PROGRESSO

Enciclopedia Italiana (1935)

PROGRESSO

Guido Calogero

. L'evoluzione del concetto di progresso è naturalmente collegata in modo assai stretto a quella del concetto di storia: per i suoi presupposti generali v. storia. Il concetto del progresso si distingue peraltro da quello più generale della storia per la nota specifica dell'avanzamento o perfezionamento, che in esso appare intrinseca al divenire storico: è quindi possibile delineare, sullo sfondo della storia del concetto più vasto, il processo attraverso il quale si è venuto sempre meglio affermando il concetto più particolare.

Nel mondo classico, se l'idea dell'evoluzione storica è in generale respinta nell'ombra dalle opposte convinzioni di una necessità naturale dell'accadere e di un ritorno ciclico degli eventi, il concetto di un progresso umano deve a sua volta più particolarmente combattere contro la tradizione di una primitiva età dell'oro, a paragone della quale tutta la storia successiva si configura piuttosto come processo di decadenza. L'idea del costante peggioramento, che sta già a base del famoso mito esiodeo concernente le generazioni umane, continua di fatto a influire su tutta la cultura classica, la quale perciò, anche quando prospetta ideali o programmi di perfezionamento etico-politico, li sente insieme come possibilità di ritorno a epoche più antiche e luminose (persino Platone assegna, nel Crizia, a un'antichissima età storica il reggimento politico dei sapienti teorizzato nella Repubblica). A far contrasto, sia pure parziale, a questo atteggiamento dello spirito greco, interviene bensì il concetto, propugnato soprattutto nell'età della prima sofistica, di un progresso tecnico, realizzantesi attraverso le "invenzioni" delle varie arti e destinato a ovviare alla situazione d'inferiorità in cui l'uomo originariamente si trova a paragone degli altri esseri viventi, meglio forniti di organi di riparo e di difesa (tipico per ciò il mito esposto da Protagora nell'omonimo dialogo platonico). S'intende quindi come il pensatore antico che più di ogni altro avverte il problema filosofico della civilizzazione e del progresso, Posidonio, concepisca quest'ultima in maniera singolarmente dualistica. Egli vede infatti nella storia umana tanto un processo di decadenza dalla primitiva perfezione etico-politica quanto un processo di evoluzione nel campo della tecnica: le condizioni pratiche della vita sono migliorate, ma la moralità ha perduto sempre più terreno, e i filosofi debbono quindi volgersi dalle ricerche scientifiche in servigio del dominio tecnico della natura alla cura dei valori etici dell'uomo.

Nel Medioevo la concezione cristiana della caduta dell'uomo rinnova l'idea del peggioramento, ma la conseguente esigenza del ritorno e dell'ascesa verso il bene orienta la storia umana in senso ottimistico, facendone concepire il processo come progresso, anche se il termine di quest'ultimo vien collocato in un fine oltremondano che per ciò stesso conclude ed esclude l'evoluzione terrena. Così le concezioni emanatistiche della discesa dell'imperfetto dal perfetto, proprie dell'ultima età del pensiero classico nella sua sintesi con quello cristiano e corrispondenti, se tradotte sul piano della storia, a un'idea del processo come progressiva decadenza, possono, in forza dell'opposto motivo ottimistico del cristianesimo, capovolgere questa stessa loro impostazione fondamentale. Tipico a tale proposito è il caso di Gioacchino da Fiore, la cui distinzione della storia del mondo nelle età del Padre, del Figlio e dello Spirito quadra esattamente con lo schema emanatistico della teologia trinitaria neoplatonico-cristiana; ma, facendo corrispondere l'età del Padre a quella dell'ebraismo e l'età del Figlio a quella, tuttavia in corso, del cristianesimo, e assegnando di conseguenza a un più perfetto avvenire l'avvento dello Spirito, prospetta la storia non come derivazione sempre più depauperata ma come processo di ascesa.

