Proposizione

Enciclopedia Dantesca (1970)

proposizione

Barbara Faes De Mottoni

Il termine p., più volte usato da D., deriva i suoi valori specifici dalla terminologia della logica aristotelica.. Aristotele designa la p. con due termini diversi: λόγος ἀποφαντικός o semplicemente ἀπόφανσις, e πρότασις.

Nel De Interpretatione (4, 16b 26 ss.), dopo aver definito il logos " voce significante, di cui una qualsiasi delle parti, considerata separatamente, è significante come locuzione (fasis) e non come affermazione o negazione ", Aristotele afferma che - a differenza di altri discorsi, quali ad esempio la preghiera, - solo quello cui appartiene ilvero o il falso si dice apofantico. In questa prima accezione dunque p. significa discorso apofantico.

L'altro termine, protasis, da cui il latino propositio, si trova già nel De Interpretatione (11, 20b 23) e sta a indicare il membro di una contraddizione. Negli Analitici primi (I 24, a 16) protasis è il " discorso affermativo o negativo di una cosa rispetto a un'altra cosa [λόγος καταφατικὸς ἢ ἀποφατικός τινος κατά τινος] ".

È questa definizione ribadita anche in seguito - " di conseguenza la proposizione [= premessa] sillogistica sarà l'affermazione o la negazione in generale di una cosa rispetto a un'altra " (ibid. I, 24a 28) - che interessa maggiormente il nostro discorso. Negli Analitici secondi (I 2, 72a 8) la definizione di protasis è vista sotto un'angolazione diversa, ma sostanzialmente uguale a quella data negli Analitici primi; essa infatti è definita come " l'altra parte dell'enunciazione ". Questa a sua volta ha due parti, l'affermazione e la negazione; protasis significa dunque anche qui affermazione o negazione (cfr. Tomm. In An. post. I 2, lect. V).

Già i commentatori antichi, Alessandro di Afrodisia (In An. pr. 10, §§ 13 ss.), Ammonio (Scholia in An. pr. 15, §§ 22 ss.), Filopono (In An. pr. 12, §§ 23 ss.) avevano osservato che la definizione di discorso apofantico del De Interpretatione non corrisponde a quella di protasis degli Analitici primi, ché, mentre la prima è considerata in rapporto al suo valore di verità o falsità, la seconda è definita in relazione alla sua funzione di affermazione o negazione.

I commentatori latini, a cominciare da Boezio, traducono apofansis con enuntiatio: " Enuntiativa [oratio] vero non omnis, sed illa in qua verum vel falsum est, non autem omnibus inest, ut deprecatio, oratio quidem est, sed neque vera neque falsa " (In de interpr. editio I, I, Patrol. Lat. LXIV 313 C), e protasis con propositio: " propositio igitur est oratio adfirmativa vel negativa alicuius de aliquo " (Arist. latinus III, 1-4, An. pr., translatio Boethii, editio Minio-Paluello, Bruges-Parigi 1962). Boezio più volte sottolinea che la p. enunciativa (apofantica) è l'unica specie di p. cui inerisca il vero o il falso (cfr. In de interpr. editio I, I, Patrol. Lat. LXIV 296 C ss., 313 D; editio II, I, ibid. 442 A), tuttavia in un passo del commento al De Interpretatione egli non sembra tener presente la distinzione tra enuntiatio e propositio, poiché pone questi due termini come equivalenti: " Quocirca quoniam de his solis orationibus in quibus verum falsumque reperitur, quas enuntiationes et propositiones vocamus, quae interpretationes sunt " (In de interpret. editio I, I, ibid. 295 C). S. Tommaso (In de interpret lect. VII) definisce il discorso enunciativo in relazione alla sua funzione. Questa, egli afferma, consiste nel significare ciò che l'intelletto concepisce. Due sono le operazioni dell'intelletto " in quarum una non invenitur veritas et falsitas, in alia autem invenitur verum vel falsum. Et ideo orationem enunciativam definit [Aristoteles] ex significatione veri et falsi, dicens quod non omnis oratio est enunciativa ".

