, attraverso comportamenti sempre più assimilabili al price taking, tende, avvicinando i prezzi ai costi marginali, a erodere la rendita monopolistica.

L'equilibrio competitivo è un caso particolare di un'accezione più ampia di concorrenza che fa riferimento alla nozione di 'mercato contendibile'; con questa espressione si indica una situazione di mercato, compatibile anche con l'oligopolio o il monopolio, nella quale la minaccia di entrata di nuovi concorrenti impedisce a chi già vi opera di sfruttare il proprio potere di mercato. La nozione di contendibilità è associata a quella di 'sostenibilità' quando i potenziali entranti non possono praticare prezzi inferiori a quelli dell'incumbent e acquisire parte della domanda di mercato con profitti non nulli. William Baumol e la sua scuola hanno dimostrato che, in un mercato contendibile, una configurazione industriale di equilibrio è sostenibile e soddisfa, a certe condizioni, il requisito dell'efficienza Pareto-vincolata che, per un'impresa monoprodotto, implica prezzi pari ai costi medi (v. Baumol e altri, 1982). Dunque, in un mercato contendibile, per le imprese esistenti l'unico modo di impedire l'entrata di potenziali concorrenti è di renderla non conveniente ex ante, fissando prezzi a un livello sostenibile che annulla tutti gli extra-profitti del monopolio e realizza, come si dice, una situazione di second best, la stessa, peraltro, ottenibile con un oligopolio con concorrenza sui prezzi à la Bertrand.

c) Concorrenza, informazione e incentivi

La contendibilità e la concorrenza, nel senso di rivalità, hanno ampie ricadute anche sull'organizzazione interna delle imprese e sulla distribuzione degli incentivi. Poiché al potere di mercato è associato il 'quieto vivere', vale a dire bassi livelli di sforzo imprenditoriale per il contenimento dei costi e il miglioramento della qualità, lo sviluppo della concorrenza tende, simmetricamente, a ridurre queste cause di inefficienza-x. I canali attraverso i quali ciò si realizza sono molteplici, ma tutti si basano sul fatto che esistono tra gli agenti coinvolti nell'organizzazione dell'impresa delle asimmetrie informative. Si ricorre, in tali casi, alla stilizzazione dello schema 'principale-agente', in cui l'agente è, ad esempio, il manager di una PU, e il principale ne è il proprietario, il quale propone al primo un contratto incentivante. Se l'agente è 'avverso' e il principale 'neutrale' rispetto al rischio associato a eventi incerti che influenzano i pay-offs di entrambi, e il primo è in grado di tenere celata al secondo un'azione, come ad esempio lo sforzo di contenimento dei costi, emerge un problema di 'azzardo morale' (moral hazard ) che impone un costo in termini di inefficienza-x (v. Laffont e Martimort, 2002). In tale contesto, la concorrenza ha un effetto di tipo assicurativo, dal momento che la proprietà, se osserva le performances di un manager di un'altra impresa, può stimare lo sforzo compiuto dal suo manager con maggiore precisione e quindi aumentare la 'base informativa' con cui disegnare il contratto. Ciò riduce il rischio, espresso dalla varianza della performance, e quindi il costo del compromesso tra ripartizione del rischio e contenimento dei costi cui si deve pervenire. Un secondo effetto della concorrenza opera attraverso la reputazione; sempre per rimanere nel precedente esempio, le prospettive di guadagno futuro del manager dipendono dalla sua reputazione, la quale deriva dalla performance attuale; pertanto egli è incentivato a tenere comportamenti virtuosi, tanto più se vi è un altro manager con cui confrontare la performance.

Il problema è che non sempre questo tipo di competizione è effettivamente possibile, per cui talvolta si ricorre a forme di concorrenza e di confronto 'artificiali'. Quando le PU sono distribuite come monopoli locali sul territorio si usa la yardstick competition, cioè la regolazione dei prezzi attraverso la comparazione delle performances effettive con quelle medie. Quando le condizioni tecnologiche sono tali da richiedere una sola impresa (il monopolio naturale) si usano le gare come forme di competizione ex ante. Queste consentono di acquisire gli effetti positivi tipici della concorrenza effettiva in termini di comunicazione e selezione, dato che, attraverso i meccanismi d'asta per la selezione dei produttori, si trasmettono efficacemente le conoscenze così come avviene con il sistema dei prezzi efficienti (sulla teoria generale delle aste, v. McAfee e McMillan, 1987; v. Klemperer, 1999 e 2002). Con un numero sufficientemente elevato di imprese neutrali rispetto al rischio, con un costo unitario comune seppure non noto ex ante, il prezzo offerto dalla vincitrice tende, in condizioni piuttosto generali, al costo reale, anche in assenza di comunicazione tra le diverse imprese.

