Procreazione assistita

Libro dell'anno del Diritto 2015

Procreazione assistita

Vincenzo Tigano

A un decennio dal suo ingresso nel nostro ordinamento, la legge 19.2.2004, n. 40 sulla procreazione medicalmente assistita (PMA) ha progressivamente assunto una conformazione differente rispetto alla sua stesura originaria. Tali mutamenti non sono stati il frutto di riforme legislative ma hanno preso forma in seguito alle sentenze della Consulta, più volte chiamata a decidere sulla legittimità costituzionale di quei divieti che, pur mirati a tutelare il concepito, hanno compresso irragionevolmente i diritti delle coppie intenzionate a concepire un figlio. In questo percorso, ha assunto rilevanza il “dialogo” tra la Corte costituzionale e la Corte europea dei diritti dell’uomo, a sua volta spesso chiamata a valutare se i divieti in materia di PMA costruiscano una necessaria ingerenza del legislatore nel diritto

alla vita privata e familiare dei cittadini ricorrenti.

La ricognizione. La riscrittura giurisprudenziale della legge 40

Il percorso di restyling giurisprudenziale della legge n. 40/2004 da parte della Corte costituzionale ha avuto inizio con la sentenza dell’8.5.2009, n. 151, intervenuta sui commi 2 e 3 dell’art. 14 della stessa legge ampliando il potere decisionale del medico nell’esecuzione delle tecniche procreative, per meglio tutelare la salute della donna a esse ricorrente. Con la sentenza del 10.6.2014, n. 162, la Consulta ha dichiarato incostituzionale anche il divieto di fecondazione eterologa, così intendendo garantire un più ragionevole bilanciamento tra la tutela dei diritti del nascituro e la tutela del diritto alla procreazione delle coppie.

Prima dell’intervento della Corte, l’art. 4, co. 3, della legge n. 40/2004 vietava il ricorso a tecniche procreative di tipo eterologo e l’art. 12, co. 1, puniva con la sanzione amministrativa da trecentomila a seicentomila euro chiunque utilizzasse gameti estranei alla coppia ricorrente alla PMA per fini procreativi.

La stessa formulazione della fattispecie e la causa di esclusione dalla punibilità a favore della coppia ricorrente prevista dal co. 8, chiarivano che l’illecito era realizzabile soltanto dal medico o dal personale sanitario che eseguissero la vietata tecnica di fecondazione; a loro carico era inoltre applicabile la sanzione accessoria della sospensione da uno a tre anni dall’esercizio della professione (co. 9). In questo rigido quadro proibitivo si inseriva, tuttavia, l’art. 9, norma con cui il legislatore, profetizzando l’ineffettività del divieto conseguente al già diffuso fenomeno del “turismo procreativo”1, aveva disciplinato gli effetti civilistici dell’esecuzione della pur proibita fecondazione eterologa, recidendo a monte ogni relazione parentale del nato con il donatore di gameti (co. 3) e precludendo al ricorrente di disconoscere la paternità del figlio nato in seguito a una PMA eterologa mediante donazione di spermatozoi (co. 1).

La Consulta – sulla base delle ordinanze di rimessione dei Giudici di Milano, di Catania e di Firenze – ha dichiarato l’incostituzionalità degli articoli 4, co. 3, 9, co.1 e 3, limitatamente alle parole «in violazione del divieto di cui all’articolo 4, comma 3», e 12, comma 1, della legge n. 40 del 2004, in quanto contrastanti con gli articoli 2, 3, 29, 31 e 32 della legge fondamentale, parametri costituzionali in cui la Corte ha inquadrato il diritto alla procreazione.

Con la pubblicazione della sentenza costituzionale n. 162/2014, la fecondazione eterologa è divenuta legalmente realizzabile nell’ordinamento italiano. Poco dopo, la conferenza delle Regioni ha predisposto una prima regolamentazione del processo di donazione dei gameti, finalizzata a tutelare gli interessi dei donatori, dei beneficiari e del nascituro.