Il termine p. occorre più volte in Dante. In Pd XXIV 98 Io udi' poi: " L'antica e la novella / proposizion che così ti conchiude, / perché l'hai tu per divina favella? ", antica e novella p. indica l'Antico e Nuovo Testamento. L'impiego di siffatto termine in questo contesto si spiega tenendo presente il significato complessivo del discorso dantesco in questo canto. D. viene interrogato sulla fede; dopo averla definita (vv. 64-66), gli vien chiesto su quali prove essa si fondi (vv. 89-91). Sull'ispirazione dello Spirito Santo, che si diffonde nell'Antico e nel Nuovo Testamento, egli risponde (vv. 91-96). L'ispirazione divina a sua volta è dimostrata dalle opere che la confermano, cioè dalle profezie e dai miracoli (vv. 100-102). Quest'argomentazione ha per D. un valore così probante che egli non esita a chiamarla sillogismo, e come il sillogismo è formato di due p. o premesse e di una conclusione, così egli denomina metaforicamente l'Antico e il Nuovo Testamento antica e novella proposizion. Questa rappresenta il fondamento da cui deduce come conclusione la certezza e la necessità della fede. L'argomentazione dantesca è da vedersi, in parte, entro il contesto della tematica medievale, in particolare tomista, riguardante la teologia come scienza. S. Tommaso infatti sottolinea in più punti (cfr. Sum. theol. I 1 7, Cont. Gent. II 1 4, In de Trin. II 2 3) che la teologia in quanto scienza ha, come ogni scienza, i suoi principi. Questi sono gli articoli di fede e " sicut aliae scientiae non argumentatur ad sua principia probanda, sed ex principiis argumentantur ad ostendendum alia in ipsis scientiis, ita haec doctrina [theologia] non argumentatur ad sua principia probanda, quae sunt articuli fidei, sed ex eis procedit ad aliquid aliud ostendendum " (Sum. theol. I 1 8).

In Cv IV XVIII 2, D., trattando del vincolo che lega nobiltà e virtù, pone questa proposizione filosofica, che dice che quando due cose si truovano convenire in una, che ambo queste si deono riducere ad alcuno terzo, o vero l'una a l'altra, sì come effetto a cagione. Più oltre (§ 3): E poi conchiude prendendo la vertude de la sopra notata proposizione, e dice che però conviene l'una procedere da l'altra, o vero ambe da un terzo. Com'è stato rilevato dal Busnelli (Cv II, App. VII, 383 ss.), il poeta desume la p. precedente dalla Summa contra gentiles (II, n. 923). Infatti s. Tommaso, per dimostrare che Dio è la causa essendi di tutte le cose, pone questo principio: " omne enim quod alicui convenit non secundum quod ipsum est, per aliquam causam convenit ei, sicut album homini: nam quod causam non habet primum et immediatum est, unde necesse est ut sit per se et secundum quod ipsum. Impossibile est autem aliquod unum duobus convenire et utrique secundum quod ipsum. Quod enim de aliquo secundum quod ipsum dicitur, ipsum non excedit; sicut habere tres angulos duobus rectis aequales non excedit triangulum. Si igitur aliquid duobus conveniat, non conveniet utrique secundum quod ipsum est. Impossibile est igitur aliquod unum de duobus praedicari, ita quod de neutro per causam dicatur, sed oportet vel unum esse alterius causam, sicut ignis est causa caloris corpori mixto, cum tamen utrumque calidum dicatur; vel oportet quod aliquod tertium sit causa utrique, sicut duabus candelis ignis est causa lucendi ". (Cfr. anche II 1, n. 941, e De Potentia 3, 5, 3).

In Mn I II 4 Verum, quia omnis veritas quae non est principium ex veritate alicuius principii fit manifesta, necesse est in qualibet inquisitione habere notitiam de principio in quod analetice recurratur pro certitudine omnium propositionum quae inferius assumuntur, le p. cui D. allude sono le premesse del sillogismo. Poiché la trattazione della Monarchia, afferma, è condotta con metodo sillogistico, è necessario avere precognizione di un principio da cui poter dedurre successivamente tutte le altre proposizioni. Il passo in questione riecheggia l'inizio degli Analitici posteriori (cfr. I 1, 71a 5).

In Mn I XI 10 Et prima propositio declaratione praecedente apparet, la prima p. - iustitia potissima est in mundo quando volentissimo et potentissimo subiecto inest - è la premessa maggiore del prosillogismo; huiusmodi solus Monarcha est è la premessa minore; ergo soli Monarchiae insistens iustitia in mundo potentissima est è la conclusione. Come risulta dal passo precedente (§ 5), Ubi ergo minimum de contrario iustitiae admiscetur et quantum ad habitum et quantum ad operationem, ibi iustitia potissima est; ora, riguardo all'habitus, la giustizia può trovare resistenza nel volere quando esso non è puro, perché è affetto dalla cupiditas; riguardo all'operatio, essa può trovare impedimento quando questa non ha la possibilità di attribuire a ciascuno il suo. Due sono dunque le condizioni perché si realizzi pienamente la giustizia: che la volontà del soggetto sia perfetta, esente cioè da ogni cupiditas, e che la potenza sia massima.