Altri risultati generali emergono dalla teoria delle aste per l'assegnazione di un appalto o di una concessione. In primo luogo, quando le imprese hanno tecnologie asimmetriche, la concorrenza tramite asta svolge il ruolo fondamentale di selezionare le imprese più efficienti, cioè quelle con il costo (produttività) più basso (alta). In secondo luogo, la remunerazione dell'impresa vincitrice, nel caso sia necessario riconoscerle una 'rendita informativa', cioè incentivare la diffusione di informazioni da essa esclusivamente detenute sulla tecnologia e i costi, avviene tramite un trasferimento netto che risulta comunque minimizzato. In terzo luogo, il monopolista che ha ottenuto l'affidamento del servizio a seguito di una procedura di gara pratica prezzi inferiori a quelli che praticherebbe se l'affidamento fosse stato diretto, e i prezzi risultano tanto più vicini ai costi medi quanto maggiore è il numero dei concorrenti che partecipano alla gara (v. Riordan e Sappington, 1987; v. Laffont e Tirole, 1987).

Infine, la concorrenza ha vantaggi in termini di incentivi all'innovazione, cioè in termini di efficienza dinamica. Analisi teoriche più recenti tendono infatti a ribaltare le conclusioni della teoria tradizionale, risalente a Joseph Schumpeter, secondo cui, nel lungo periodo, il potere di mercato delle imprese e la possibilità di 'fare il prezzo' generano incentivi per gli investimenti in ricerca e sviluppo. Si dimostra, invece - come già aveva intuito in un classico lavoro Kenneth Arrow (v., 1962) - che è proprio la concorrenza sulla qualità e sulla tipologia dei nuovi prodotti, così come sulle nuove tecnologie produttive e organizzative, a innescare meccanismi dinamici virtuosi che incentivano l'innovazione. Attraverso investimenti che assumono la forma di costi non recuperabili sono le imprese migliori ad acquisire il necessario potere di mercato, sopravvivendo alla selezione anche a costo di sempre minori margini di profitto (v. Vickers, 1995).

2. Processi e organismi di regolamentazione

a) Il modello tradizionale di regolamentazione

Nell'esperienza europea, l'organizzazione industriale delle PU si è tradizionalmente basata sull'affidamento diretto della gestione dei servizi a imprese pubbliche in condizioni di monopolio verticalmente integrato. Il presupposto era che vi fosse una sostanziale coincidenza tra la funzione obiettivo dell'organismo pubblico preposto al controllo (un ministero) e quella dell'impresa pubblica stessa, per cui elementi come ad esempio le dimensioni dell'offerta e la struttura tariffaria erano stabiliti nell'ambito della politica economica nazionale. La diffusione dell'impresa pubblica nelle PU è stata peraltro favorita dalla tecnologia, che in molti settori ha visto prevalere il monopolio naturale e, d'altra parte, l'affidamento diretto a uno specifico produttore della concessione del servizio non ha favorito le eventuali condizioni di contendibilità.

L'intento di regolare l'organizzazione delle PU attraverso la politica industriale nazionale deriva da una logica di pianificazione in cui sono trascurati i problemi essenziali dell'informazione incompleta e dei conflitti di interesse. Implicitamente, infatti, il modello tradizionale presuppone sia che tutte le variabili rilevanti - costi, produttività, impegno del manager, risultato di gestione - siano osservabili dal regolatore, sia la completezza dei contratti, grazie alla possibilità di contrattualizzare gli impegni e gli obblighi sulle precedenti variabili. Il primo requisito implica l'assenza di fenomeni di selezione avversa e azzardo morale, il secondo la verificabilità delle variabili da parte di un'istituzione terza, tra l'impresa e l'amministrazione pubblica, come una corte di giustizia, in grado di far rispettare i termini del contratto stesso (v. Laffont e Martimort, 2002). Nel modello tradizionale si ritiene che l'ufficio ministeriale, che svolge la funzione di regolatore, possa dunque imporre, attraverso atti amministrativi di 'comando', il livello x-efficiente dello sforzo del manager dell'impresa pubblica e la struttura tariffaria ottimale, cosiddetta di Ramsey, secondo cui l'indice di Lerner è inversamente correlato all'elasticità della domanda del servizio (prezzi 'quasi' monopolistici). A tale comando dovrebbe poi fare seguito una capacità di controllo ex post dell'attività del manager. Quando sono imposti gli obblighi del servizio universale, la struttura tariffaria comandata all'impresa pubblica richiede l'applicazione di sussidi incrociati tra categorie di utenti, con corrispondente onere sopportato in eccesso da chi non usufruisce del servizio universale, oppure il ricorso alla fiscalità generale per finanziare il costo dell'obbligo stesso.

I benefici dell'organizzazione tradizionale sono riconducibili alla semplicità istituzionale della regolazione, alla limitatezza dei costi amministrativi e alla garanzia effettiva dell'universalità del servizio. I costi sono invece associati all'inefficienza della configurazione industriale che emerge quando lo sviluppo del progresso tecnico potrebbe rimuovere il monopolio, all'inefficienza allocativa e interna dovute all'asimmetria informativa, e alla scarsa trasparenza dei sussidi incrociati e della struttura tariffaria. Poiché i costi del modello organizzativo tradizionale si sono dimostrati, nel corso degli anni, complessivamente superiori ai benefici, è stato concepito un nuovo modello organizzativo basato sulla liberalizzazione dei settori industriali delle PU (v. Armstrong e altri, 1994).

b) La 'nuova' regolamentazione dei mercati.