2.1 L’incostituzionalità del divieto di PMA eterologa

Già prima dell’intervento della Consulta, dottrina e giurisprudenza erano concordi nell’attribuire un rilievo costituzionale all’interesse dell’individuo alla procreazione, riconducendolo ora al diritto a formare una famiglia, ora al diritto alla salute2.

La dottrina maggioritaria aveva poi messo in discussione la ragionevolezza del divieto di PMA eterologa sia sotto il profilo della discriminazione prodotta nei confronti dei soggetti affetti da una condizione di assoluta infertilità – di fatto superabile soltanto mediante l’utilizzo di un gamete estraneo alla coppia3 – sia sotto il profilo del mancato perseguimento di un interesse meritevole di tutela giuridica.

La dissociazione tra la filiazione genetica e quella sociale, che sarebbe conseguita all’utilizzo del gamete di un donatore esterno, non avrebbe potuto essere repressa come violazione della fedeltà coniugale, mero valore depauperato di rilievo giuridico in seguito alla dichiarata incostituzionalità del delitto di adulterio4, e comunque intrinsecamente estraneo alla PMA eterologa, in cui l’intromissione del terzo nella coppia avviene solo “virtualmente”, mediante l’artificiale fusione del suo gamete con quello di uno dei due partners. Non sarebbe stata nemmeno ravvisabile un’offesa alla dignità della generazione umana5, dato che, per questa via, si sarebbe sostanzialmente pervenuti a tutelare un presunto interesse collettivo alla “naturalità della procreazione”, poco compatibile con il principio di laicità6. Qualche studioso aveva poi giustificato il divieto con la necessità di tutelare il benessere psichico del concepito, pregiudicato dall’artificiale scissione tra genitorialità genetica e sociale7: a tale osservazione si era obiettato che non esistono prove scientifiche circa l’effettività del denunciato pregiudizio8; che l’istituto giuridico dell’adozione determinerebbe gli stessi problemi, ivi tuttavia tollerati9; e, soprattutto, che risulterebbe irrazionale vietare la pratica che consente il venire in essere dell’individuo, pur di tutelarne i diritti10. In tale direzione, la difficoltà di individuare un bene giuridico a fondamento del divieto aveva indotto alcuni studiosi a lamentare anche una carenza di offensività dell’illecito di cui all’art. 12, co. 111.

Altro punctum dolens era individuato nell’entità della sanzione comminata al medico dall’art. 12, co. 1, per l’esecuzione della vietata tecnica procreativa: pur trattandosi formalmente di un illecito amministrativo pecuniario, la sanzione compresa tra un mimino edittale di trecentomila euro e un massimo di seicentomila euro era stata etichettata come sproporzionata, afflittiva e punitiva, e quindi sostanzialmente più vicina agli illeciti penali che agli illeciti amministrativi meramente reintegratori, ma formalmente priva di alcune delle garanzie penalistiche essenziali, sul piano sostanziale ma soprattutto processuale12.

A questi rilievi interpretativi, si aggiungano anche quelli emergenti dalla sentenza della Grande Camera della Corte di Strasburgo nel caso S.H. e altri c. Austria, in cui la Corte europea, pur non rilevando un contrasto tra il similare divieto di fecondazione eterologa contenuto nella legislazione austriaca e il diritto alla vita privata e familiare stabilito dall’art. 8 della CEDU, ha sottolineato che le legislazioni nazionali emanate nell’ultimo decennio devono avere tenuto conto dei mutamenti della scienza e del consenso sociale frattanto maturati, elementi “dinamici” la cui considerazione potrebbe produrre delle ripercussioni sull’esito di un eventuale ulteriore giudizio della Corte concernente le medesime questioni13.

