Prosatori Minori del Trecento, Scrittori di religione – Introduzione

I Classici Ricciardi: Introduzioni (2013)

Prosatori Minori del Trecento, Scrittori di religione – Introduzione

Don Giuseppe De Luca

I. La letteratura in volgare italiano del secolo decimoquarto è letteratura di estate colma, non solamente nelle grandissime opere originali della prosa e della poesia, per le quali quel secolo è rimasto senza possibili paragoni famoso, anzi unico, ma anche, e stavo per dire soprattutto, nelle opere minori. Quella letteratura non rappresenta una lingua che balbetta né un popolo di rozzi, ma sta a specchio di una cultura raffinatissima, addirittura alessandrina per alcuni versi; cultura talmente matura e sviluppata, che nel secolo seguente, almeno per certi rispetti, non poté che decadere. L'indagine contemporanea, infatti, insiste più sopra il secolo XIII che non sopra il secolo XV.

Il nostro volume viene oggi a ritrovarsi, come anni fa non si sarebbe creduto, in un crocevia piuttosto arduo e affollato di detta indagine, nel quale, non diremo che sboccano, certo s'incontrano e si attraversano diverse discipline storiche, diverse storie letterarie: tutte quelle dell'Università sacra, tutte quelle dell'Università profana. La letteratura italiana, con tutte le altre neolatine, e si capisce, più quelle germaniche, e la latina, e la bizantina, e più d'una orientale vi si trovano implicate. Il libro consacrato dal Cerulli ai Miracoli della Vergine deve per necessità spaziare su tutta l'Europa e tutto l'Oriente più vicino; nel tema di Barlaam e Giosafat si riflettono l'India, le !aure mesopotamiche e palestinesi, e poi l'Occidente latino, e poi le nuove lingue. Due esempi, scelti tra molti; sufficienti, peraltro, a dimostrarci come il progresso di tante discipline, sorte nel secolo scorso, prima o poi ci porterà da presso ai popoli più lontani, più efficacemente con la fraternità spirituale che non con la velocità dei mezzi di trasporto.

Non si dice delle discipline teologiche: bibbia, dommatica, morale, liturgia, patrologia, agiografia, e via via le tante «materie» che ce ne sono. In paesi protestanti, ove le cattedre di teologia non vennero mai meno, cosiffatte discipline sono ancora di casa; nei paesi cattolici, invece, vengono coltivate soltanto dai chierici; in ogni modo, anche a uno sguardo superficiale apparisce quale vastità e profondità abbiano raggiunto. Venute in auge da ultimo, la storia letteraria dell'ascetica e della mistica con la storia della pietà, in una trentina d'anni sono di già a una decina di riviste specializzate, e a una affluenza intricata d'iniziative. Imperdonabile sarebbe pretermettere, a proposito della nostra letteratura religiosa, la storia profana, sia quella politica e civile, sia quella delle istituzioni e dei costumi; come pure la storia della filosofia e la storia delle scienze, la storia delle arti e la storia dei commerci. La vita religiosa, allora, era il cuore di ogni vita; quando anche la si fosse voluta comunque respingere, si diveniva irreligiosi, ma restando nel rapporto con la religione: o pro o contro, si era sempre lì. Ciò non pertanto, un moto che partiva dagli antichi, attraverso non pochi spiriti giunse sino alle soglie dell'incredulità moderna: moto non di eretici, non di empi, bensì di areligiosi: i cosiddetti atei. Allo stato attuale delle indagini, poco se ne sa, ma anche di quel moto si dovrà tener conto.

Infine, la ricerca erudita ritorna ora ai giorni suoi migliori, e tutta chiusa in sé e per sé, sdegna di assoggettarsi a questi o a quei temi che la scuola ha imposti. Gli eruditi maggiori, spezzati i compartimenti stagni e buttate all'aria le suddivisioni empiriche della scuola, tornano appena possono alla sovrana libertà dell'erudito del Sei e Settecento, quando un Mabillon e un Muratori contemporaneamente affrontavano leggi e cronache, iscrizioni e poesie, trattati teologici e trattati diplomatici, vite di avventurieri e vite di santi, «opera omnia» e «anecdota», annali e polemiche; e il nostro Scipione Maffei, andando dalle monete alle scritture, dalle storie letterarie al teatro vivente, di tutto si occupava e da nulla era distratto. Ricorderò, a questo titolo, in esempio e per riconoscenza, tre odierni benedettini, Germano Morin, Andrea Wilmart, Donaziano De Bruyne, e quella che è stata lo specchio dell'erudizione sacra contemporanea, la «Revue Bénédictine».

2. Sin qui, i testi religiosi in volgare italiano del Trecento hanno costituito una specie di orticello nella letteratura italiana, così come questa, giusta i piaciti ottocenteschi di lingua che equivale a nazione e letteratura che equivale a lingua, si era venuta via via restringendo, sino a ridursi, nei giorni che corrono, soltanto a poesia e narrativa. La storia letteraria della teologia, quella della filosofia, quella del diritto, quella delle scienze, quella delle arti, la storia insomma di tutta la nostra intelligenza, non sono potute entrare in letteratura italiana, a meno che non fossero asperse di doni di fantasia; e così, nessuno storico della letteratura italiana ha creduto di dover occuparsi delle Università italiane. Nondimeno, e quantunque amputata e in condizione di grande invalida, la letteratura italiana sempre ha serbato un cantoncello, un hortus conclusus, alla letteratura religiosa del Trecento. Nessun manuale ne ha taciuto, nessuna delle innumerevoli collezioni di testi ne ha voluto prescindere. Come c'è stato sempre un canone ideale dei libri accettati, anche prima della Crusca, così si è avuto un canone ideale di codesti scrittori del Trecento, anche quando la Crusca anni addietro mutò vita.

Nel 1480, in un inventario di suoi libri di campagna, Lorenzo de' Medici teneva con sé a Poggio a Caiano, accanto alla triade di rito, Dante, Petrarca, Boccaccio; accanto a un Ficino, a un Plinio e a un libro di medicina; accanto a un Burchiello, a un Pulci (il Morgante) e a un libro di musica; teneva, dico, i vangeli, e li teneva innanzi a tutti gli altri libri. Saremmo curiosi di sapere qual era il manoscritto, e appurare in che traduzione egli li leggesse: com'è noto, nel Quattrocento fiorentino, tanto tempo prima di Erasmo, ci si era provati a versioni della bibbia che ora diremmo filologiche, e ci s'era provati un po' dappertutto anche assai assai prima, ricorrendo agli originali, e non soltanto ai greci. I vangeli potevano far parte a sé; se non che Lorenzo teneva inoltre la vita del Colombini (quella, certamente, del Belcari), la «consolazione» di Boezio, un «salterio de' fanciulli» un libro di «laude» un «libriccino degli articoli della fede "·[1] Se a Lorenzo si fanno risalire i primi tentativi d'una grammatica e d'una letteratura italiana, bisogna dire che già con lui i testi spirituali compaiono in sezione a parte.

Venendo un passo più in qua, sembrava che in un Bembo, altro iniziatore e inauguratore, oltre i greci e i latini, oltre gl'italiani sommi e i provenzali, poca attenzione restasse per i minori: il Novellino stesso egli lo aveva lasciato curare al suo agente Gualteruzzi. Sembrava, ma non era vero: alla lista del De Nolhac[2] posso ora aggiungere un nuovo codice, ed è di questa nostra letteratura: il De regimine di Egidio Romano, nella versione famosa della fine del Duecento.[3]

La Crusca, con gli uomini che la prepararono e le diedero vita, tenne molto da conto i nostri, i quali proprio con la Crusca morirono come testi spirituali, e nacquero come testi letterari: a modo di quadri che, lasciando la chiesa e il convento, entrano in raccolte private e musei. Non radi nei manoscritti del primo Quattrocento; piuttosto folti tra gl'incunaboli e tra quegli stampati, tanto più rari e preziosi degl'incunaboli, ma troppo sinora trascurati, e nemmeno inventariati, che sono gli stampati dei primi decenni del Cinquecento; non appena spunta la Crusca, passano a un tratto tra gli autori di lingua, e pèrdono quasi totalmente, poeti e prosatori, ogni valore di formazione spirituale. Cadeva in tal modo una letteratura grandissima, che aveva nutrito per secoli le anime religiose. Per andarne in traccia, bisognerà ormai partire dalla «tavola dei citati» della Crusca, e cercarli fra mezzo agli autori di lingua. Anche il Doni, nella sua Libraria, molti ne citava.[4]

La erudizione solenne del Sei e Settecento non si affannò assai, in pro dei nostri scrittori; con tutto ciò risalgono all'ultimo 1500, al 1600 e al 1700 i migliori editori che se ne siano avuti: da un Leonardo Salviati a un Domenico Maria Manni e a un Giovanni Bottari, tutti, seppure non raggiunsero che di rado l'acribia di un Vincenzo Borghini, fecero opera durevole. Le raccolte di un Fontanini messe a punto da Apostolo Zeno, le raccolte sui traduttori d'un Jacopo Maria Paitoni e di un Filippo Argelati, restano all'inizio di ogni ricerca posteriore.