Il nuovo modello organizzativo si fonda sulla separazione tra governo e imprese, e, per limitare l'ingerenza dei politici, sull'istituzione di un organismo intermedio, l'Autorità indipendente di settore, quale regolatore. Altri intenti sono: individuare i segmenti in cui non vige il monopolio naturale e attuare la 'disintegrazione' verticale, liberalizzare i mercati per favorire l'entrata di nuovi operatori, consentire la graduale collocazione sul mercato delle quote azionarie dell'impresa incumbent ex monopolista; e, infine, applicare regole automatiche di dinamica tariffaria nei settori non concorrenziali. Al riguardo, il metodo del price-cap - che consiste nel porre un tetto alla crescita delle tariffe medie di un determinato paniere di servizi prodotti da un'impresa lasciando questa libera di fissare i singoli prezzi - è ormai la regola più diffusa.

Il nuovo modello di regolamentazione trae spunto dai risultati della moderna teoria dell'informazione asimmetrica ed è analizzato - a partire dal contributo pionieristico di Marshall Loeb e Wesley Magat - nel contesto della letteratura che sottolinea i limiti informativi di selezione avversa del regolatore ('principale') sulla tecnologia e i costi esogeni delle imprese 'separate' ('agente'). L'idea è che il regolatore, nel delineare il contratto di servizio, debba congegnare un trasferimento e stabilire un prezzo che incentivino l'impresa a dare una corretta informazione sui costi, ossia sulla tecnologia. La soluzione proposta da Loeb e Magat (v., 1979) si riferisce a un meccanismo che induce a rivelare le informazioni private senza provocare un costo per la collettività, essendo non vincolato il trasferimento dal regolatore all'impresa. David P. Baron e Roger B. Myerson (v., 1982) hanno ricondotto il problema a una situazione di second best valutando, nella funzione del benessere massimizzata dal regolatore, il profitto dell'impresa con un parametro inferiore, per motivi di politica distributiva, a quello attribuito al surplus dei consumatori. In questo scenario la regolazione ottimale richiede una distorsione rispetto alla soluzione di first best di Loeb e Magat, ammettendo un prezzo superiore al costo marginale allo scopo di indurre l'impresa regolata a rivelare la propria identità e a contenere, comunque, la rendita da monopolio informativo, cioè il compenso che essa reclama per il possesso in via esclusiva di informazioni rilevanti per gli obiettivi del regolatore. Jean-Jacques Laffont e Jean Tirole (v., 1986) nel loro contributo originale prevedono nella funzione del benessere gli stessi pesi per profitto e surplus dei consumatori, ma introducono il 'costo sociale dei fondi pubblici' dovuto alla distorsione della tassazione necessaria a finanziare il trasferimento incentivante, da cui deriva, anche in questo caso, un trade off tra estrazione della rendita ed efficienza. Il loro modello è caratterizzato sia da informazione nascosta (selezione avversa) che da azione nascosta (azzardo morale), ma la supposta osservabilità ex post dei costi, trasmessi per via contabile al regolatore, consente di ricondurlo ai termini del solo primo problema. Questo modello è stato sviluppato in molteplici direzioni dalla Scuola francese di Tolosa (v. Laffont e Tirole, 1993; v. Laffont, 1994 e 2000; v. Laffont e Martimort, 2002), anche se, come sostengono Michael A. Crew e Paul R. Kleindorfer (v., 2002), l'intera struttura incontra ancora non pochi problemi attuativi. In realtà, il meccanismo del price-cap approssima, in qualche modo, proprio la logica del modello della Scuola francese, dato che si fonda sul presupposto che il regolatore, non potendo osservare le variabili aziendali, non riesca a distinguere gli elementi che compongono il costo sostenuto e quanto esso si discosti da quello efficiente, ma possa acquisire per via contabile l'esito complessivo del differenziale tra ricavi e costi effettivi. Vincolando l'impresa sul volume dei ricavi egli la spinge a minimizzare i costi per massimizzare il residuo di cui può appropriarsi, guadagnando in efficienza interna; per questo si tratta di una formula di ripartizione del rischio d'impresa - come si dice, un contratto 'a prezzo fisso' - a forte contenuto incentivante. Con la revisione periodica del tetto tariffario, il regolatore determina indirettamente la rendita informativa e gli incentivi da concedere all'impresa (v. Sappington, 2003).

L'adozione del nuovo modello di regolazione richiede, per quanto attiene al soddisfacimento degli obblighi del servizio universale, che sia risolto il conflitto tra discrezionalità dell'impresa nel fissare le tariffe, se pur entro i vincoli del price-cap, e uniformità nel territorio e tra categorie di utenti. Al riguardo, un problema è rappresentato dalla cosiddetta 'scrematura del mercato' (cream skimming), per la quale l'entrata di nuovi operatori si concentra nei servizi 'di mercato' sussidianti, cosicché la perdita di quote di mercato in questi ultimi rende difficile la copertura dei costi per l'incumbent se a esso rimane interamente l'onere della fornitura dei servizi sussidiati. Poiché in un mercato contendibile l'esistenza di sussidi incrociati per garantire il servizio universale in uno specifico segmento di offerta è incompatibile con la sostenibilità, il pericolo della 'scrematura' può rendere opportuna una qualche protezione legale dell'incumbent cui è assegnato il servizio universale. Tuttavia, talvolta tale minaccia può essere enfatizzata dall'ex monopolista per attuare una strategia dilatoria che imponga una fase di inerzia nel processo di liberalizzazione del settore, durante la quale egli possa mantenere potere di mercato anche nei segmenti più profittevoli di servizi o di utenti, coprendo gli obblighi del servizio universale con sussidi incrociati e continuando ad acquisire consistenti extra profitti complessivi. L'incumbent può, inoltre, richiamare il pericolo della 'scrematura' per ottenere dal regolatore una riduzione dei prezzi nei settori competitivi, al fine di difendere quote di mercato, e un immediato aumento dei prezzi nei settori meno profittevoli. Un certo ribilanciamento è in generale inevitabile, ma ciò che è cruciale è la dinamica temporale della revisione tariffaria in relazione agli sviluppi del processo di liberalizzazione.