Venendo a esaminare l’impatto sortito dalla sentenza costituzionale, appare chiaro che la Consulta ha accolto le istanze della dottrina, riconducendo il diritto alla procreazione sia al diritto di formare una famiglia «che abbia anche dei figli», sia al diritto alla salute psichica dell’individuo. Compiendo un giudizio di ragionevolezza, la Corte costituzionale ha poi sindacato la legittimità costituzionale del divieto di PMA eterologa sotto il profilo della proporzionalità dei

mezzi scelti per perseguire lo scopo di tutela. Così, rilevato che l’unico controinteresse che possa avere giustificato il divieto sia quello del nascituro all’inserimento in un modello familiare che possa garantirne il benessere psicofisico, la Corte ha richiamato le disposizioni della legge n. 40/2004 che, poste a disciplina della PMA in generale, si rivelerebbero idonee ad apprestare delle adeguate garanzie a tale interesse, anche nel caso che si tratti di PMA eterologa. Tra queste, risaltano gli artt. 5, 8 e 9 – norma, quest’ultima, specificamente volta a disciplinare gli effetti civilistici della PMA eterologa –,mediante la cui applicazione troverebbe soddisfacimento il preteso interesse del nascituro alla doppia figura genitoriale; e l’art. 12, co. 6, in cui viene punito come delitto il commercio di gameti che, dunque, potranno essere lecitamente forniti dal donatore soltanto a titolo gratuito.

La Corte costituzionale è così pervenuta a negare che il divieto assoluto della fecondazione eterologa costituisca l’unico mezzo necessario per garantire la protezione del nascituro, ravvisando un irragionevole bilanciamento degli interessi in gioco.

La questione relativa all’illegittimità della previsione dell’art. 12, co. 1 – sia sotto il profilo della carenza di offensività dell’illecito amministrativo14, ex art. 25, co. 2, Cost. sia sotto quello della sproporzione della stessa sanzione comminata, ex art. 27, co. 3, Cost.15 – non è stata invece prospettata dai giudici rimettenti e quindi neanche affrontata dalla Consulta, risultando in definitiva assorbita nel giudizio sulla ragionevolezza del divieto di cui all’art. 4, co. 3.

Per quanto riguarda l’influenza prodotta dalla Corte di Strasburgo, va rilevato che – pur non essendo stati richiamati espressamente i fattori “dinamici” invocati dalla citata sentenza della Grande Chambre, e pur non essendo stata accolta la questione relativa al contrasto con l’art. 117 Cost.16 (parametro di rinvio all’art. 8 CEDU) – la decisione della Consulta lascia intravedere una sostanziale registrazione dell’evoluzione della coscienza sociale che, riconoscendo diffusamente il valore della procreazione, si mostra sempre più restia ad disapprovare le pratiche procreative artificiali, almeno nella misura in cui garantiscano al minore la presenza di una famiglia stabile.

2.2 La disciplina da applicare alla donazione di gameti

Molto dibattuta tra le forze politiche, successivamente all’emissione della pronuncia della Consulta, è stata la questione relativa alla disciplina da apprestare alla donazione di gameti. Dopo lunghi dissidi, la conferenza delle Regioni e delle Province autonome ha prodotto, il 4.9.2014, un documento (14/109/CR02/C7SAN) contenente delle linee guida in materia per garantire, a livello nazionale, regole omogenee. Ivi sono stabiliti i principi di gratuità e volontarietà delle donazioni, nonché i criteri generali di scelta clinica dei donatori, fondati sull’età, sul loro stato generale di salute e sull’assenza di malattie cromosomiche e infettive, da comprovare mediante specifiche analisi di laboratorio. I rischi derivanti dalla stimolazione ovarica sono stati considerati come necessario oggetto dell’informativa funzionale alla prestazione del consenso da parte delle donatrici di ovociti.

Rileva, poi, il capitolo ove, pur garantendosi la compatibilità delle principali caratteristiche fenotipiche del donatore e dei riceventi, viene negata ai ricorrenti la possibilità di procedere a una vera e propria scelta del donatore, per evitare possibili derive eugenetiche.