Sulla fine del Settecento e per tutto l'Ottocento, dapprima per il purismo, in seguito per il neoclassicismo, i nostri tornarono in onore. Dappertutto fu un rimescolio di saggi, un rigoglio di edizioni rare e non rare, con «spogli di voci mancanti»; tanto che ben presto vennero oltrepassati gli stessi interessi di Crusca, ed ebbe a crearsi una sezione a parte per gli scrittori del Trecento. Più che i " citati» del Bacchi Della Lega, più che gli elenchi precedenti di Gaetano Poggiali e di Bartolomeo Gamba, valsero le liste di Francesco Zambrini, poste in ordine e compiute poi da Salomone Morpurgo, e le due famose collezioni del Romagnoli Dell'Acqua, la grande e la piccola. Naturalmente, si trattava di stampati: i manoscritti contavano poco: li si citava, per ricoprirli di grandi vituperi, perché scorretti. I manoscritti erano tenuti al rango delle bocchette dell'acqua, alle quali si fa caso unicamente quando non funzionano. Una bella confusione, tutto sommato. Quando se ne volesse una conferma, nel secolo non nacque (ma da chi poteva nascere?) un dizionario storico della lingua, mentre nessun altro secolo, prima e dopo, tanti e tali dizionari compilò, uno almeno dei quali mirabile, quello del Tommaseo, e nessun altro secolo altrettanto discorse di lingua.

L'Università del giovane regno di Italia, messa sul punto e stimolata dalle Università straniere, tentò di non essere da meno in questa letteratura che in storia antica e in storia medievale; ma le fu grande fatica, e spesso le riuscì una fatica vana. Nelle Università protestanti c'erano le discipline teologiche, a sostenere lo storico della letteratura medievale; storico che, in Italia, o non c'era o, quando c'era, doveva da sé provvedersi tutto l'occorrente; ingente sforzo. Sotto i colpi di eruditi tedeschi cadevano leggende agiografiche e falsificate cronache, create sediziosamente da famiglie nobili e da famiglie religiose; e ci volle un francese a ritrovare l'autografo del Petrarca, e illustrarne i meriti di creatore dell'umanesimo europeo. Sulle prime, archivisti e bibliotecari italiani - gente di primissimo ordine, degni dell'erudizione di un tempo - salvarono la situazione, coadiuvati dai glottologi: per spiegarci, un Salomone Morpurgo, più un Ernesto Giacomo Parodi, diedero alla fine un buon testo: il Fiore. E se il Fiore è un gioiello, non si può non tener conto e non esser orgogliosi di altre iniziative, legate ai nomi, agli studi, alle opere, alle edizioni d'un Rajna, d'un Barbi, d'un Parodi, d'un Vandelli, e dei loro maggiori e migliori discepoli: nobilissima filologia che ora, a opera dei nipoti (per dir così), sta proseguendo arditamente. Ho detto di Firenze, ma non si lavorò bene soltanto a Firenze.

Per dare un testo religioso, tuttavia, sembra necessario, oltre al paleografo, oltre al glottologo, ancora un terzo uomo: un Ehrle, un Denifle, un Wilmart, un Grabmann; il quale uomo leggendario mancò all'Italia allora, manca ora e mancherà forse per decenni.

Soltanto uno storico della letteratura religiosa, un paleografo e un glottologo possono dare, viribus unitis, l'edizione compiuta di un testo religioso italiano del Trecento.

A questo ne siamo. Le edizioni, moltiplicatesi a cura di orecchianti, recarono nuova confusione; né molto aiutarono quei feticisti del Trecento, che, all'ombra dapprima di un Monti e d'un Giordani, e poi di un Foscolo e di un Leopardi, prosperarono sino allato a un Carducci e a un D'Annunzio. Simile feticismo praticamente ora è caduto, e un Pascoli, tanto più dotto in greco e in latino, ne restò al tutto incolume e indenne.

Il Carducci aveva scritto: «Premetto che in prosa specialmente io sono, come dicono i pedanti novatori, autodidattico. E confesso che mi giovò di molto l'esser cresciuto e ingiovanito alla campagna, dove il popolo toscano parla meglio, con purezza vigorosa di vocaboli, con agilità elegante di scorci nella sintassi. Venuto a città e a scuola, la natività non mi sarebbe bastata più; perché la scuola in Toscana guasta tutto; la scuola e, nelle città, la presuntuosa trascuraggine ciompa e l'infranciosamento da parrucchieri. Non so come mi si rivelasse il Trecento: certo non me lo appresero mio padre né i miei maestri o i compagni di scuola, ai quali parea barbarie. Il fatto è che a un tratto mi sorpresi innamorato dei trecentisti, non perché testi di lingua vecchia, ma perché testimoni dell'uso vivo d'un popolo giovine, forte, libero, quando aveva ingegno, fantasia, passione, e veracità e dignità, come non ebbe più mai. Pochi, credo, han letto più di me del Trecento; ma non usai fare estratti di frasi, sì la lingua di quegli scriventi comparare per un lato a quella che parlavo io e sentivo o mi ricordavo aver sentito parlare dai buoni, e per un altro alla prosa del Settecento, la più vil prosa che schiavi abbiano mai scritto al mondo: così per una parte stralciavo il fogliame morto, per l'altra godevo meglio il profumo di quella fresca verdezza.»[5] E continuava dicendo come il francese e il latino fecero scrittore compiuto, in lui, il toscano; stranissima cosa, in tal modo egli ripete esattamente ciò che, tre o quattro anni prima che Dante nascesse, un dictator dava come la ricetta del perfetto scrittore italiano: saper bene il latino, e frequentar molto i francesi.[6]

Era la corrente classica, pervenuta poi alla maturità estrema, dell'arte e, un poco, dell'artificio, in D'Annunzio; il quale D'Annunzio anche lui diceva d'essere partito e di partire dai nostri scrittori spirituali: «Se dunque i nuovi psicologi vogliono riallacciarsi ai padri, debbono ricercare gli asceti, i casuisti, i volgarizzatori di sermoni, di omelìe e di soliloquii; debbono comunicare col Frate di Scarperìa, con Bono Giamboni, con Caterina da Siena, con Giordano da Ripalta, col Cavalca, col Passavanti; debbono studiosamente mirarsi negli Specchi di Croce, e pensosamente errare nei Giardini di Consolazione e alternare pazientemente la compagnia di Origene con quella di San Bernardo. »[7]

Gli scrittori di oggi, ammaliziati dalla pittura contemporanea, hanno, quando l'hanno, un'intelligenza diversa delle nostre vecchie pagine; altra, soprattutto da quella linguaiola della scuola di ieri o da quella corrente (e corriva) della scuola di oggi: per loro una pagina del Trecento è come una tavoletta del Trecento, capace di tutte le sorprese. E i giovani filologi dell'Università nuova, edotti dalle esperienze dell'arte figurativa ultima, stanno ritornando, armati, alla letteratura religiosa del Trecento: armati, dico, della nuova filologia.

Non sono profeta, ma sento aria nuova nei giovani; sento che, al solito, saranno loro a battersi e salvarci.

3. La storia dei nostri testi ha dunque una storia: da un Vincenzo Borghini a un Michele Barbi, da un Domenico Maria Manni a un Salomone Morpurgo, quanti filologi insignì! ci sono stati, assai più numerosi, i filologi da ridere; tra i quali, a uno sciagurato Bartolomeo Sorio ha voluto accodarsi il compianto Cian,[8] e il Cian non doveva, da vecchio, screditare quella che per tutta la sua vita era stata una ricerca assidua e felice.

Adesso, abbiamo detto e presagito, a queste pagine si guarderà sotto molte luci incrociate, e le si leggerà tanto meglio. Ricercatori delle letterature orientali e di quelle classiche, delle germaniche e delle neolatine (non escluderei le slave, per tante vene[9]) puntano su pagine che sino a poco fa parevano fanfaluche; e stando intorno a disseppellirle, nettarle, interpretarle, s'imbattono nei ricercatori della letteratura religiosa propriamente detta, e insieme con loro riescono a resultati poco prima impensabili. Un rudere, che ricoperto d'edera ieri mandava in deliquio il visitatore e a nient'altro giovava, oggi viene interrogato come un testimone d'una civiltà. Una preghiera da nulla in fondo a un codice, un «esempio», un sermone, una lettera di devozione, non hanno più nulla da invidiare a una parete di monastero del Mille, a una volta dipinta nel Duecento, a un'ala di chiesa diruta e remota. Che sia di lingua o non sia di lingua, sta bene; che appartenga a questa o a quella area dialettale, sta anche meglio; ottimamente, quando è poesia, e gran disgrazia se non è poesia: se non che, innanzi e in più di tutto codesto, la si considera reliquia augusta d'un tempo, arrivata sino a noi quasi miracolosamente, con un viaggio avventuroso tra rischi di morte: il manoscritto stesso che ce l'ha tramandata, indipendentemente dal testo che contiene, è carico di storia quanto un vascello glorioso: phaselus ille quem videtis ... Non è più prezioso, di quel secolo medesimo, un quadro, una chiesa, una poesia. Al di sopra, poi, di qualsiasi altra considerazione quella preghieruccia, minuta com'è, racchiude una pietas: ed è questo il sommo de' suoi valori, questo è quello che io dico e posso dire di più alto.

Reco un esempio, il primo che mi si para innanzi. La preghierina posta ad epilogo della raccolta, e più in là ci ritorneremo sopra, intanto possiamo dire che è contemporanea[10] di Gregorio Magno, o di Isidoro di Siviglia, o del venerabile Beda. Avessimo noi, del periodo che corre tra il quinto e il settimo secolo, una statua, un mosaico, una parete di chiesa, non sarebbe cosa notevole? Certamente. Va, dunque, considerata del pari anche la preghiera.