La fornitura del servizio universale ha anche vantaggi economici, in quanto aumenta la reputazione dell'impresa presso la clientela, accresce la riconoscibilità del marchio, consente di disporre di informazioni sul consumo degli utenti e di definire i contenuti degli obblighi stessi, innalzandone il livello tecnologico per costituire barriere all'entrata. Per l'incumbent può pertanto essere conveniente rischiare la 'scrematura' per mantenere integralmente l'onere. La crescente competizione nell'ambito dei beni finali (come ad esempio nel mercato locale della telefonia) può portare a una concorrenza tra operatori anche nella fornitura del servizio universale; in altre parole, in un contesto completamente liberalizzato non è detto che sia necessariamente l'ex monopolista a doverlo fornire, ma è possibile che le imprese entranti siano disposte ad accollarsi un tale onere. Al riguardo in letteratura sono stati studiati meccanismi basati, da un lato, su sistemi di vouchers che prevedono l'erogazione di un sussidio a ciascun utente non remunerativo pari alla differenza tra prezzo regolamentato e costo stimato per area geografica, e, dall'altro, su meccanismi d'asta per l'assegnazione del diritto a fornire l'utenza non remunerativa dell'area considerata in base a un trasferimento ottimale.

c) Le Autorità indipendenti di regolamentazione

Le motivazioni e il ruolo di questi organismi devono essere analizzati all'interno della teoria degli incentivi che, come detto, giustifica il disegno istituzionale di separare la titolarità dei servizi dalla loro gestione e organizzazione.

Ad esempio, secondo Avinash Dixit (v., 1996 e 1997; v. anche Dewatripont e altri, 2000) la burocrazia pubblica, quando è chiamata a prendere decisioni produttive, agisce come un'agenzia con attività multidimensionale, condizionata da una molteplicità di 'principali' - i partiti di governo, le forze presenti in parlamento o nei consigli comunali, ministri o assessori, sindacati - ciascuno interessato a specifici obiettivi in conflitto tra loro. La burocrazia pubblica è quindi chiamata a svolgere numerosi e contrastanti compiti - come la promozione della concorrenza, la tutela dell'utenza, la massimizzazione del valore delle azioni, la difesa dei livelli occupazionali e retributivi, la difesa dell'industria nazionale (i 'campioni nazionali') e la salvaguardia ambientale - e, di fronte a uno scenario così complesso, appare disorientata dalle molteplici spinte che provengono dai vari 'principali', oltre che gravata da un'innata avversione al rischio. Di conseguenza, essa tende a favorire il 'principale' più forte, cioè quello rappresentativo del gruppo di pressione con maggior potere, che non è quello degli utenti. Questi ultimi dovrebbero, viceversa, essere il gruppo espressamente tutelato dal regolatore, il quale dovrebbe concentrare la sua attenzione solo sui compiti a ciò funzionali, lasciando gli altri ai vari organismi governativi. In tal senso si giustificano la 'separazione' dalla burocrazia pubblica e la 'aziendalizzazione' della gestione del servizio, nonché il passo successivo della privatizzazione che attribuisce al management un 'principale' esclusivo, appunto gli azionisti privati.

Laffont (v., 1999 e 2000) e la Scuola francese argomentano poi che la separazione delle agenzie consente di dividere le informazioni a disposizione dei politici e, conseguentemente, di limitare la loro discrezionalità nell'intraprendere azioni non conformi al benessere sociale. Quando i politici sono indotti a comportamenti collusivi passibili di 'cattura' da parte di gruppi di pressione, la divisione della autorità diventa una via per aumentare il benessere sociale. In tal senso la 'separazione tra gestione e indirizzo' e il ricorso ad Autorità indipendenti è un caso particolare di separation of powers: invece di avere un'unica struttura politica, che nell'amministrare un servizio pubblico mette in atto le sue offerte collusive con i gruppi di pressione affidando la gestione a un'azienda privata, si genera un comportamento strategico tra agenzie parzialmente informate (politici, gruppi di pressione, burocrati) che aumenta i costi di transazione delle attività collusive, rendendole meno convenienti per le parti in causa. Pertanto, l'impresa monopolistica, una volta efficientemente selezionata, viene 'separata' dagli organi di supervisione, appunto le Autorità indipendenti, a loro volta separate e distinte a seconda delle competenze e dei settori.