È prevista la regola dell’anonimato del donatore, la cui unica deroga consiste nella possibilità di rendere noti al personale sanitario i dati clinici dello stesso, in caso di problemi di salute del nascituro.

Va infine garantito un limite massimo di dieci nascite conseguenti all’utilizzo dei gameti di uno stesso donatore, per evitare il rischio di futuri rapporti inconsapevolmente “incestuosi” tra consanguinei.

Le predette linee guida potranno integrare, a livello penale, delle discipline a contenuto precauzionale idonee a fondare la responsabilità colposa dei sanitari nel caso in cui si verifichi un evento delittuoso causalmente ricollegabile all’inosservanza di esse:17 si pensi, ad esempio, al contagio alla donna ricorrente o allo stesso nascituro di una malattia infettiva del donatore, non rilevata in sede diagnostica a causa del comportamento negligente o imperito del personale sanitario addetto all’effettuazione delle analisi prescritte.

Si attende, quindi, l’emanazione di una legge che recepisca tutti o alcuni dei contenuti dell’accordo interregionale, eventualmente apponendo delle sanzioni amministrative o penali in caso di violazione dei divieti e degli obblighi indicati, in cui spesso emerge una ratio di tutela sia di funzioni amministrative sia di beni giuridicamente rilevanti. Così avviene, ad esempio, nel Codice penale francese, in cui sono puniti la selezione del donatore di gameti (art. 214-1 c.p. fr.), considerata una pratica eugenetica, e la rivelazione dell’identità del donatore e dei beneficiari (art. 511-10 c.p. fr.), in cui si ravvisa una violazione del diritto alla riservatezza.

I profili problematici. I divieti della legge 40 dinanzi alla Consulta

L’anno 2014 ha segnato – e il 2015 potrebbe segnare – nuovi scenari per la legge n. 40/2004. Dopo la sentenza n. 162/2014, con cui è stato dichiarato incostituzionale il divieto di fecondazione eterologa, infatti, si attendono le pronunce con cui la Corte deciderà circa la legittimità dei divieti inmateria di accesso alle tecniche procreative, di revoca del consenso alla PMA e di sperimentazione sugli embrioni.

3.1 L’accesso alla PMA dei soggetti con malattie genetiche

Il Tribunale di Roma, con un’ordinanza del 14.1.2014, ha rimesso alla Consulta la questione di legittimità degli artt. 1, co. 1 e 2, e 4, co. 1, della l. n. 40/2004 per contrasto con gli artt. 2, 3, 32 e 117 della Costituzione. Le predette disposizioni di legge – che, non presidiate da alcuna sanzione, possono al più fondare una regola cautelare positivizzata per il medico – limitano l’applicabilità delle tecniche procreative ai soli soggetti affetti da sterilità o infertilità accertata o idiopatica, con esclusione quindi dei soggetti affetti da malattie cromosomiche, che potrebbero evitarne la probabile trasmissione alla prole soltanto mediante il ricorso alla PMA e la conseguente applicazione della diagnosi genetica preimpianto (DGP).

Qualora la Consulta ritenesse fondate le eccezioni sollevate dal giudice a quo, potrebbe emettere una sentenza additiva con cui dichiarare le norme denunciate costituzionalmente illegittime nella parte in cui non includono tra i presupposti di accesso alla PMA la presenza, in capo ad almeno uno dei partners, di una malattia ereditaria trasmissibile alla prole; oppure una sentenza di parziale accoglimento con cui dichiararle incostituzionali limitatamente alle parti in cui fanno riferimento alla sterilità o alla infertilità umana: in tal modo, l’accesso alla PMA rimarrebbe consentito alle coppie generalmente affette da problemi riproduttivi, così lasciando spazio al potere discrezionale del medico, in linea con quanto già avvenuto con la sentenza n. 151/2009.