Per la prima volta adesso, io credo, i nostri testi vengono presentati, non tanto quali pagine di bella letteratura, non tanto quali cave di buona lingua, quanto nella loro dignità più antica e più nuova, più originaria e nativa, di testi della letteratura religiosa, degni anche solo come tali del massimo rispetto. Non sarebbe concepibile una critica biblica, la quale astraesse dalle più remote versioni: come si può, dunque, preparare una edizione di Bonaventura, e perché no? di Bernardo, senza tener conto dci testi religiosi coevi in volgare? saranno versioni, se non tutte, almeno per la maggior parte; ma, di qui a poco lo vedremo, le versioni avevano allora un valore più deciso, qualche volta, che non le stesse opere originali, volute come erano dagli autori in persona, e addirittura opera loro: esempio, il Passavanti. [11]

In altri termini, la massa, o bruciata o fumosa o incandescente, dei testi religiosi in volgare che ci sono rimasti dalle origini della lingua sino a tutto il Trecento, fa parte dell'identico fuoco della ultima letteratura monastica e della prima letteratura universitaria e dci Mendicanti. È letteratura spirituale, non meno degli originali latini, se non anche di più: il volgare attraeva gli spiriti, infiammava i Santi non meno che i poeti, ed esaltava gli eretici e gli indipendenti.

4. La traduzione, nel Medioevo, fu problema di una complessità estrema, ancor più, forse, che non lo stesso volgare. Dante, come per la politica nella Monarchia, così per il volgare nel De vulgari eloquentia, echeggiò appena il problema. Il termine «volgarizzare» viene da «volgare», ma non si trattava sempre né unicamente di rendere in volgare un latino, quando si trattava di tradurre: le versioni bibliche, le versioni aristoteliche, le versioni dei Padri greci, le versioni dall'arabo e dalle altre lingue orientali, ecco i problemi massimi di tutti quei secoli, e non sfioravano che raramente i volgari. Dopo, e soltanto dopo, nasceva il problema di travasare nei volgari ciò che già si possedeva nel latino[12], 10 o «traslatare» da un volgare all'altro: problema, codesto ultimo, non più di pensiero e di spirito, ma di società e di storia civile; non pari certamente alla creazione filosofica, poetica, teologica, ma, ai fini della educazione spirituale degli uomini, pari alla scuola, e più esteso se non anche più profondo; più «cultura» che non «dottrina» proprio al contrario delle versioni in latino, che erano più «dottrina» che non «cultura» I volga rizzamenti portarono a compimento l'impresa generosa a cui si era sobbarcata l'Università, l'istruzione e l'educazione della borghesia, anzi del popolo; altro sintomo del passaggio, oramai in atto, dall'impero e dal feudo al comune, dai monaci ai frati.[13]

La versione rese possibili le osmosi letterarie più straordinarie. La letteratura araba avviò tra noi la metafisica e la mistica, il componimento di «visione n e d'amore, la medicina, la politica e le scienze, e lievitò l'Occidente assai più che non abbia fatto Aristotile, venutoci anche lui attraverso gli arabi. La versione dal greco - un greco, il quale aveva già assorbito dal vicino Oriente molta letteratura mesopotamica, siriaca, etiopica, anatolica - insieme con l'antichità e con i Padri trasportò nel latino una esperienza di pensiero e un tesoro di leggende: fosse, detta versione, un de calco de verbo ad verbum, oppure una libera parafrasi, o, tra l'uno e l'altra, una traduzione come oggi la si intende e pratica. Già al suo tempo Evagrio avvertiva: «Vitam beati Antonii ... ita transposui ut nihil desit ex sensu, cum aliquid desit ex verbis. Alii syllabas aucupentur et litteras, tu quaere sententiam. »[14] Erano le due vie aperte al traduttore.

La traduzione nei volgari, o volgarizzamento propriamente detto, si rivela un evento ancora più serio, per non dire poi delle versioni da volgare a volgare. Puri e semplici elenchi, qualora li si redigesse, dei volgarizzamenti religiosi restatici di quei secoli, costituirebbero altrettanti stemmi genealogici della più alta nobiltà qual è quella dell'amore di Dio e dell'amore degli studi; elenchi esatti, i più compiuti possibile, di tutti i volgarizzamenti da ciascuna lingua: dalle orientali, dal greco, dal latino, dal provenzale, dal francese, dal catalano, dallo spagnolo. Non è infrequente il caso di testi pervenuti a noi attraverso passaggi successivi dall'uno nell'altro volgare.

I volgarizzamenti erano voluti da sovrani e da capi di Ordini religiosi; da donne innamorate degli uomini, e da donne innamorate di Dio, fossero queste isolate o fossero raccolte nei «secondi»  e «terzi» Ordini Mendicanti; da gente affiliata in corporazioni e confraternite laicali; infine, da gente che aveva dato il nome a congreghe e sette ereticali. Dalle proporzioni stesse che i volgarizzamenti pigliano nel nostro volume, si desuma che cosa fosse, allora, volgarizzare. Pur esprimendosi ciascuno dei volgarizzatori nella propria lingua, anzi nel proprio dialetto, la città dello spirito era una dappertutto; i testi viaggiavano con una velocità sorprendente, mutando lingua, destinazione e struttura, in una libertà e con una disinvoltura che sconcerta. Per un esempio, il superiore d'un convento, facendosi copiare un libro già tradotto, lo voleva adattato alla sua 'comunità, con l'aspetto linguistico prevalente nella sua casa, con tagli e giunte e modificazioni le più confacenti e appropriate, salvo il «ne varietur» dei testi canonici e classici. L'intercambiabilità, per adoperare un mostruoso vocabolo, della letteratura d'allora, quando ancora non esisteva una lingua unica, stupisce, non però la si può negare; e oltre che nei testi religiosi tradotti, la si riscontra tale e quale nelle poesie popolari e nelle novelline, che incontriamo presenti da un capo all'altro in tutto un continente, presenti dappertutto e presenti quasi identiche. La versione era, in quei secoli, il banco di cambio dello spirito.

5. Or, se non sbaglio, sembra necessario, in vista di aprirci una strada, discorrere alto alto degli affluenti diversi della letteratura religiosa del Trecento, non dico universale, e chi basterebbe?, ma quale nelle seguenti pagine si accoglie e defluisce.

Proviamoci. Per incominciare, c'era l'Università la quale veramente convogliava, allora, l'intelligenza del tempo. C'era la vita civile, con le sue connessioni religiose; i due diritti con le due corti, la papale e la imperiale; e poi tutte le altre corti, regali e signorili e dei grandi comuni. A parte l'Università e le corti, di cui nulla qui dentro apparisce - con un poco di buona volontà, potevamo includere lettere papali e imperiali, circolari universitarie, trattati scolastici, ecc. - la vita religiosa del Trecento conosceva, oltre la sede papale (dalle origini a Caterina da Siena, tutti sappiamo quanto si guardasse a Roma e ad Avignone), le varie sedi vescovili, le parrocchie, il clero secolare. La storia della parrocchia, anche presa da sola, costituisce un capitolo della storia della civiltà, oltre che del cristianesimo; e la storia della diocesi costituisce per una gran parte la storia dell'Occidente: gli archivi capitolari sono le fonti, tuttora misteriose e tuttora sigillate, di tanta storia. Dopo la curia papale, dopo il clero secolare, sfilava innumerabile il clero regolare. Il monachismo stesso, intorno al Mille, aveva conosciuto una irresistibile ripresa: Cluny, Vallombrosa, Camaldoli, poi Citeaux coi cistercensi, soltanto per dire i primi nomi che salgono al labbro; si aggiungano i canonici regolari e i certosini, e movimenti sul tipo degli «umiliati». Agl'inizi del Duecento vengono addensandosi in eserciti regolari le grandi milizie dei francescani, domenicani, carmelitani, agostiniani, serviti. Le confraternite laicali, come pure i cosiddetti «terzi Ordini», nel Trecento toccano di già una loro maturità piena. E vanno aggiunti, sono anzi per noi a capolista, gli innumerevoli monasteri e conventi femminili: per le donne molto si tradusse, il più e il meglio. I santuari stavano in disparte: complessi a sé, di regola indipendenti, con «corpi santi» o reliquie, e con leggenda, liturgia, letteratura proprie. Ogni chiesa, non esclusa la più umile, era un fuoco; e oltre le chiese, non si contavano le cappelle disperse e gli eremi. Tutti codesti fuochi punteggiavano la faccia della terra, come le stelle un firmamento; e tutti ora tremolano riflessi sulle acque della letteratura dotta e di quella popolare.

Con siffatte correnti di moltitudini, conviene far notare le correnti determinate dai vari temi. La sola bibbia con la sua storia letteraria è tale, che ne sbigottisce l'immaginazione: non dico gli studi, mi limito ai manoscritti, che da soli dimostrano che cosa viva fu la bibbia per quegli uomini. Vien poi la liturgia: una mostra del libro liturgico, per quel tanto che ce n'è restato, rivelerebbe meraviglie. La liturgia era tuttora azione, dramma recitato in quei teatri che sono le cattedrali e le pievi del tempo. Teatri, e insieme scuole: la predicazione coronava la lettura dei brani biblici, lo svolgimento dei riti, dalla messa ai sacramenti e all'ufficio divino. La musica faceva parte integrale del rito.