In concreto, le Autorità di regolamentazione di settore sono chiamate a svolgere funzioni di 'promozione' della concorrenza (tramite controlli ex ante), specie nelle fasi di transizione alla liberalizzazione, mentre compiti di 'tutela' generale della concorrenza sono assunti (tramite controlli ex post) dall'Autorità anti-trust. Più in particolare, le Autorità di regolamentazione promuovono la concorrenza per il mercato, cioè la competizione potenziale attraverso la contendibilità o attraverso meccanismi di selezione in base ad aste, e la concorrenza nel mercato, cioè la rivalità tra produttori nello stesso segmento di offerta, rimuovendo gli impedimenti istituzionali alle forze concorrenziali (come i monopoli legali o gli istituti regolatori posti senza valido motivo) e definendo la cornice normativa di settore che garantisca l'imparzialità nella selezione delle imprese e impedisca lo sviluppo di comportamenti anticompetitivi.

Una tipica forma di promozione della concorrenza vede le Autorità impegnate a limitare l'attività di un'impresa dominante quando questa tenda a contrastare imprese concorrenti in mercati verticalmente integrati. In effetti, in molte PU la concorrenza risulta più facilmente attuabile in certi segmenti della 'filiera' che non in altri. Per esempio, si sostiene che, data la tecnologia esistente, la concorrenza nelle fasi di generazione e vendita di energia sia possibile, mentre nella trasmissione e nella distribuzione emergerebbero tipiche situazioni di monopolio naturale; nel campo delle telecomunicazioni queste ultime tendono invece a sparire ovunque (v. Gasmi e altri, 2002). Pertanto, occorre promuovere e sostenere un'effettiva concorrenza nelle attività in cui essa risulta realizzabile, pur scontando una limitata permanenza di monopoli in altre. Se in un'industria un certo numero di imprese in concorrenza necessita, per raggiungere l'utenza finale, dell'uso di una rete di trasporto di cui è proprietaria una specifica impresa anch'essa presente nel segmento di mercato concorrenziale, quest'ultima può trovare conveniente attuare strategie che aumentino i costi dei rivali, come un elevato prezzo di accesso all'infrastruttura, al fine di escluderli. L'Autorità di regolamentazione può perciò intervenire per imporre una separazione verticale, in modo da impedire all'impresa proprietaria della rete di operare nel mercato rivolto all'utenza finale, oppure, quando la tecnologia rende troppo costosa la separazione, per fissare regole precise sull'uso dell'infrastruttura da parte delle imprese concorrenti. In quest'ultimo caso si tratta, in particolare, di definire la configurazione ottimale del prezzo di 'interconnessione' o di 'accesso', cioè del prezzo che l'impresa monopolistica deve praticare per concedere l'input che essa controlla a un'impresa operante nell'altro settore e che potrebbe insidiare il potere di mercato della prima. Una soluzione suggerita dalla teoria è data dalla cosiddetta Efficient Component Pricing Rule (ECPR) di Baumol e Sidak (v., 1994). Questa e le sue numerose derivazioni delineano un prezzo di accesso adeguatamente remunerativo per l'impresa monopolista, tale cioè da incentivare gli investimenti nell'infrastruttura, ma non tale da divenire proibitivo per le concorrenti, la cui permanenza nel segmento competitivo favorisce gli utenti finali (v. Laffont e Tirole, 1993 e 2000; v. Armstrong, 2003).

Le Autorità di regolamentazione di settore, quali tutori dell'utenza, sono poi chiamate a garantire la qualità del servizio (finale e intermedio) - non solo quando prevalgono le condizioni di monopolio, ma anche in regime di concorrenza se permane l'asimmetria informativa tra impresa e consumatore per la quale quest'ultimo percepisce solo dopo l'avvenuto consumo la qualità del servizio -, a determinare le tariffe e a fissare le regole applicative per quanto attiene alla porzione del mercato che rimane in regime di monopolio (il cosiddetto mercato 'vincolato').

3. Privatizzazione: convenienza sociale e attori istituzionali

a) Teoria dell'impresa e assetti proprietari

Un risultato fondamentale della moderna teoria dell'impresa afferma che - in un contesto di completezza contrattuale, lungo l'intero orizzonte temporale di vita dell'impresa, e in presenza di costi di transazione trascurabili - si applicano agli assetti proprietari (governance) le conseguenze del famoso teorema di Ronald Coase sull'indipendenza di un'allocazione efficiente dalla distribuzione iniziale dei diritti di proprietà. Per cui, solo con contratti incompleti ed elevati costi di transazione, differenti strutture di governance incidono sulle performances aziendali, modificando l'allocazione dei diritti residuali di controllo e gli incentivi agli investimenti specifici in capitale umano e in conoscenze, per loro natura non verificabili e non contrattabili (v. Grossman e Hart, 1986; v. Hart e Moore, 1990).