Un’ordinanza del Tribunale di Roma del 23.9.2013 sembrerebbe aver “preceduto” l’intervento della Consulta, dando immediata esecuzione alla sentenza Costa e Pavan c. Italia del 28.8.2012, con cui la Corte di Strasburgo aveva giudicato l’art. 4, co. 1, in contrasto con l’art. 8 CEDU: il Tribunale, che ha giustificato il suo operato parandosi dietro il disposto dell’art. 46 CEDU, ha fondato il valore immediatamente precettivo attribuito alla Convenzione sull’art. 11 Cost.18, in contraddizione con quanto ormai pacificamente affermato dalla Consulta a partire dalle sentenze 24.10.2007, n. 348 e 34919. Tali pronunce, disconoscendo l’assimilabilità della CEDU alle fonti dell’UE, hanno negato la diretta applicabilità negli ordinamenti statali delle disposizioni convenzionali20, e quindi il potere dei giudici ordinari di disapplicare automaticamente le norme interne contrastanti; queste devono invece essere sottoposte al giudizio della Consulta - laddove non risulti previamente effettuabile un’interpretazione convenzionalmente conforme - sollevando questione di illegittimità per violazione dell’art. 117, parametro costituzionale “di rinvio” alle norme convenzionali.

Al di là delle possibili giustificazioni apponibili a questa “eccentrica” pronuncia del Tribunale di Roma – legate al soddisfacimento dell’interesse dei ricorrenti a ottenere un’immediata tutela del proprio diritto attraverso la diretta esecuzione giudiziale di una sentenza definitiva della Corte di Strasburgo per un giudizio ivi incardinato dallo stesso ricorrente per il medesimo caso particolare 21 – non sembra legittima l’avvenuta disapplicazione del diritto interno. Così facendo, il Tribunale non ha rispettato la ripartizione di competenze tra giudici ordinari e giudici costituzionali né la gerarchia delle fonti delineata dalle sentenze gemelle, che vede le disposizioni della CEDU come norme sub-costituzionali, inidonee a incidere sull’efficacia di una norma interna contrastante senza un previo giudizio

della Consulta.

3.2 L’irrevocabilità del consenso prestato alla PMA

Un’ordinanza del Tribunale di Firenze del 7.12.2012 ha chiamato la Consulta a decidere sul contrasto tra l’art. 6, co. 3, della legge 40 e gli artt. 2, 3, 13 e 32 della Costituzione, sul presupposto che la norma, che consente alla coppia ricorrente di revocare il consenso fino al momento della fecondazione dell’ovocita, sia fonte dell’obbligo alla prosecuzione dei trattamenti procreativi, pur in assenza delle condizioni legittimanti un TSO o di una situazione di urgenza per la salute del paziente22.

Sarebbe senz’altro incostituzionale una disposizione che imponga al medico il trasferimento degli embrioni, ormai prodotti, nell’utero materno: così, infatti, alla tutela del concepito verrebbe attribuito un peso tale da comprimere completamente il diritto alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione dell’aspirante madre23, con evidente contraddizione con quanto stabilito dalle sentenze costituzionali 17.2.1975, n. 27 e n. 151/2009 e con quanto previsto dalla legge 22.5.1979, n. 194, nonché dalla stessa legge 40, agli artt. 1, co. 1, e 14, co. 3 e 5. Invero, il consenso del paziente al trattamento medico deve essere manifestato al momento del perfezionamento del contratto con la struttura sanitaria operante gli interventi di PMA e perdurare in ogni fase della relazione terapeutica24, come d’altronde si evince anche dal dettato del co. 1 dell’art. 6.

Occorre, dunque, stabilire se la funzione della disposizione sia effettivamente quella denunciata dalGiudice rimettente o se, invece, non sia possibile individuarne uno scopo diverso, conforme ai principi costituzionali. In tale direzione, la Consulta potrebbe rigettare la questione interpretando l’irrevocabilità del consenso di cui all’art. 6, co. 3, come garanzia di certezza dello stato civile del nascituro25 – così evidenziando il collegamento della disposizione con l’art. 8 che attribuisce la responsabilità genitoriale alla coppia che abbia manifestato il suo consenso a ricorrere alla PMA – e non come obbligo di procedere al trasferimento in utero dell’embrione.