Alla liturgia, o preghiera pubblica, si unì sin dall'inizio la preghiera privata: le «confessioni» di sant'Agostino sono da capo a fondo una sola preghiera, non tanto privata quanto intima. Alla bibbia, alla liturgia, alla predicazione, alla preghiera privata si faccia seguire la tradizione dotta: anzitutto, i libri della formazione ascetica; poi, quelli dei Padri, dei Dottori; infine, i libri delle scuole cattedrali, dell'Università e delle sue varie ramificazioni (collegi, studi generali) e i libri delle scuole nei comuni grandi e medii. Proprio sull'inizio del Duecento, la Chiesa concretò ed emise provvedimenti conciliari, i quali, oltre la predicazione, imponevano quella che, nelle origini cristiane e ora ai nostri tempi, si disse e dice «catechesi»: innumerevoli i manuali di catechismo - ogni predicatore, lasciando un luogo, vi lasciava il suo libriccino -, dal Duecento sino al catechismo classico del Concilio di Trento.

Basta aver letto il Convivio di Dante, per renderei conto che già alla fine del Duecento, attraverso l'Università, avevano fatto il loro ingresso solenne nell'intelligenza del tempo la teologia, la filosofia, le scienze, la politica teorica, le lettere umane. La politica religiosa infieriva già ancor essa, con tutte le sue esigenze e indulgenze, servita da una propaganda asprissima, di natura letteraria per una gran parte. La cancelleria papale e la cancelleria di Federico II combatterono una guerra epica, con l'ars dictaminis. Fatti come le investiture e le crociate e uomini come Innocenza III e Bonifacio VIII sono assai da più che non una cosa politica: sono anche avvenimenti spirituali, rivoluzioni ed evoluzioni nel seno della cultura. La letteratura religiosa se ne risente vivissimamente.

Da ultimo, molto da ultimo, le polemiche con l'eresia, e le diatribe tra una fazione e l'altra di Ordini religiosi, riempiono le carte sacre e le profane di rumore: rumore, non canto, non dialogo.

6. Una sezione a parte, tra i temi e i testi di quel tempo, vuole per sé la «mistica», la quale sta al resto della letteratura religiosa come la «poesia» sta al resto della letteratura (senza, per così poco, volerle né identificare né appaiare, quasi fossero due foci dello stesso irrazionale). E diciamo «mistica», nel senso teologico della parola, in quanto significa quella parte della vita cristiana che non è vissuta con gli ordinari sussidi - sempre soprannaturali, ma ordinari - della grazia divina, sì è vissuta in forza di elargizioni straordinarie, così nell'ordine della visione come nell'ordine dell'azione. Tutti siamo egualmente chiamati a servire Iddio, quaggiù; nessuno, a vederlo di già sulla terra: nessuno, fuorché colui al quale fosse concesso per una grazia «mistica». La Divina Commedia, se così stanno le cose, e non stanno altrimenti, nel suo fondo deve dirsi né più né meno una esperienza mistica in senso stretto (e la rosa del Paradiso assomiglia stranamente alla rosa dello Scivias d'Ildegarde); accomunarla pertanto alle banali visioni dell'oltretomba, senza riflettere che mira e avvia e porta da ultimo alla visione diretta di Dio, la quale Dante gode ancora in umana carne, la falsa e la vizia essenzialmente. Proprio in quegli anni la visione di Dio costituiva un tema, che rischiò di far passare per eretico un papa, Giovanni XXII (papa dal 1316 al 1334). Il Petrarca tentò anche lui, ossessionato dalla vicinanza di Dante, ma tanto più moroso e aggravato, tentò con ala stanca lo stesso balzo: e osò confidare alla Madonna che, se amò tanto una creatura vile, che cosa avrebbe dovuto fare per lei, «cosa gentile»? avrebbe dovuto fare, ma non fece.

Abbiamo nominato Dante e Petrarca, perché ci aprono il varco a una nuova considerazione. La mistica, sta bene; e oltre la mistica teorica dell'Areopagita, il Medioevo conobbe quella, diciamo così, psicologica, venuta in favore dal Cinquecento spagnolo in poi sino a oggi; la conobbe e la amò non meno perdutamente di noi, come si comincia appena a vedere. Mistica, dunque, e in tutta la sua pienezza; ma al fondo di essa, più in giù della stessa esperienza, si agita come in una scaturigine tutta una disciplina, tutta una dottrina dell'amore.

Diceva Giordano da Pisa, nella incantevole sua santità e poesia: «Sono da riprendere i vecchi e gli uomini di tempo, se non s'amendano. Hanno veduto il corso del mondo, che tutte le cose passano, e tutte l'etadi passano e vanno via, e che le cose non ci sono nulla, e l'angosce che ci sono, e le vanitadi, e tutto ciò che si fa è vano se non l'amore di Dio; e che nulla cosa ci ha stato, e che la fortezza e la bellezza e la potenzia è ciò che ci viene meno e va via tutta. Or s' e' non si amenda e s' e' non si riconosce, or come è degno di giudicio?»[15]

Tutto vano, fuorché l'amor di Dio; ecco il tema profondo di quei secoli e di quella civiltà. Le tradizioni solenni del monachismo, tanto orientale che occidentale, approdarono al lido del nuovo millennio come in un naviglio di estatici. Le pagine sull'amore - e si può credere, a chi da anni non per altro se ne occupa che per elencarle, anche solo elencarle - sono senza numero dal primo tempo dopo il Mille sino a Filippo Neri: amore di Dio, intendo, perché di questo solo mi occupo, ma amore. In quei secoli scaturiscono e sorgono - sorgono, come da sorgente - le più grandi dottrine dell'amore, convogliano dal profondo le acque più remote (remote di luoghi, remote di secoli), conducono agli abissi più fondi, inebbriano sino alle impennature più paurose. All'estasi, attraverso la meditazione e la macerazione, giungeva spesso, più spesso che non si creda, tanto l'individuo quanto la comunità: comunità monastica, comunità conventuale, comunità laicale. Le laudi, meglio ancora che non le letture, accompagnando la penitenza (spesso, la flagellazione), conducevano a stadi superiori della preghiera. La penitenza non si prefiggeva altro scopo, con la meditazione e la poesia, che di liberare l'intelletto dalla conoscenza meramente sensibile e, infine, diversa in ciò dalla filosofia, diversa dalla teologia, liberare l'anima dalla stessa intelligenza razionale: punto di arrivo, il rapimento.

Sembrano, oggi, parole; ma non sono parole, sono fatti; sono i fili occulti che tessono quella tela mirabile ed aperta che fu allora la vita religiosa, ed è ora, fioco riflesso, la letteratura religiosa che ce ne resta. Che, al polo opposto, prosperasse non meno viva l'incredulità, non fa meraviglia, è anzi una conferma: l'incredulità non ha mai toccato, in seguito, l'insolenza e l'acredine di allora. La malevolenza per Dio, la bestemmia selvaggia, l'irrisione amarissima ebbero in quegli anni il secolo d'oro, quanto la penitenza e l'estasi. La crudeltà efferata della vita civile, per un altro verso, si opponeva diametralmente alla gentilezza eroica del rapporto umano, così come lo voleva concepito e attuato Francesco, quando baciava il lebbroso. Lo stesso vizio finiva per divenire cosa spirituale; da una parte il lupo e i briganti di san Francesco, dall'altra la leggenda di Maria Egiziaca e la vita di Margherita da Cortona, entravano insieme a comporre un paradiso in terra.

7. Raccogliendo le vele della tumultuosa traversata e puntando diritto verso la nostra silloge, dopo quanto si è accennato ogni brano troverà, o dovrebbe trovare, il suo luogo, soprattutto con il breve cartiglio che a ciascuno abbiamo appiccato, della «notizia introduttiva». Non farà più scandalo, spero, che la traduzione e la compilazione prevalgano sulla letteratura originale, e siano, se ci si consente il bisticcio, tanto più originali. Non farà più senso, se vi si rispecchino cento luci, ancorché in un fuggevole riverbero. Non ci sono tutte, purtroppo, quelle luci; e manca il viaggio, manca il pellegrin aggio, manca il diario e la notazione fuggitiva, manca l'apologetica, manca la controversia con gli eretici e la polemica politica, mancano le regole degli istituti e gli statuti delle confraternite laicali, mancano i «brievi» e le superstizioni, mancano le pagine della parodia e dell'empietà, mancano i ricordi familiari e devoti, mancano le cronache dei monasteri e dei conventi, mancano i documenti ufficiali, mancano le allegorie. A questa stessa lista di ciò che manca, manca parecchio. Disgraziatamente, manca ben altro: non sono rappresentate correnti come quelle del Carmelo, moti come quelli dei Flagellanti. Non sono in riga, nella presente rivista, eresie rispettabili; non una testimonianza vi figura di altre religioni, - ebrei, maomettani, pagani -, mentre pure il titolo del nostro libro dice: «Scrittori di religione del Trecento».