È in questo contesto che deve essere correttamente analizzata la teoria della privatizzazione delle imprese di PU. Al riguardo, il 'teorema fondamentale della privatizzazione' di David E. Sappington e Joseph E. Stiglitz (v., 1987) fornisce il benchmark di riferimento analitico, mostrando come, entro la struttura di ipotesi di Coase, gli obiettivi di efficienza produttiva (nel senso della minimizzazione dei costi), equità ed estrazione della rendita del monopolista sono garantiti da una completa delega a un'impresa privata delle decisioni di produzione. Questo risultato - che, di fatto, muove nella direzione di prescindere da una pubblica amministrazione - si ottiene se un certo numero di imprese neutrali rispetto al rischio, simmetriche e non collusive, partecipa a un'asta per acquisire il diritto alla produzione, e alla vincitrice è garantito, come nel modello di Loeb e Magat, un pagamento a fronte della produzione esattamente pari al suo valore sociale. Pertanto, è dalla graduale rimozione delle restrittive ipotesi poste alla base del teorema di Sappington e Stiglitz - contratti generalmente incompleti, costi negoziali spesso proibitivi, avversione al rischio, asimmetria e collusione tra imprese e imperfetta determinazione del valore sociale della produzione - che si sviluppa una teoria del cost-benefit dei processi di privatizzazione.

La teoria della privatizzazione dell'ultimo decennio può essere, per semplicità espositiva, sintetizzata in tre filoni a seconda che vengano enfatizzati i conflitti di interessi tra i livelli di governo nella definizione del valore sociale della produzione, la limitata credibilità delle politiche governative in direzione dell'efficienza, oppure un comportamento che tende al perseguimento dei propri interessi da parte dei vari attori istituzionali (elettori, politici, managers, sindacati).

b) Conflitto di interessi e asimmetria informativa

Carl Shapiro e Robert D. Willig (v., 1990) dispongono la struttura decisionale di produzione su tre livelli gerarchici: il parlamento, il ministro o un'Autorità e l'impresa. In caso di impresa pubblica, le informazioni sulla tecnologia dell'impresa e sulle caratteristiche della domanda sono detenute dall'impresa e direttamente osservate dal ministro competente che decide se e quanto investire nell'impresa, nonché il livello di produzione, da cui la 'collusione' implicita tra i due livelli decisionali. Le informazioni sui benefici sociali dell'impresa e sugli effetti esterni generati dalla sua produzione sono detenute simultaneamente dal primo e secondo livello gerarchico. Il parlamento è 'benevolente' in quanto persegue la massimizzazione di una funzione del benessere sociale, ma il ministro la corregge sovrapponendo suoi specifici interessi di politico, la cui realizzazione dipende dal grado di discrezionalità a sua disposizione. In caso di impresa privata regolamentata, la funzione di regolatore è svolta da un'Autorità che non è in grado di osservare compiutamente le variabili aziendali. Sono i proprietari che adesso decidono l'attivazione dell'impresa, incentivati da un contratto proposto dal regolatore. Anche gli obiettivi di quest'ultimo ricomprendono una 'agenda' privata, che riflette la capacità del potere politico di condizionare l'azione dell'Autorità, quindi il suo grado di indipendenza. Tuttavia, le conseguenze di questa distorsione sono adesso depotenziate, dato che la privatizzazione neutralizza la discrezionalità del regolatore attraverso la concessione di autonomia informativa ai proprietari, una parte non controllata né inserita nel settore pubblico. La separazione tra politica e gestione aziendale viene quindi modellata con la costituzione di una 'barriera informativa', di modo che il cost-benefit della privatizzazione confronta i costi dell'incentivazione con i benefici della riduzione della discrezionalità dei politici; una struttura logica, questa, comune anche a molti dei successivi contributi.

Sulla diversa natura del conflitto di interessi tra azionisti e managers nei due assetti proprietari si concentra una serie di lavori apparsi nella prima metà degli anni novanta. Ellen M. Pint (v., 1991) assume che l'impresa pubblica tenda a soddisfare in vario modo i membri della sua costituency (utenti, managers e lavoratori) e l'impresa privata, invece, a massimizzare il profitto sotto il vincolo di una regola dinamica di adeguamento tariffario, come il price-cap. L'asimmetria informativa comporta fenomeni sia di selezione avversa che di azzardo morale. Tanto l'impresa pubblica che la privata regolamentata sono x-inefficienti in quanto pervengono a un rapporto capitale/lavoro distorto (a favore del capitale nell'impresa privata e a favore del lavoro nell'impresa pubblica). Ma l'inefficienza dell'impresa pubblica è maggiore, dato che tende anche a offrire, rispetto alla privata, una più elevata rendita informativa al manager sotto forma di spese inutili o sprechi, mentre è relativamente più efficiente dal punto di vista allocativo.

Risultati di questo tipo, fondati sulla diversità delle funzioni obiettivo, sono però condizionati dalla struttura ad hoc dei modelli esaminati. Gianni De Fraja (v., 1993) propone, ad esempio, un modello altrettanto logico in cui il conflitto sugli obiettivi fa sì che l'efficienza produttiva possa essere più elevata in caso di impresa pubblica. Invece, John E. Roemer e Joaquim Silvestre (v., 1992), con un modello che contempla asimmetria informativa solo di selezione avversa, mostrano che l'impresa privata regolamentata è sempre superiore all'impresa pubblica se questa è distorta a favore dei lavoratori più di quanto non lo sia nei confronti degli utenti.