Curioso il paragone in Mn I XII 2 quemadmodum tota die logici nostri faciunt de quibusdam propositionibus, quae ad exemplum logicalibus interseruntur; puta de hac: ‛ triangulus habet tres duobus rectis aequales '. D. sta trattando la questione del liberò arbitrio che multi habent in ore, in intellectu vero pauci. Costoro sono paragonati ai logici, i quali si servono di p., cioè teoremi, che usano a mo' di esempio, senza avere alcuna comprensione del loro significato matematico. Il teorema citato da D. è un luogo comune nella tradizione medievale, in particolare in quella aristotelica (cfr. Arist. Metaphys. IX 9, 1051 a 24 ss.; Tomm. Sum. theol. I II 94 4).

Il passo di Mn I XIV 7 - tanquam intellectus practicus ad conclusionem operativam recipit maiorem propositionem ab intellectu speculativo, et sub illa particularem quae proprie sua est, assumit et particulariter ad operationem concludit - s'inserisce nel più vasto discorso riguardante le competenze legislative del Monarca e quelle dei singoli principi (per le varie interpretazioni di questo passo, cfr. il commento del Vinay, p. 90 n. 8). Per D. il rapporto tra la regula communis intesa come espressione normativa di principi universali, propria dell'imperatore, e la concreta applicazione di essa alle contingenze particolari di competenza dei principi, si configura come rapporto tra intelletto speculativo e intelletto pratico. Questi sono distinti in base alla loro funzione: l'intelletto infatti nel suo uso speculativo si volge alle forme universali, nel suo uso pratico a quelle particolari (cfr. Mn I III 9). D. desume probabilmente questa distinzione da s. Tommaso, il quale nel commento all'Etica Nicomachea (VI lect. II n. 1132) afferma: " Dicendum est ergo quod intellectus practicus principium quidem habet in universali consideratione, et secundum hoc est idem subiecto cum speculativo, sed terminatur eius consideratio in particulari operabili ". Inoltre (lect. IX n. 1247): " Est autem duplex intellectus. Quorum hic quidem est circa immobiles terminos et primos, qui sunt secundum demonstrationes quae procedunt ab immobilibus et primis terminis, idest a principiis indemonstrabilibus, quae sunt prima cognita immobilia, quia scilicet eorum cognitio ab homine removeri non potest. Sed intellectus qui est in practicis, est alterius modi extremi, scilicet singularis et contingentis et est alterius propositionis, idest non universalis quae est quasi maior, sed singularis, quae est minor in syllogismo operativo ". La p. menzionata nel passo in questione rappresenta la premessa maggiore del sillogismo. Questa fornita dall'intelletto nella sua funzione speculativa corrisponde alla regula communis data dall'imperatore. Assunta sempre dall'intelletto, ma nel suo uso pratico, come premessa minore, corrisponde alla regula communis nella sua applicazione ai casi concreti.

La p. che si assume in Mn I XV 8 - Hiis praemissis propter declarationem assumendae propositionis ad propositum, sic arguatur - è l'ultima del capitolo: necesse est ad optime se habere humanum genus esse in mundo Monarcham, et per consequens Monarchiam ad bene esse mundi. Così la p. di cui si parla in II V 26 - et sic, cum in propositione dicatur de fine iuris existente - è quicunque finem iuris intendit cum iure graditur (§ 20).

In Mn III VIII 10, la p. cui D. si riferisce - et sic assummendo vera est illa propositio; absolute vero non, ut patet - è la famosa frase che Cristo disse a Pietro: quodcunque ligaveris super terram, erit ligatum et in coelis, et quodcunque solveris super terram, erit solutum et in coelis (§ 1; cfr. Matt. 16, 19; Ioann. 20, 23).

Infine, in tutti gli altri passi nei quali ricorre il termine p. - Mn III VII 3, XII 5, Quaestio 39 e 81, Ep III 6 - esso ha sempre il significato tecnico di premessa di un sillogismo.