Con tutto ciò, nella silloge ci sta già molto; forse, anche troppo. A qualcuno potrà sin venire sul labbro il giudizio del Giusti:

«Meglio una bestemmia contro le regole retoriche e cruscanti che esprima qualcosa, che un testo di lingua minchione che ricanterà le novelle della nonna o qualche miracoluccio d'un Santo.» [16]

Quantunque ci siamo imposti di mettere da un canto, a ragion veduta, virulenze amare e stoltezze devozionali di editori, tuttavia, non taceremo che intorno a queste pagine si è accanita tanta fatuità, quando per esaltarle, quando per dileggiarle, mentre sarebbe stato più onorevole e più utile studiarle. Farla da cristiano, è una maniera spicciativa di non essere né cristiano né uomo; così come farla da anticristiano, dispensa, troppo spesso, da doveri che sono dell'uomo e non del solo cristiano.

Edizioni innumerevoli e quasi nessuna decente, non più che decente; cure senza fine, ma inette, prive di un pensiero concreto. Si è detto di quella preghierina: tràttala da un codice con una tal quale esattezza, io, per seguire il costume inveterato, l'avrei riscodellata in un «per nozze» erudito o in una «ghirlanda» devota; e poi? se ne sarebbe dato per inteso qualcuno? Un uomo di naso poteva sentirei dentro, a prima lettura, come dentro un vento marino, aromi di terre lontane e grandi; ma il suo restava un sospetto generoso, non più che un gradevole sogno. Nella civiltà odierna di poesie corte e romanzi lunghi, non resta facile «sentire» una preghiera, sentirla antica e recitarla con quella attenzione con cui si visita un monumento del settimo secolo. Orbene, noi l'abbiamo detto, quella preghiera rimonta al settimo secolo, se non è forse più antica. Non sarà di Girolamo, ma fa parte di quelle preghiere, non poche e non di poco conto, che ci ha trasmesso l'antichità all'infuori della liturgia propriamente detta, e delle quali si comincia adesso a far storia. Nel nostro Trecento, e in quella nostra lingua, c'era dunque anche lei; viva come preghiera, e non ancora viva come letteratura.

Di nessuno dei brani che ho raccolto qua dentro, la storia è, a mio parere, men grande; solo che bisogna conoscerla, e spesso bisogna farla a nuovo. Il popolo italiano, nel Trecento ...

8. Mi si consente una parentesi? ho detto il Trecento, un secolo; e la storia della letteratura, allogata in compartimenti per «secoli», non meno empirici dei generi letterari, certamente riesce meglio spiegabile ai fini didattici; non staremo dunque a pigliarcela contro il sistema, perché, a memoria d'uomo, nessuno ne ha fatto mai una «categoria dello spirito». Le cose bisogna prenderle per quello che valgono, e non gonfiarle al solo scopo di gonfiarci noi con il combatterle. Soltanto, vorremmo osservare, e osservarlo più che altro come una bizzarria, forse forse la partizione parrebbe più rispondente alla realtà, quando procedesse, piuttosto, di mezzo secolo in mezzo secolo, così: 950-1050, 1950-1150, 1150-1250, 1250-1350, 1350-1450, e via di seguito. Per ciò che è del nostro tempo, un 1850-1950 risulta tanto più omogeneo che non un 1800-1900. Per quel che riguarda la silloge, sebbene possa parere una grulleria, tuttavia i conti ci tornavano meglio con una partizione 1250-1350, 1350-1450, che non con i regolamentari Trecento e Quattrocento. Molti testi, e dei più famosi, del cosiddetto «aureo» Trecento, spirano un'aria che innamora, di giovane Quattrocento, come i Fioretti di san Francesco; mentre i testi del primo Trecento campeggiano con una solidità e austerità di fine Duecento. Alla forza un po' grezza del primo tempo si contrappone il lezio del secondo; all'interiore solidità, l'interiore smarrimento; al ratto estatico, la svagatura fantastica; al pensiero e alla poesia, l'erudizione e l'imitazione. Molto spesso, nella scelta del materiale, ci siamo trovati in serio imbarazzo: col primo Trecento ci si faceva innanzi l'ultimo Duecento, col secondo Trecento il primo Quattrocento; e le separazioni non avvenivano senza difficoltà: sembravano tagli.

Il che, sia ben fermo, non implica ombra di disprezzo e tanto meno un rifiuto del secondo Trecento; importa solo che il primo Trecento è tutto un'altra cosa.

9. Chiudo la parentesi, ripiglio il discorso. Il popolo italiano, dicevo, nel secolo decimoquarto, possedeva dunque nella sua lingua di tutti i giorni quasi per intero la tradizione cristiana, dalle voci più lontane e assenti alle più vicine e presenti, in una misura così vasta, con una partecipazione così intima (ancora, tuttavia, senza una coscienza riflessa e critica), che non si è mai più ripetuta eguale nei secoli.

Nel volgare italiano del Trecento è la tradizione cristiana, dalla bibbia ai Padri, dai Padri ai Dottori, dai mistici agli asceti, dai metafìsici ai moralisti, dai predicatori ai teologi, dagl'inni alle laudi, dalle musiche alle pitture e alle architetture (appunto nei testi letterari si dovranno ricercare e scoprire le «istruzioni», che venivano poi passate agli artisti, i quali si definivano «autori per analfabeti»), dai vescovi ai monaci, dai fondatori d'Ordini agli eremiti più spersi, dai testi dei confini dell'India e dell'Etiopia ai testi celtici, dalla storia più savia alla leggenda più pazza.

Purtroppo a codesto volgare italiano delle origini i teologi non hanno guardato, perché è volgare, non è latino; e hanno anche loro, i teologi, la loro superbia, seppure non quella di un tempo, e senza il furore d'allora; e i letterati ci hanno guardato soltanto per la lingua, come chi cerca perle tra le immondizie. Quel volgare è lingua, quel volgare è dottrina, niente da replicare; ma quel volgare è soprattutto storia, la più rara storia di un popolo, quale è la storia spirituale.

10. Ma e la poesia?

La domanda non mi viene inaspettata e chiedo scusa se l'ho lasciata qui per ultima. Debbo aggiungere che, nella mia qualità di «randagio», senza casa e senza scuola, senza maestro e senza alunni, non intenderei nemmeno rispondervi. Ai poeti in atto, non poche di queste pagine parranno poesia, ne sono certo; e mi saranno stranamente grati, quando si accorgeranno che sono, più d'una volta, pagine assolutamente nuove. Non ci sarà, qui dentro, di quella poesia che ondeggia tra il sentimento e il civismo, tra la canzonetta e il discorso patriottico; di certo ce n'è di quella che, tornata a piacere agli uomini appena da cento anni, sembra essere, non poesia, ma un'altra intelligenza; poco o nulla frequenta le scuole, e se qualche volta torna a entrare in una chiesa, c'entra per sbaglio e vi è ricevuta, regolarmente, come i cani.

Lascio stare, dunque, la poesia, e passo ad altro che mi preme molto di più: passo ad affermare che c'è la prosa. Sono queste le ultime pagine, scritte prima che, sopraffatta dall'umanesimo invadente, la prosa volgare cambiasse accento.

E sono pagine di una prosa non grassa e carnale, non equivoca e ambigua. Una prosa ignuda, casta, magra: simile, assai spesso, alla Maria Egiziaca comparsa a Zosima: «ebbe veduto andare verso 'l merizo come una persona nuda, col corpo nero e secco per lo sole, e coi capelli canuti e bianchi come lana, e non eran lunghi se non infino al collo».

Chi scriveva, aveva negli orecchi le musiche più imperiose della parola antica e della parola ascoltata in chiesa, tra gli inni e le luci; e insieme scopriva, parlando e scrivendo, le musiche più incantate della parola nuova. Sentiva un gusto a parlare, un piacere a scrivere, che non ritornerà mai più per l'avvenire; e quando tornerà, sarà tutte le volte, per l'appunto, un ritorno, ma un ritorno vano, una nostalgia. Al Trecento si ritornerà come per rinascere; ma nati una volta, e nel Trecento si nacque, non si nasce più, non si rinasce più. Questa la meraviglia delle nostre pagine, e la nostra tristezza alla loro presenza e in confronto.

Non spetta a me discorrere di poesia e di prosa; credo, peraltro, di poter dire che le pagine qui dentro raccolte non sono tasselli di Crusca né trucioli. Valgono, il meno che valgono, quanto la pittura degli stessi anni, negli stessi paesi: Siena, Firenze, Lucca, tutta la Toscana, l'Italia.

11. E per quel che mi spetta, io avrei finito. Aggiungerò un'altra parola, non inutile neanche essa, spero.

Vorrei ammonire i giovani a tornare, non tanto all'erudizione, quanto ai manoscritti. Le biblioteche d'Italia ne sovrabbondano; e non ce n'è, non dico cataloghi ragionati, ma cataloghi ragionevoli; e gl'inventari a stampa che ce n'è, sono provvisori e scadenti, tranne pochi esempi, insignì ma pochi. Avessi io la voce d'un Foscolo e d'un Carducci, richiamerei gl'Italiani alle biblioteche, vere foreste vergini, in gran parte tuttora da esplorare. La storia e la letteratura religiosa vi errano dentro, come fiere selvatiche; lì, e negli archivi capitolari delle diocesi più grandi. Molto si cominciò nel Sei e Settecento; molto si ricominciò un'altra volta, nel secondo Ottocento, quantunque disturbati dalla prevenzione religiosa, frastornati dalla passione politica. Oggi, dopo tanto sangue e, ahimè, tante ciarle, con la ripresa nuova della vera filologia, con il progresso fermo della paleografia, con l'ausilio di una più agguerrita linguistica, con gli «istituti storici» dei maggiori Ordini religiosi, tornerà facile d'un codice in volgare accertare il tempo e gli anni, la regione e il luogo, spesso addirittura gli uomini da cui ebbe origine. Il manoscritto è qualcosa di venerando, e non una bizzarria di erudito in vena di snobismo; vale, io non mi stancherò mai di ripeterlo, quanto un quadro, quanto una statua, quanto un edificio. I giovani, quelli che ho conosciuto e amato, stanno su questa nuova via, e con loro è in cammino l'Italia di domani.