c) Limiti di impegno e credibilità del governo

Se alcune grandezze non sono verificabili e quindi contrattabili, il governo può risultare non credibile nella politica di regolamentazione volta al massimo benessere. Per isolare questo aspetto, Laffont e Tirole (v., 1991 e 1993) immaginano un decisore pubblico 'benevolente', cioè non condizionato da alcuna 'agenda' privata, che si dichiara disposto a legarsi le mani con la privatizzazione pur di conseguire il massimo benessere. Si deve realizzare un progetto con un dato valore sociale e un costo osservato dalla proprietà ex post, ma senza sapere se determinato dalla vera tecnologia o da comportamenti di azzardo morale del manager. Questi può attuare un investimento in capitale umano di natura non recuperabile, con realizzazione e benefici non verificabili. L'investimento può avere benefici interni per il manager, nel senso che consegue un rendimento superiore al costo ed egli può appropriarsi della differenza, oppure, alternativamente, può produrre benefici esterni per la società, nel senso che l'investimento può essere, una volta attuato, 'assegnato' a compiti diversi, per finalità sociali. Con la proprietà pubblica il manager è incentivato a non effettuare l'investimento, in quanto l'impegno da parte del governo a non espropriarlo ex post non è credibile. Con la proprietà privata, invece, l'impegno è credibile, dato che gli azionisti non hanno alcun interesse a distogliere l'investimento del manager dalle finalità proprie. L'aumento di surplus che ne deriva costituisce il beneficio della privatizzazione, mentre il costo è dato, anche in questo caso, dall'introduzione di una barriera informativa e di uno schema di incentivazione per i proprietari che, a loro volta, disegnano un contratto incentivante per il manager.

Sempre sulla credibilità del regolatore si sofferma Karl Schmidt (v., Incomplete contracts ..., e The costs ..., 1996). Un governo benevolente inizialmente decide se detenere (nazionalizzazione) o cedere (privatizzazione) un'impresa pubblica. Successivamente, il manager sceglie una variabile di sforzo non osservabile che dà luogo a un investimento in capitale umano cost reducing e che influenza la probabilità del verificarsi di due alternativi stati del mondo ('buono' e 'cattivo') per le performances dell'impresa. All'inizio il proprietario e il manager osservano la realizzazione dello stato del mondo, non verificabile all'esterno. Pertanto, nello stadio successivo alla nazionalizzazione, sono il governo e il manager a osservare il relativo parametro, mentre, dopo la privatizzazione, solo il manager lo osserva e il governo conosce solo la distribuzione di probabilità (influenzata dallo sforzo). I vantaggi e i costi sociali dell'impresa pubblica sono associabili a una maggiore informazione e a una minore credibilità dei comportamenti sanzionatori. Il governo osserva la realizzazione dello stato del mondo (e ciò non costa in termini di rendita informativa); tuttavia, la minaccia di sanzionare il manager tagliando i sussidi e riducendo la produzione (o perfino chiudendo l'impresa) non è credibile: una volta che il governo ha osservato il cattivo stato del mondo (influenzato dallo sforzo) è ottimale 'perdonare' i costi elevati e portare comunque la produzione al livello efficiente dal punto di vista allocativo. Sapendo questo il manager, poiché desidera un alto livello di produzione per motivi di potere (il cosiddetto 'effetto Niskanen'), è incentivato a non contenere i costi con adeguati investimenti. I benefici e i costi dell'impresa privata, invece, sono associabili, da un lato, a una maggiore credibilità e, dall'altro, a una minore informazione e quindi a una riconosciuta rendita al proprietario. La privatizzazione risulta, pertanto, tanto più conveniente quanto più è importante l'investimento cost reducing del manager, quanto più elevato è l'effetto Niskanen nel 'cattivo' stato del mondo e minore è il beneficio sociale della produzione, per cui non risulta rilevante la distorsione determinata dal meccanismo di incentivazione.

Anche secondo Oliver D. Hart, Andrei Shleifer e Robert W. Vishny, in un contesto di incompletezza contrattuale la riallocazione dei diritti di controllo, modificando i termini con cui si esplica l'autorità di governo dell'impresa, può influenzarne le performances (v. Hart e altri, 1997). Il loro presupposto teorico è che gli investimenti non recuperabili in innovazione di costo e di qualità generano un conflitto: a una riduzione dei costi si accompagna una riduzione della qualità. La proprietà pubblica non incentiva il manager ad accrescere la qualità e soprattutto a contenere i costi, dato che riceve una frazione limitata dei rendimenti dei rispettivi investimenti. Appropriandosi di una quota maggiore di questi ultimi, il manager di un'impresa privata è, invece, indotto a effettuare entrambi gli investimenti: con minori costi e con maggiore qualità (più elevato prezzo) avrà maggiori profitti. Tuttavia, generalmente egli produce una riduzione eccessiva dei costi a scapito della qualità. Mentre i costi con la proprietà privata regolata sono certamente inferiori, la qualità può essere sia inferiore che superiore, per cui, per appurare quale assetto proprietario sia dominante, occorre acquisire informazioni su questo secondo aspetto.

d) Il contributo della teoria della political economy

Questa teoria in generale si propone di rendere 'endogene' le decisioni di politica economica dei governi modellando plausibili regole di comportamento dei vari attori istituzionali, come elettori, politici, managers e sindacati (v. Persson e Tabellini, 2000). È quindi logico che anche decisioni in merito alla dismissione di imprese di proprietà pubblica siano state recentemente investigate in questo contesto teorico (v. Shleifer, 1998).