Nel Medioevo l'orientamento degli spiriti verso il concetto di un progresso è peraltro solo il risultato, saltuario e non ben consapevole, della reazione del fondamentale nucleo volontaristico e quindi attivistico del cristianesimo contro il razionalismo della teologia greca in cui si era cristallizzato il suo contenuto dogmatico. Il senso del necessario progresso intrinseco alla storia si fa invece decisamente strada nel Rinascimento, dove appare connesso col nuovo avvertimento del potere di ascesa e di conquista proprio della natura umana. Tra le varie formulazioni che nel Rinascimento si riferiscono a questa idea generale, la più caratteristica è certamente quella che, alludendo alla progressiva genesi della verità dallo sviluppo storico, si compendia nel motto veritas filia temporis. Il quale era stato invero già coniato nell'antichità classica (in quella precisa forma esso è citato, per es., da Aulo Gellio), così come variamente espresso, fino da Senofane e da Eschilo, era stato il concetto di un accrescersi temporale del sapere e della verità, per cui le generazioni posteriori ne sapessero più delle anteriori. E nella prima metà del Cinquecento un celebre editore, Francesco Marcolini di Forlì, aveva adottato quel motto per i suoi libri. Ma il primo a fare di quel motivo il tema di una rigorosa asserzione filosofica del progresso umano è (almeno a quanto sembra risultare dai documenti noti) Giordano Bruno. Ripercorrendo, nella Cena delle ceneri, la storia dell'astronomia nella forma in cui egli la conosce attraverso Copernico, il Bruno osserva come la possibilità dell'avanzamento della scienza sia proporzionale al numero delle osservazioni che si sono potute compiere e quindi a quello degli anni trascorsi: l'età recente ha maggiore esperienza dell'antica, e, se la sapienza è nella vecchiaia, i veri vecchi sono i moderni.

Enunciata dal Bruno verso la fine del Cinquecento, questa tesi si sente riecheggiata, in vario modo, da molti pensatori del secolo successivo. In forma più superficiale (e con esplicito parallelismo formale rispetto a una frase di San Paolo, che può quindi far pensare a una genesi indipendente dal testo del Bruno) essa ritorna in Campanella. Evidente sembra invece la conoscenza del Bruno in Francesco Bacone (non per nulla autore dei Two Books of Proficience and Advancement of Learning) che nel Novum Organum e nel De augmentis scientiarum propugna vivacemente la tesi della sapiente vecchiaia del mondo moderno a paragone dell'ingenua giovinezza di quello antico, conferendole tale notorietà da esserne poi comunemente considerato come il principale autore. Accenni analoghi si trovano, ancora, in Galileo e in Cartesio; ma chi, dopo Francesco Bacone, rianima veramente di nuova vita la tesi bruniana è il Pascal, il quale rende più concreta l'ormai classica comparazione identificando la vita dell'umanità alla vita di un individuo immortale, la cui esperienza si accresce senza tregua. Nel Malebranche è invece caratteristico il contrasto che la nuova idea del progresso scientifico viene a costituire rispetto alla concezione teologica di una verità originariamente rivelata. Riprendendo infatti, se anche ad altro fine, un motivo caro ai teorici medievali della doppia verità, egli considera l'antichità come depositaria del vero nel campo teologico, mentre per quel che concerne le verità filosofiche, risultato di continua ricerca, egli attribuisce maggiore esperienza all'età moderna, che in tale ricerca ha potuto proceder più oltre. Tipica, infine, è anche la deformazione a cui questo generale concetto del rapporto dell'età antica e dell'età moderna va incontro nella famosa controversia letteraria detta appunto la Querelle des anciens et des modernes. Già nella sua impostazione la Querelle procede, invero, dal nuovo senso del valore dei moderni e dal suo contrasto rispetto alla tradizionale venerazione degli antichi: ma in quanto, per opporsi a quest'ultima e distruggere così il mito della grandezza antica, tende a mostrare come le piccolezze del presente non differiscano da quelle del passato, torna a una concezione statica della natura umana e nega quello stesso principio del progresso che aveva determinato la prima impostazione del problema.