In secondo luogo, gli scritti che seguono sono materia toscana, con una preponderanza di Siena, e poi di Pisa e Lucca, sopra la stessa Firenze; alla quale Firenze forse vengono innanzi, qui dentro, persino Pistoia e Prato. Chi potesse disegnare, sul filo della prosa tutta ridiscoperta di quegli anni, la geografia linguistica della Toscana di allora, disegnerebbe una nuova carta geografica. Dell'amico Schiaffini poche altre volte tanto ho sentito vicina e preziosa l'amicizia, come nell'allogare ora qua ora là, in Italia, l'uno o l'altro di questi testi.

Del lessico, inutile dire; ma anche la sintassi dei nostri benedetti scrittori non è meno miracolosa della loro qualità poetica; e ove si riesca a intenderla e a rendersi conto di certi nessi parassitarii, di puro agganciamento esteriore (nel manoscritto, la scrittura veniva giù compatta, senza aria di «a capi», senza una interpunzione definita), si rivela svelta come un volo d'uccello. Ho posto una virgola d'isolamento dopo molti onde, anche, di che, per ciò che, ecc.; ma potevo metterla anche dopo tanti e, ma, non meno, al nostro gusto, abbondanti. Ho cercato di «liberare» più che potevo (non alterando, tuttavia, il minimo suono o fonema originario, e senza mai dipartirmi dai testi) questa prosa che sa giungere, senza una resistenza al mondo, senza una durezza, ai voli più spaziosi e alti, voli d'estasi; e sa instaurare, nel parlato, un superiore brio vivaldesco, una sovrana eleganza mozartiana; a parte la solidità giottesca dei paesi e delle scene, degli sfondi e dei gesti.

Questi formidabili e inconsapevoli scrittori, anonimi i migliori, sono il più delle volte toscani della più bell'acqua, ma non sempre né tutti sono toscani. A parte che tra i toscani stessi mi sarebbe piaciuto, se non me lo avesse impedito la discrezione, far separatamente la parte di Firenze e quella di Siena, quella di Lucca e quella di Pisa, quella di Arezzo e quella di ogni «villa», quella dei contadi e dei colli, quella delle giogaie appenniniche e quella delle marine; a parte che la Toscana anche da sola, in fatto d'arte, è un mondo, e in fatto di prosa è stata sino al secolo scorso innumerabile quanti erano i parlanti; a parte, dunque, codesti begli o brutti discorsi, nella nostra silloge, qua e là sono rappresentate anche altre regioni . Poco ho potuto abbondare, in simili esempi d'altre regioni; e avessi potuto, rendevo testimonianza a tutta l'Italia, senza preferenze né esclusioni, ed era molto utile, perché si sarebbero colte le diverse qualità di arte da regione a regione, e tutte le attitudini, le luci, le risonanze, non più toscane ma sempre italiane. Paesi come l'Umbria e le Marche, i più vicini alla Toscana di fondo e di grazia, sono qui in qualche modo più rappresentati, ma talmente poco, anche loro! Potevo metterei brani in crudo dialetto? l'ho tentato una volta sola, per un testo veneto. Una letteratura italiana, situata geograficamente in scompartimenti regionali, come sinora è situata solamente la poesia dialettale e quella popolare, darebbe, io credo, paesaggi spirituali nuovi, nelle origini.

12. Come a chi visita un museo, tutto quel che vede dopo i primitivi glieli fa rimpiangere, e ad essi ritorna pensando mentre vede altro, e ciò non per un vezzo puerile, ma proprio per la nostalgia che gli risvegliano d'una maturità meglio venuta e più pura; così a chi abbia per qualche tempo praticato questi scrittori, riesce doloroso lasciarli. Ripeterli non si può, separarsene dispiace. Non sono primitivi nel senso che siano amala pena sbozzati, bensì e al contrario nel senso che hanno raggiunto la compiutezza perfetta e tuttavia elegante della giovinezza. Non sono più adolescenti: da poco, ma sono oramai adulti. La loro è una luce di mattina alta, in alta montagna, luce d'alta Engadina. La luce, per intenderei, nella quale fu scritto Zaratustra; di pazzia autentica, se pazzia vogliamo dirla, non di quella fittizia, procacciante e politicona, di un Barrès e di un D'Annunzio.

A Sils Maria, un vecchio mi diceva come al delirante poeta, che, parlottando tra sé e sé, passeggiava tra i due laghi e nella penisoletta di Chasté, i monelli spietati riempissero di sassolini l'ombrello di seta rossa che portava al braccio, ed egli non se ne accorgeva, e ai primi spruzzi di pioggia apriva l'ombrello, e si stupiva e rideva come in sogno ai sassi che gli venivano in capo. Qualcosa tra Jacopone e Leopardi, Nietzsche fu, dopo Kierkegaard e prima di Kafka, il santo laico, il mistico senza Dio dei nostri tempi, il poeta della quintessenza umana, il profeta del proprio umano superamento. Identico - non però favoloso, bensì concreto, perché cristiano - fu il segreto degli scrittori di questo volume: il soprannaturale - sovrumano, non superumano - potere che dell'uomo fa una cosa divina, la capacità spirituale e reale di una trascendenza effettiva ed effettuata, l'alchimia dell'umano nel «di là dall'umano».

E non è da credere che tale segreto questi scrittori lo ignorassero; il maggiore tra essi lo ha detto in tutte lettere: «trasumanar significar per verba». [17] La teologia parlava di «transustanziazione»; l'alchimia voleva mutar gli elementi da cosa a cosa, tanti anni prima dei nostri anni dell'atomica; l'ascesi cristiana, sul fondamento del domma, che definisce la grazia una partecipazione in atto della natura e della vita divina, intimava all'uomo il divino, attraverso una nuova nascita. La grazia, secondo il catechismo, non è altro che l'amore di Dio per l'uomo, nell'attimo in cui suscita l'amore dell'uomo per Iddio, e con esso s'incontra.

Il loro filtro di scrittori era lo stesso che possedevano i loro personaggi: l'amore trasfigurante e trasformante. Nell'amore aveva luogo, come in un processo segreto, la trasmutazione dei valori, il prodigio della metamorfosi dell'uomo, non già in verme, secondo Kafka, che si ricordò di Cristo e d'Isaia;[18] ma, senza tante perifrasi, in angelo. Dante lo aveva detto, parlando di vermi e di angelica farfalla,[19] e non solo l'aveva detto, ma l'aveva effettuato, creando in imagine un paradiso, tutto fatto di sola luce e di solo suono. L'amore di donna era nulla, di fronte al tempestoso e delirante amore di Dio. L'eco, appena un'eco, ne risuona nelle nostre pagine, ma è ben l'eco di quel pianto e di quel canto, udito in molta lontananza. Dentro il cuore di questi scrittori «minori», ma religiosi, pur nella notte del secolo e dei sensi, tonava e balenava la luce di Dio; accade perciò che al paragone, innanzi a una sola di quelle prose per lo più anonime, può persino apparir frigido letterato e musicante cortigiano il sovrano Petrarca, può persino parere equivoco e grosso giocoliere il fiorente Boccaccio: l'uno e l'altro, infatti, sentirono e desiderarono sull'u ltimo ciò che a loro era mancato, ma Dante aveva avuto.

Ai lettori non prevenuti, e a quei cristiani che, meno intinti della vanità del secolo, sapessero, d'esperienza, che cosa sia vivere da penitenti e pregare senza misura, ciò che io dico non farà battere ciglio: è la verità più elementare. Il tema dell'amore di Dio, da un capo all'altro di queste pagine è dunque il tema sopra tutti i temi, il tema di chi è già nel paradiso col cuore e tuttavia rimane con tutta la carne in tutte le asprezze. Gli studiosi della pietà conoscono, da poco hanno cominciato a conoscere, quale ponderoso tema sia: prima parlavano dell'umanità di Cristo, per venir incontro agli storici dell'arte, che dovevano spiegarsi in qualche modo un prevalere di naturalismo, in rappresentazioni le quali di «visioni» divenivano «vedute»; ora parlano, molto meglio, di predominio dispotico dell'amore, un amore estatico e irrazionale, nei primi tre secoli dopo il Mille: predominio che un solo e grande corrispettivo ebbe nella risurrezione del diritto romano e della indagine filosofica, entro gli stessi secoli.

Qui è la vera «Ursprung der Minne». Non che prima non ci fosse diritto né arte, né civiltà né amore: sono storie; ma erano altra cosa. Lo stesso Gregorio VII, il maggiore dei pontefici romani, che ricapitolò in sé il primo millennio cristiano e creò il secondo, era squassato da sussulti di devozione estatica, meno palesi in lui che nel suo amico Pier Damiani: sempre i roso, questi, fuorché quando si quietava «nei pensier contemplativi». Antichi e nuovi monaci, canonici regolari, certosini, tutti procedevano per la nuova strada. Spunteranno poi i frati del popolo minuto; e come le chiese e l'arte, così creeranno i libri e la lingua per codesto popolo, da cui uscivano e nel quale - fu la loro novità immensa - tornavano. L'alimento delle sante milizie e il loro fuoco interiore essendo l'amore estatico, non s'intenderà la letteratura religiosa del loro secolo, se non si muove da siffatto amore.