L’interpretazione proposta risulterebbe coerente con l’art. 32 Cost., oltre che con quanto disposto dai co. 1 e 2 dell’art. 9 della stessa legge 40: il primo vieta al partner della ricorrente a una PMA eterologa, «il cui consenso è ricavabile da atti concludenti», di esercitare l’azione di disconoscimento di paternità; il secondo impedisce alla stessa donna sottopostasi – evidentemente manifestando il suo consenso – all’intervento procreativo di dichiarare la volontà di non essere nominata.

3.3. Il divieto di sperimentazione sugli embrioni

Con la medesima ordinanza, il Tribunale di Firenze ha anche sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 13, che vieta la sperimentazione su ciascun embrione umano punendo la sua realizzazione con la reclusione da due a sei anni e con la multa da 50.000 a 150.000 euro. La norma sarebbe in conflitto con la libertà della ricerca scientifica, ex artt. 9 e 33 Cost., e con la tutela della salute collettiva che potrebbe beneficiare dei risultati ottenuti dalla ricerca, ex art. 32. Nello specifico, il giudice rimettente ha denunciato l’irragionevolezza di un divieto che, per la sua assolutezza, impedirebbe persino la sperimentazione sugli embrioni non più utilizzabili nel processo di PMA in quantomalati o non più sottoponibili a biopsia, così rilevando una sproporzione nel bilanciamento legislativo tra mezzi e scopi di tutela26. In questa ipotesi, posto il dovere del medico di non trasferire gli embrioni quando il loro impianto possa pregiudicare la salute dell’aspirante madre (art. 14, co. 3), gli embrioni ormai crioconservati non costituiscono altro che «esistenze in nuce destinate all’ibernazione perpetua»27, prive di una reale possibilità di venire al mondo.

Qualora la Consulta riscontrasse la denunciata irragionevolezza del divieto rispetto ai parametri costituzionali invocati, sarebbe preferibile – per ovviare all’“horror vacui” – l’emissione di una sentenza che dichiari costituzionalmente illegittimo l’art. 13, co. 1, nella parte in cui non specifica che il divieto debba essere riferito soltanto alla sperimentazione sugli embrioni umani ancora efficacemente impiegabili a fini procreativi, senza pregiudizio per la salute della futura madre.

Va inoltre rilevato che la medesima disposizione di legge si trova attualmente al vaglio anche della Corte europea dei diritti dell’uomo. Nel caso Parrillo c. Italia, il divieto di destinare gli embrioni alla ricerca sperimentale è stato considerato dalla ricorrente (la madre genetica) come una violazione del diritto di proprietà (art. 1 del Protocollo 1 della Convenzione) e del proprio diritto alla vita privata (art. 8 CEDU).

Rispetto all’art. 1, la decisione della Corte di Strasburgo sarà condizionata dalla scelta se identificare l’embrione come un bene oggetto della proprietà dei soggetti generanti, prospettiva ideologica avversata dagli studiosi che attribuiscono al concepito, fin dal momento della fecondazione dell’ovulo, lo status di persona umana intesa anche come soggetto di diritto28.

Con riguardo all’art. 8, l’esito del giudizio sarà legato al significato da assegnare al già esteso concetto di “vita privata”29, ivi delineato dalla ricorrente come diritto di decidere la destinazione delle proprie componenti biologiche dotate di vitalità. Nella sentenza non potrà non entrare in gioco, poi, il giudizio di proporzione tra la compressione legislativa di tale diritto e lo scopo di tutelare gli interessi riconosciuti meritevoli di protezione dall’art. 8, par. 2, tra cui potranno emergere i diritti del concepito e la pubblica morale; oltre che l’eventuale riconoscimento del margine di apprezzamento statale nell’apposizione di un limite legislativo alla vita privata, la cui ampiezza potrà essere determinata dalla rilevanza delle questioni etiche sollevate e dal consenso riscontrabile sulla questione tra gli Stati membri.