Boycko e altri (v., 1996) spiegano il concetto di 'agenda' privata dei politici in termini di diritti di controllo sull'impiego di lavoro, argomentando che con la privatizzazione si attua una riallocazione di tali diritti dai politici ai managers. I vantaggi sociali derivano dal fatto che per i politici diviene più costoso, soprattutto in caso di uno stretto vincolo di bilancio pubblico, sussidiare un'impresa privatizzata affinché sopporti esuberi di mano d'opera di quanto non fosse impiegare a tal fine i profitti di un'impresa pubblica rinunciando a trasferirli al Tesoro. Nel primo caso, infatti, l'assegnazione dei fondi pubblici deve essere contrattata con diversi ministri e non solo con quello responsabile delle entrate.

I. J. Alexander Dyck (v., 1997), prendendo le mosse dall'esperienza della Germania dell'Est, sostiene che i benefici della privatizzazione possono essere associati alla formazione di un efficiente mercato dei managers. I processi di liberalizzazione e sviluppo della concorrenza possono essere considerati come veicoli per accelerare i necessari processi di ristrutturazione industriale, sotto forma di riduzione degli esuberi, riqualificazione del personale, acquisizione di tecniche a maggiore intensità di capitale e controllo di gestione, politiche di marketing, ecc. Le possibilità di introdurre tali innovazioni sono condizionate dalla capacità della proprietà di assumere managers forniti dei necessari requisiti, di cui generalmente difettano i managers pubblici. Se i proprietari privati possono raccogliere e utilizzare informazioni sui managers, in genere non disponibili per i soggetti che non ricorrono abitualmente a questo mercato, ne consegue che il governo, nel momento in cui assume managers con compiti di ristrutturazione, agisce come un agente non informato, soggetto a selezione avversa e non in grado di far corrispondere al compenso che offre un'adeguata capacità manageriale. Dyck mostra che, se il numero delle imprese da ristrutturare è non trascurabile, si perviene, in condizioni di equilibrio del gioco, a una sottodotazione delle capacità manageriali, per cui un processo di privatizzazione che preceda, invece di seguire, la ristrutturazione può consentire di superare questa difficoltà di accesso al mercato dei managers.

Dieter Bös (v., 2000) mette in risalto anche l'azione dei sindacati, modellando la decisione di privatizzare come un gioco cooperativo tra questi, il governo e gli azionisti privati. Tutti i giocatori sono consapevoli che la privatizzazione aumenta l'efficienza dell'impresa, ma solo il manager, collegato da un contratto agli azionisti, conosce esattamente le variabili tecnologiche e di domanda rilevanti, per cui orienta l'esito a suo favore.

Laffont (v., 2000) immagina due tipi di consumatori-elettori, il secondo dei quali è proprietario delle azioni dell'impresa. Se questo tipo costituisce anche la maggioranza degli elettori, il suo potere di appropriazione della rendita informativa è lo stesso che avrebbe con un'impresa pubblica, essendo classe sociale al governo, per cui la scelta tra i due assetti proprietari sarebbe indifferente. Nel caso in cui, invece, la maggioranza politica fosse rappresentata dal tipo 1, questi sarebbe indotto a non riconoscere una rendita all'altro, proprietario dell'azienda, e pertanto il livello di produzione risulterebbe inferiore a quello che si avrebbe con la proprietà pubblica dell'impresa, quando lui stesso percepirebbe la rendita. Laffont dimostra che, in termini di benessere sociale, la proprietà pubblica è sempre dominante quando il fenomeno dell'asimmetria informativa del regolatore nei confronti dell'impresa non è rilevante e quindi risulta trascurabile il livello della rendita informativa da riconoscere al proprietario. Il passaggio alla proprietà privata diviene invece via via più desiderabile al crescere dell'asimmetria informativa e quando i due tipi di individui sono moderatamente differenziati e la popolazione equidistribuita.

Analogo è il contesto politico istituzionale analizzato da Bruno Biais ed Enrico Perotti (v., 2002), i quali modellano una società bipolare in cui prevale l'alternanza politica tra due partiti, uno conservatore e uno progressista. La razionalità del processo di privatizzazione risiede, ora, nel ruolo strategico che esso può svolgere a fini elettorali. Questi autori mostrano, in linea con l'evidenza empirica, che perfino quando gli elettori della classe media sono disponibili a sostenere le politiche redistributive care alla sinistra, una volta che diventano proprietari di un ammontare significativo di azioni di imprese pubbliche privatizzate le loro preferenze si spostano verso il partito conservatore, con politiche più orientate al mercato. Il motivo non è ideologico, ma semplicemente legato al fatto che le politiche redistributive possono deprimere il valore di mercato delle loro azioni. Anche Schmidt (v., 2000) perviene al risultato che le privatizzazioni tolgono supporto politico alla redistribuzione, ma Biais e Perotti mostrano in più che una 'machiavellica' politica di underpricing induce gli elettori della classe media a ulteriori acquisti di azioni di società privatizzate e quindi, alla fine, a votare per i partiti di destra.

e) Quadro sinottico riassuntivo

La tabella alla pagina precedente riassume i principali filoni e le diverse posizioni teoriche in merito alle decisioni di privatizzazione esaminate nel presente articolo.

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