Negli anni in cui Machiavelli scriveva il Principe, un patrizio veneto giorno per giorno prendeva nota del suo amore di Dio; si chiamava Paolo Giustiniani, e si era fatto camaldolese. All'altro capo della catena, cinque secoli innanzi, Giovanni da Fécamp orchestrava già, timidamente, una musica che di lì a poco scoppierà in corali. Il mondo fra i due termini apparisce diviso in due schiere, gli estatici e i dialettici, non senza che si riscontrassero, qualche volta, le due appartenenze nell'identico uomo.

13. Stampando questi testi, o ristampandoli, il mio pensiero è stato di far presente in che aura di miracolo nascevano. Miracolo a rigore significa un fatto dimostrativo di Dio, perché compiuto di là dalle forze di natura; ma può anche voler dire la perpetua meraviglia della vita divina nella vita umana, lo star di continuo in attesa e in ascolto alla presenza di Dio e innanzi ai fratelli, nelle ore del tempo e tra gli aspetti delle cose. Questa facilità di vera e costante sorpresa, questa ebbrezza vereconda, questa meraviglia segreta e amica del segreto, questo paradiso profondo, questa immortale dolcezza, questa potenza dissimulata nell'infermità, ecco l'aria natale delle nostre pagine, quell'aria indarno domandata poi, dai poeti, a paradisi artificiali: l'aria, dico, dell'innamoramento.

Vivevano, i nostri scrittori, in una città che era non più terrestre, sebbene vivessero sulla terra; o quand'anche non ci vivevano, occorreva loro, a viva forza di immaginazione, trasportarcisi, perché non altrove vivevano i loro personaggi. Il mondo visibile lo vedevano con strani occhi; irriconoscibile vi era la sembianza dell'uomo e delle sue cose, quasi in apparizione e trasfigurazione. Con estrema libertà, piegavano docilmente paesaggi architetture prospettive alla esclusiva obbligazione di dare, con meticolosa verità, stati ultraterreni, veri soltanto in fantasia; e dare, in parole sonanti, tenuissimi stati d'animo. Valeva, per essi, la parvenza, la visione, il sentimento anche impercettibile d'amore di Dio, un moto di pensiero, un paese immaginato. Nascevano così quelle rappresentazioni senza corpo, mentre pure i corpi mantenevano il. loro disegno fermo, i loro volumi solenni; e nascevano quale trasposizione normalissima dell'invisibile nella linea e nel colore, dell'indicibile nel suono e nel segno della parola. Non s'intenderanno mai le pagine che seguono senza aver fatto i conti con tanta familiarità del prodigio, perché anche la più grigia e deserta ora dell'uomo a un tratto si colmava, allora, della presenza di Dio, e colma si voleva che restasse sempre.

Da ultimo, non si creda che a costoro veniva fatto di scrivere, così, senza una preparazione al mondo, senza una trepidazione, senza un impegno. Stoltezze, dovute alla incongruenza d'una lettura indòtta e faziosa. Il magistero e la disciplina di quest'arte venivano praticate con uno scrupolo, che andava sino alla sofisticheria e alla fanaticheria. Vorrei che il lettore avveduto si rendesse conto come nessuna pagina veniva a loro improvvisa, senza una previa gestazione, diuturna, laboriosa, dolorosa. Una versione, una pura e semplice versione, sgorgava da una spirituale, lenta saturazione del testo da tradurre: periodo, frase, parola, cadenza, ritmi vasti e scoperti, ritmi minuti e celati, tutto giungeva sulla carta, non certo sotto la pressione arida dell'analista e dell'annalista di se stesso, ma non senza una chiara coscienza del mestiere. Scrivevano per il popolo, e avevano in dispetto le manie e i vezzi degli scrittori latini, ma si consumavano gli spiriti a scrivere. Un Cavalca e un Passavanti tramutavano il latino bolso in un italiano schietto, come chi dicesse che erano talmente giovani, da ringiovanire, intorno intorno, anche i loro vecchi.

Noi questi scrittori presentiamo alla lettura, a una dotta lettura; pertanto, pur avendo, col massimo rispetto e serbandoli intatti, dato loro un aspetto esteriore accostabile da un lettore colto, non stemmo a far la storia della prosa d'allora, non ci diffondemmo a riferire e descrivere quali fossero le loro preparazioni tecniche, sia dal lato della letteratura religiosa, che ne è il fondo, sia dal lato della storia della lingua. Ma occorre tener presente che, pur compilando e traducendo, riuscivano originali e paesani; al contrario di tempi nei quali, pur scrivendo di proprio, si è scimmieggiato l'altrui. Ha scritto il Giordani: «il principio dell'età corrente mostrò un paralitico desiderio di rifarsi italiano, come se dal belletto e non dal sangue venisse l'aspetto di sanità; tutto finì prestamente in miserabil pedanteria di pochi. Pare che siamo destinati a condizione e figura di scimie: come le scimie non accendiamo il fuoco; ci scaldiamo all'altrui.» [20]

Gremiti di latinismi e con l'infiltrazione di gallicismi, tuttavia non pèrdono l'accento toscano e il tono paesano, nello scrivere. Abbiamo, in apertura della silloge, recata la testimonianza del traduttore di Climaco, appunto perché risultasse tangibile lo sforzo di chi, una dottrina latina e universale, eguale da per tutto, doveva versare in parole che, da una città all'altra e da un contado all'altro, variavano. Si è fatta seguire la nota di Cristofano di Tascanella, perché testimoniasse con quale scrupolo, allora, veniva trattato un testo.

Esco da questa fatica come una vecchierella esce da un bosco vivo e verde, col suo fastello di rami secchi sul capo; e se pensa con gioia al suo povero fuoco, ha di continuo nella mente la foresta !asciatasi indietro, piena d'ombre e di luci, di mille morti e di mille vite, mormorante, sterminata. Ho fatto ben poco, pur avendo esasperato la pazienza di editori, tipografi, revisori; e, forse anche, o lettore, la tua pazienza. Ma non potevo fare di più; né, spero, mi si vorrà male, se qui e poi a piè di pagina non ho accumulato, more scholastico, le bibliografie di rito con le illustrazioni a tipo enciclopedico o del tipo «lezione», su autori, opere, tempi e generi. Lo studio è intraducibile in generalità e genericità, perché, quando è vero, sta sempre sul particolare. La scienza infatti è dei particolari, e soltanto la filosofia è degli universali: tra l'una e l'altra, mediano le pure chiacchiere. Al lettore non inerudito, credo aver sodisfatto con le pagine che precedono; e d'altra parte, un minimo di sforzo dovrà ben farlo personalmente lui: non potevo tutto sbriciolare in tante note, e a chi legge di queste cose trattarlo come un passero.

Mi ci vuole, invece, una parola per taluni criteri seguiti, e la dirò in ordine:

a) Ai teologi dirò che non ho dato esclusivamente scritti di ascetica o di mistica, agli storici della letteratura italiana dirò che non ho dato esclusivamente scritti di narrativa o di poesia: quelle due materie dei teologi meritano sommo riguardo, non soppiantano però tutta la letteratura religiosa d'una civiltà e d'un popolo; e queste due dee, «se dir lice e conviense», della critica d'oggi, tanto poco rappresentano, loro sole, la letteratura d'una nazione, che ne formano, a rigore, soltanto la parte amena; amena letteratura, si diceva una volta: amena.

b) Ho preso di dove mi capitava, da stampati o da manoscritti.

Potevo restringermi a prendere dai soli manoscritti, perché dei testi qui riprodotti non ne trovavo uno solo edito criticamente: gli stessi Fioretti di san Francesco, tanto vezzeggiati, sono ancora da pubblicare, a rigore di stretta filologia testuale. Nello stesso modo, potevo restringermi a prendere dai soli stampati, facendo luogo ad altri scrittori, non da meno dei presenti; ho peraltro fatto ricorso ai manoscritti, allo scopo di far toccare con mano come, di fatto, i due terzi della letteratura religiosa italiana del Trecento sono tuttora inediti, e la parte edita non è edita a dovere, non dico in quanto testi religiosi, dico in quanto testi italiani.

c) Pigliando dagli stampati, mi sono sempre fidato degli editori, salvo quando la mancanza di senso mi ha sospinto per forza, se non volevo rimontare ai manoscritti,[21] verso gli originali latini. E tutte le volte, infatti, che, per disperazione, alle fonti latine tornavo, il disgusto per le edizioni cresceva. Di rito, ai copisti si addossano i più strambi errori; in confronto con gli editori, i copisti sono invece tanti angeli del paradiso. Riesce inesplicabile come torme di preti e frati dapprima, schiere di filologi e professori dappoi, abbiano lasciato inselvatichire a questo modo così leggiadro orto. Mi sono limitato a ridurre a un aspetto relativamente uniforme i testi che trovavo stampati, senza ripetere l'aspetto cinquecentesco di uno, secentesco d'un altro, settecentesco d'un terzo, ottocentesco d'un quarto. Non oso ripromettermi, tuttavia, che la lettura riesca facile: ingenui soltanto in apparenza, sono in realtà testi piuttosto ardui e capziosi, che divengono perspicui soltanto a furia d'essere letti, riletti, e magari trascritti e ritrascritti. Debbo chiedere venia, a questo punto, ai tipografi pazienti, ai correttori intrepidi, per le successive chiarificazioni d'un testo dall'una all'altra bozza; ma debbo a mia scusa aggiungere che, per me almeno, non ci siamo ancora.