Tra il Cinque e il Seicento il concetto del progresso resta tuttavia per lo più limitato al campo teoretico, perpetuandosi perciò, in certo senso, una situazione affine a quella che si presentava nel mondo classico con la contrapposizione del progresso tecnico al regresso morale: crescono le nozioni dell'uomo ma non è detto (in fondo neppure dal Bruno) che si perfezioni il suo animo. La decisa estensione del concetto del progresso anche alla sfera etica è invece opera precipua del secolo che più di ogni altro contribuisce a diffondere l'idea di un sempre crescente rischiaramento dello spirito umano: l'illuminismo settecentesco è infatti convinto che la liberazione dell'uomo dai suoi errori teorici e dalle sue superstizioni dogmatiche sia di necessità anche un affrancamento dai motivi determinanti della sua inferioritȧ morale. Di questa fede in un progresso totale (che del resto appare già anticipato dal Leibniz sul piano metafisico, almeno in quanto il suo ottimismo non è solo fiducia nella statica perfezione del disegno divino, ma senso del valore positivo dell'evoluzione a cui partecipa ogni monade dell'universo) testimoniano quasi tutti i principali rappresentanti dell'illuminismo europeo: come suoi assertori e teorizzatori più espliciti possono in ogni modo essere citati per la Francia il Condorcet (autore dell'Esquisse d'un tableau historique des progrès de l'esprit humain, in cui egli appassionatamente manifesta la sua fede nel progresso dello spirito umano, condotto dalla nuova educazione civile e politica a non più ricadere nella barbarie in cui lo avevano trattenuto i ceppi dell'ignoranza e della servitù) e per la Germania il Lessing. Diretto erede dell'illuminismo in questa fusione ideale del progresso scientifico col progresso etico appare poi, dopo l'età idealistica, il positivismo ed empirismo della seconda metà dell'Ottocento, indotto dal rapido succedersi delle scoperte scientifiche e tecniche a una persuasione popolarescamente fanatica del progresso umano (tipico è al riguardo l'esempio fornito dal massimo rappresentante di questa corrente filosofica, Auguste Comte, che tale fede nel progresso elabora in una religione e addirittura in una liturgia, elevando a santi del calendario i promotori del progresso umano). Se infatti l'illuminismo del Settecento, che vede il progresso teorico soprattutto nel superamento delle tradizioni politiche e religiose ostacolanti la libera esplicazione della personalità, ha buone ragioni per far dipendere da esso il miglioramento morale dell'uomo, assai meno giustificato è il suo tardo epigono dell'Ottocento, che, entusiasta delle scoperte e delle invenzioni, scambia i mezzi coi fini e prende spesso per arricchimento di valori umani l'accrescersi degli strumenti per il dominio pratico della natura.

Assai più complesso e profondo è invece il concetto del progresso elaborato dall'idealismo postkantiano e dalle teorie che continuando la tradizione di tale idealismo, dirigono la loro attenzione soprattutto verso il problema della storia. Nei postkantiani (cioè, per citare l'esempio principe, in Hegel) l'idea del progresso diventa costitutiva della più profonda natura della realtà: questa infatti si manifesta come tale in virtù di un processo dialettico, per cui ogni momento di essa è, dopo la sua posizione, negato e superato da un momento ulteriore e più comprensivo. E come il processo emanatistico dei gradi neoplatonici della realtà si rifletteva in vario modo nelle concezioni contemporanee della storia e del destino umano, così l'idea della necessità logica che porta il più astratto ad essere superato dal più concreto si traduce, sul piano storico, nel concetto di un'inevitabile ascesa dell'umanità verso fini sempre superiori. Al progresso dialettico della realtà universa, considerata nei suoi aspetti di logo, natura e spirito, si affianca, cioè, il progresso dialettico della storia, ogni momento della quale rappresenta un arricchimento dello spirito a paragone del momento anteriore e un punto di partenza per il nuovo arricchimento costituito da quello che lo seguirà. Ma il progresso dialettico della realtà filosoficamente considerata culmina nella suprema categoria dello spirito, cioè nell'idea, mentre il progresso dialettico della storia non può aver termine se non provvisorio nella consapevolezza di colui che filosoficamente l'intende, giacché la storia continua a procedere oltre quell'atto d'intendimento, e non può essere conclusa una volta per sempre in nessun sistema. Se il processo ideale delle categorie è un progressus ad finitum, quello della storia è un progressus ad infinitum, e non può quindi quadrare immediatamente con l'altro.