1 Sul punto, si veda Dolcini, E., La procreazione medicalmente assistita: profili penalistici, in Canestrari, S.-Ferrando, G.-Mazzoni, C.M.-Rodotà, S.-Zatti, P., a cura di, Il governo del corpo, vol. II, del Trattato di biodiritto, diretto da S. Rodotà e P. Zatti, Milano, 2011, 1596.

2 Nel primo senso, si veda C. cost., 24.7.2000, n. 332. In dottrina, cfr. Canestrari, S., Procreazione assistita: limiti e sanzioni, in Dir. pen. e processo, 2004, IV, 419; Vallini, A., Illecito concepimento e valore del concepito, Milano, 2012, 102 ss.;Manna, A., La tutela penale della vita in fieri, tra funzione promozionale e protezione di beni giuridici, in Legisl. pen., 2005, 3, 345.

3 Così Vallini, A., Illecito concepimento, cit., 96, 103.

4 C. cost., 19.12.1968, n. 126; 3.12.1969, n. 147. Lo rileva Dolcini, E., Il divieto di fecondazione Assistita ’eterologa’… in attesa di giudizio, in Dir. pen. e processo, 2011, III, 355.

5 Interesse chiamato in causa da Eusebi, L., La vita individuale precoce: soltanto materiale biologico?, in Legisl. pen., 2005, 3, 367.

6 In tal senso, Canestrari, S., op. cit., 419.

7 Cfr. Mantovani, F., Procreazione medicalmente assistita e principio personalistico, in Legisl. pen., 2005, 3, 326.

8 Si veda Forder, C., La procreazione assistita nel quadro dei diritti dell’uomo, in Pol. dir., 1999, 3, 368.

9 Così Risicato, L., Lo statuto punitivo della procreazione tra limiti perduranti ed esigenze di riforma, in Riv. it. dir. proc. pen., 2005, 2, 684, nota 26.

10 Cfr. Bartoli,R., La totale irrazionalità di un divieto assoluto. Considerazioni a margine del divieto di procreazione medicalmente assistita eterologa, in Riv. it. dir. proc. pen., 2011, 99 ss.

11 Così Risicato, L., Dal «diritto di vivere» al «diritto di morire»,Milano, 2008, 45, nota 151; Dolcini, E., Il divieto, cit., 356;Manna, A., Il divieto di fecondazione medicalmente assistita di carattere eterologo e il cd. “paternalismo penale”, in Riv. it. dir. proc. pen., 2013, 4, 1642.

12 Così Canestrari, S., op. cit., 418;Manna, A., Il divieto di fecondazione, cit., 1638, che, a tal proposito, ha richiamato la nozione di “materia penale” introdotta dalla C. eur. dir. uomo per assicurare un’estensione delle garanzie contemplate dagli artt. 6 e 7 della CEDU oltre i confini del diritto penale in senso formale: cfr., inter alios, C. eur. dir. uomo, 8.6.1976, Engel e altri c. Paesi Bassi; 21.2.1984, Oztürk c. Germania; 4.3.2014, Grande Stevens e altri c. Italia.

13 Nel caso di specie, la Corte non ha potuto tenere conto di tali elementi, avendo compiuto un giudizio “ora per allora”, rapportato al momento in cui i divieti costituirono oggetto di giudizio per la Corte costituzionale austriaca (il 1999): C. eur. dir. uomo, (GC), 3.11.2011, S.H. e altri c. Austria, § 84.

14 Cfr. Donini, M., Il principio di offensività. Dalla penalistica italiana ai programmi europei, in Dir. pen. cont., 2013, fasc. 4, 38, che, richiamandosi alla nozione di “matière penale” elaborata dalle Corti europee, ha affermato che «se la sanzione è intrinsecamente penale, ad essa dovrebbe corrispondere un “illecito” congruente (in termini di offensività e colpevolezza)».