d) Quasi facile, in paragone, mi è riuscito il compito di editore, quando traevo il testo per la prima volta da un manoscritto: non mi ci voleva nessun lavoro di ripristino e di restauro; bastava una desta avvedutezza, per rendere in segni moderni gli antichi suoni. Ho modificato i segni o la grafia, mai un suono né una forma.

e) Ho seguito di mio alcune norme, oltre quelle prescritte nella collezione. Mirando ad alleggerire la lettura di quegli scoppi e sussulti che nel Sei e Settecento davano alla prosa quel «tuono» che allora mandava in visibilio, ho dato un altro governo all'ortografia, all'interpunzione, al periodo. Ho accusato con una virgola (già l'ho detto) gli anche, onde, item, ancora, ecc. Ho accentato, di regola, le forme verbali, fornite di uno o più suffissi insoliti, lontani dall'uso odierno. Spesseggiano le virgole piuttosto che difettare, ma il Leopardi e il Manzoni, i due maestri avversi, hanno lasciato d'amore e d'accordo questa eguale consegna alla prosa d'arte italiana, sia di gran portamento sia d'uso corrente.

f) Mi sono astenuto dall'erudizione dei manuali e delle enciclopedie, e mi sarei vergognato, come un fannullone, di allineare sotto i vari passi impressioni mie, con la scusa di far «commento estetico». Ancora di più ho tralasciato, con le note dotte e con le note estetiche, le note saccenti là dove il testo è tutto chiaro; semmai, ho notato le volte che non capivo e non sapevo. Le citazioni, fuorché le bibliche, e le bibliche esplicite, le ho lasciate di regola cadere senza rinvio: chi è pratico, sa che la ricerca delle citazioni va condotta sugli originali, non sulle versioni, perché la reminiscenza biblica, per vari secoli, ha fornito il più ricco contingente di frasi al letterato; fenomeno che noi italiani intendiamo a volo, avendo nell'orecchio tanta prosa dei puristi, costellata di frasi fatte (e quella di un Giusti, tutta un intarsio di riboboli).

g) Potrò parere non equo verso testi che costituiscono il pane quotidiano della letteratura religiosa e un triangolo vistoso del funambolismo ammirativo. Resti ben chiaro che a me non importava demolire, importava sgombrare l'aria intorno ad altri testi, non meno degni, se non più degni, i quali meno sollecitavano il lettore con il brio della «narrativa» e le lusinghe della (( liricità»: testi, intanto, sinceri, non mendaci; testi di pace (e quale pace!), non di guerra; testi non vivaci, non loquaci, vivi vivissimi, e silenziosi e fermi: testi elusivi, ma d'una insopportabile dolcezza. Non starò a fare rimandi espliciti: il lettore esperto ama giungervi di suo, e arrestarvisi come a una sua trovata. Al lettore non accorto non saprei che cosa dire, quando non lo soccorrono le comuni insegne stradali.

Ho finito. E forse non mai come adesso che lo licenzio, e il libro, esitando sulle soglie di casa, sta per uscire, forse non mai come adesso ho sentito che, quando un libro esce, nulla è finito e qualcosa comincia.

NOTE

[1] Vedi il frammento d'inventario in «Rivista delle Biblioteche e degli Archivi», XI (1900) 89-90.

[2] Pierre De Nolhac, La bibliothèque de Fulvio Orsini; Paris, 1887, p. 326.

[3] È il manoscritto vaticano, segnato Barberiniano Latino 4094. Il Bembo lo ereditò dal padre, che già lo aveva letto e postillato di suo; lo lesse e postillò anche lui, a uso di spoglio linguistico, traendone quelle che presto saranno le prime schede di Crusca. Discorrerò del manoscritto, notevole per l'Egidio ancor più che non per il Bembo, in una pubblicazione imminente.

[4] La libraria del Doni, Venezia 1551, pp. 62-62v: «Sacra Scrittura et Spirituali».

[5] G. CARDUCCI, Il libro delle prefazioni; Città di Castello, S. Lapi, 888; pp. X-XI.

[6] «de ipso licteralis fonte scientie ac de conversa tione gallicorum plurima»: cfr. «Archiv. ital. per la storia della Pietà», I (1950) 347, linee 20-21.

[7] Gabriele D'annunzio, Trionfo della Morte, prefazione (Prose di romanzi, ediz. Mondadori, 1, 656).

[8] Alberto Vaccari, Scritti di erudizione e di filologia, I (Roma, 1952), p. 374, nota I, parlando del Cantare di san Giovanni evangelista, edito da V. Cian, scrive testualmente: «Il popolare cantastorie che trae la materia delle sue ottave dalla bibbia, dagli apocrifi, da tradizioni, nel primo dei suoi cinque canti traduce o compendia parecchie pagine dell'Apocalisse. Nella stanza 17 fa l'elenco delle chiese d'Asia a cui scrive l'Evangelista, traducendo Apoc. 1, 10; il verso 5 è stampato: “E in Fraterra fa che sia palese”; in nota si legge: “Forse: infra terra?” Inutile congettura; il sacro testo mostra che il poeta dovette certo dire e scrivere “in Tiaterra” (o Tiatera) ossia Tiatira. Per la stessa ragione ivi al v. 3 va corretto “Simina” in “Simirna”, ossia Smirne, e v. 8 “all'Audasia” in “a Llaudasia”, ossi a Laodicea (si confronti il vecchio volgarizzamento dell'Apocalisse pubblicato dal can. G. Greci, Pistoia 1842, a questo luogo, p. 5). Dalla stanza 28 alla 31 è in versi il registro dei dodicimila segnati d'ogni tribù d'Israele, che forma il corpo dell'Epistola alla Messa d'Ognissanti (Apoc. 7, 4-8). Un'occhiata a questo tratto della lezione biblica avrebbe insegnato che, stanz a 30, v. 1, bisognava stampare “de Levi” invece di “d'Elein”; stanza 31, 1: “Di Beniamin”, e non ”Di Bel gli amici”; stanza 32, 7: “Con alta boce” (Apoc. 7, 10: voce magna), non “Con altre boce”; 33, 7 “chiaressa” (claritas), non “caressa” e così via.»

[9] Circa la leggenda di sant'Albano, oltre Alessandro D'ancona, Poemetti popolari italiani; Bologna, Zanichelli, 1889, pp. 1-41; oltre l a Zeit schnftf. bild. Kunst del 1913, sono da vedere - e ne debbo la segnalazione all'amico prof. Ciro Giannelli - per l e derivazioni della leggenda in lingua serbo-croata, dal sec. XVI in poi, ST. Ivsic , Iz hrvastke glagoljske knjizevnosti. Legenda o Ivanu Zlatoustom, nei Prilozi di P. Popovic, XI (1931), pp. 59-82; e lo stesso, Legenda o Ivanu Zlatoustom u Habdelicevu «Zrcalu Marjianskom », nei Prilozi, XVIII (1938), pp. 13-22.

[10] Il testo latino della preghiera (P. L., 101, 1385-1386) risale per lo meno al secolo VII, a giudizio del Wilmart, che ne cita i più antichi manoscritti a sua conoscenza: cfr. Auteurs spirituels et textes dévots du Moyen Age latin; Paris, Bloud, 1932; pp. 575, nota I. Il Wilmart l'ha ripubblicata in Precum libelli quattuor aevi carolini; Roma, 1940; pp. 10-11 e cfr. «Revue Bénédictine» XLVIII (1936) 275-276, n.3.

[11] Cfr. Jean Leclercq, Études sur saint Bernard et le texte de ses écrits; Roma, 1953; p. 79: «En quelle langue prechait saint Bernard?»

[12] Si tenga presente che più d'un a volta s'incontrano casi inversi: dal volgare si traduceva in latino.

[13] Delle versioni di Livio, il Billanovich scrive che «rappresentarono un passaggio importante nello sviluppo della filologia de i primi umanisti e una strada maestra nella formazione della più antica prosa letteraria italiana» («Giornale storico della Letteratura italiana» LXX [1953] 312).

[14] Prefazione alla vita di sant'Antonio abate (P.G., 26, 834). Cfr. J. T. Muckle, Greek works translated directly into Latin before 1350, in "Mediaeval Studies" (Toronto), IV [1942] 33-42; v [1943] 102-114.

[15] Giordano Da Rivalto, Prediche sulla Genesi; Firenze, Magheri, 1830; p. 84.

[16] Giuseppe Giusti, Consigli, giudizi, massime, pensieri; Firenze, Le Monnier, 1886; pp. 138-139.

[17] Dante, Par., I, 70.

[18] Salmi, XI, 7.

[19] Purg., x, 125.

[20] Dedica, in data 1 luglio 1838, della Irene di Spilimbergo a Madama A. Calderana Butti; cfr. Fiori d'arti e di lettere italiane; Milano, Bravetta, s. a. (è la strenna in cui apparve per la prima volta); p. 136.

[21] Ma non potevo, senza cambiar natura alla silloge, tutte le volte rimontare ai manoscritti, ancorché identificati (come nel caso di Ugo di Balma, venuto al Sorio dal Marciano It., 1, 58).

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