A risolvere questo dualismo del concetto filosofico del progresso (dualismo che è tra le cause non ultime della critica e del discredito da cui viene investito l'idealismo dialettico della seconda metà dell'Ottocento) ha lavorato e lavora il pensiero del Novecento, che si è ricollegato alla tradizione idealistica ed ha insieme accentrato la sua attenzione sul mondo del divenire storico, termine esclusivo d'interesse di tutto il moderno storicismo. In Italia, questa tendenza ha condotto anzitutto a una rivalutazione delle idee di un grande precursore, il Vico, che, distinguendo la "storia eterna" da quella "che corre in tempo", e cioè il costante ordine di successione delle diversi fasi o epoche spirituali e le diverse realizzazioni che di tale processo si manifestano empiricamente nella storia, non dà luogo al contrasto tra le due progressioni in quanto considera la prima come forma immutabile della seconda. Così, nel Croce, il progresso per cui ogni forma dello spirito si afferma in eterno sulla precedente è distinto, ma non inconciliabile nei confronti di quello onde ogni momento della storia, che arricchisce di sé tutta la storia passata, rappresenta comunque un avanzamento rispetto a quest'ultima: entrambe le concezioni si compongono infatti nell'idea simboleggiata dall'immagine dell'ascesa a spirale, per cui lo spirito, pur compiendo in eterno il suo identico ciclo, avanza ad ogni atto tanto rispetto all'atto che immediatamente lo precede quanto rispetto a quello che formalmente gli corrisponde nel ciclo anteriore. Parimenti, nel Gentile, la progressione dialettica per cui l'astratto oggetto si contrappone all'astratto soggetto ed è infine con esso superato nel soggetto concreto è a sua volta accentrata nell'indivisibile ed eterna presenza dello spirito, che nel suo puro atto risolve tutta la storia passata e per ciò stesso è progresso assoluto rispetto ad essa. Come si vede, in queste concezioni il motivo del progresso torna ad essere spostato sul piano strettamente gnoseologico e metafisico: mentre del significato più empirico che esso tuttavia serba nell'ambito della pratica e dell'etica cercano insieme di tener conto gli approfondimenti critici che di tali concezioni si vengono tentando.

Bibl.: Manca una storia adeguata del concetto di progresso: scarso valore critico hanno infatti G. Delvaille, Essai sur l'histoire de l'idée de progrés jusqu'à la fin du XVIIIe siècle, Parigi 1910 (su cui v. G. Gentile, La riforma della dialettica hegeliana e altri scritti, 2ª ed., Messina 1923, pp. 185-93) e J. B. Bury, The Idea of Progress, Londra 1920 (su cui U. Spirito, in Rivista di cultura, I, 1921, pp. 130-31). Il meglio è perciò da ricercare nelle trattazioni dedicate ai singoli pensatori (per il Bruno e in genere per il Rinascimento, v., per es., G. Gentile, Veritas filia temporis, in G. Bruno e il pensiero del Rinascimento, 2ª ed., Firenze 1925, pp. 225-48), e nelle storie della storiografia (v. storia). Per indicazioni di libri concernenti in generale il concetto del progersso, v. R. Eisler, Wörterbuch der philosophischen Begriffe, I, 4ª ed., Berlino 1927, pp. 445-46.