15 Sulla riferibilità dell’art. 27 della Costituzione anche alle sanzioni amministrative, si vedaManes, V., I recenti tracciati della giurisprudenza costituzionale in materia di offensività e ragionevolezza, in Dir. pen. cont., 2012, fasc. 1, 107.

16 Soltanto il Tribunale di Milano ha sollevato la questione di legittimità costituzionale anche in relazione all’art. 117.

17 Cfr. Castronuovo, D.-Ramponi, L., Dolo e colpa nel trattamento medico-sanitario, in Belvedere, A.-Riondato, S., Le responsabilità in medicina, vol. IV del Trattato di biodiritto, cit., 972 ss.

18 Su questa linea, cfr. Lugato, M., Struttura e contenuto della Convenzione europea dei diritti dell’uomo al vaglio della Corte costituzionale, in www.giurcost.org, 3.12.2009, 8 ss.

19 Ma in tal senso si era già pronunciata precedentemente C. cost., 22.12.1980, n. 188.

20 Ma si veda Viganò, F., Il diritto penale sostanziale italiano davanti ai giudici della CEDU, in Giur. mer., n. 12, 2008, 100, che ha rilevato come le norme convenzionali siano direttamente applicabili nel nostro ordinamento, essendo state incorporate nella legge nazionale di autorizzazione alla ratifica, a meno che non vi sia un contrasto con altre disposizioni di legge interne. In tal senso, già Cass. pen., S.U., 23.11.1988, n. 1191.

21 Cfr. Cass., 24.6.2011, n. 19985. In dottrina, si veda Vallini, A., Ardita la rotta o incerta la geografia? La disapplicazione della legge 40/2004 “in esecuzione” di un giudicato della Corte EDU in tema di diagnosi preimpianto, in Dir. pen. cont., 2014, fasc. 2, 266 ss.

22 Si tratta dei casi che legittimano il medico a procedere all’intervento anche in assenza del consenso attuale del paziente: Cass. pen., 28.7.2011, n. 16543.

23 Il consenso informato del paziente al trattamento medico trova il suo fondamento costituzionale negli artt. 13 e 32 della Costituzione: C. cost., 23.12.2008, n. 438; Cass. pen., 11.7.2001, n. 35822.

24 Cfr. Cass., 15.1.1997, n. 364. In dottrina, cfr. Giunta, F., Il consenso informato all’atto medico tra principi costituzionali e implicazioni penalistiche, in Riv. it. dir. proc. pen., 2001, I, 384 ss.

25 Così Bozzi, L., Il consenso al trattamento di fecondazione assistita tra autodeterminazione procreativa e responsabilità genitoriale, in Europa e dir. priv., 2008, 1, 241.

26 In tal senso, in dottrina cfr. Canestrari, S., op. cit., 422; Tigano, V., La rilevanza penale della sperimentazione sugli embrioni tra la tutela del diritto alla vita e la libertà della ricerca scientifica, in Ind. Pen., 2011, 1, 54 ss.

27 Risicato, L., Dal «diritto di vivere», cit., 70.

28 Cfr. Mantovani, F., La fecondazione assistita tra il «diritto alla prole» e il «diritto ai due genitori», in Ind. Pen., 1990, 24, 421 ss.; Eusebi, L., op. cit., 359.

29 Il diritto al rispetto della vita privata e familiare può ricomprendere, inter alios, l’identità di genere, l’orientamento sessuale e la vita sessuale (C. eur. dir. uomo, 22.10.1981, Dudgeon c. United Kingdom; 11.7.2002, Goodwin c. United Kingdom); il diritto di autodeterminazione sulle scelte di finevita (C. eur. dir. uomo, 29.4.2002, Pretty c. United Kingdom); il diritto di avere o di non avere un figlio (C. eur. dir. uomo, 10.4.2007, Evans c. United Kingdom; (GC), 3.11.2011, S.H. and others c. Austria; 28.12.2012, Costa e Pavan c. Italia).

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