PROSODIA

Enciclopedia Italiana (1935)

PROSODIA

Giorgio Pasquali

Il termine greco del quale questo è trascrizione (προσῳδία) si riferisce originariamente all'accento; anzi il latino accentus (da ad e cantus) non è se non una riproduzione di esso compiuta con materiale linguistico italico, un calco. La versione italiana migliore, chi consideri la natura prevalentemente musicale dell'accento antico, sarebbe "intonazione". Ma ora (e quest'uso ha precursori già in tardi grammatici greci) è chiamata prosodia la dottrina delle quantità, cioè delle vocali e sillabe lunghe e brevi. Limiteremo la nostra trattazione alla prosodia greco-latina.

La distinzione tra vocale lunga (indicata con -) e vocale breve (indicata con⌣) - i dittonghi sono, tranne casi particolarissimi, lunghi - era di grandissima importanza nell'indoeuropeo comune: essa è presupposta dalle differenze di grado, che servono a caratterizzare numerosissime classi di forme, anzi costituiscono nell'indoeuropeo il fondamento della morfologia. La distinzione si mantiene a lungo nel greco e nel latino; è ancor viva in numerose altre lingue indoeuropee (per esempio, in lingue slave, in tedesco, in inglese, ecc.); e ha posto importante anche in lingue di altri gruppi, per esempio nel finno-ugrico. Al nativo dell'Italia centrale sentire la distinzione tra vocali lunghe e brevi riesce più difficile che ad altri, perché proprio i dialetti dell'Italia centrale, i più vicini alla lingua letteraria, tendono a pareggiare le quantità: casi come un de' tuoi in cui (nel de') si sente una lunga, e viceversa degno, legno in cui la brevità della sillaba accentata si rivela, non appena si confronti il modo come essa è pronunciata, per es., da un Emiliano, sono assai rari. Quindi proprio agl'Italiani centrali riesce più difficile sentire direttamente la metrica (v.) greca e latina che si fonda esclusivamente su alternanze quantitative.

Conviene distinguere sia in greco sia in latino tra vocale lunga e sillaba lunga. La vocale può essere in sé breve, ma la sillaba sarà sempre lunga, ogni qualvolta sarà chiusa (cioè finirà in consonante). I grammatici antichi parlano in tale caso, erroneamente, di vocale lunga per posizione, mentre fonetici moderni distinguono tra la durata della vocale e quella della sillaba. La metrica classica considera solo la lunghezza della sillaba e non quella della vocale. Invece la storia della lingua latina nei suoi stadî più recenti mostra che vocali "lunghe per posizione" erano nella pronuncia sentite quali brevi: infatti nelle lingue romanze tali vocali sotto accento hanno appunto seguìto in genere le vicende delle vocali brevi e non di quelle lunghe per natura.

Sorge quindi per il latino il problema di stabilire la lunghezza delle vocali che si trovano in sillabe chiuse. Oltre che sul fondamento dei riflessi romanzi, la determinazione può avvenire in casi singoli in base a:1. testimonianze di grammatici; 2. trascrizioni greche che rendono le vocali lunghe ē, ō rispettivamente con η e ω l'ī talvolta con ει; 3. επιηραζι arcaiche, dove si scrive ancora, conformemente all'antica pronuncia, ei e ou per quei dittonghi che sboccheranno nel periodo classico nelle lunghe i e u (dunque deixi e noundinum); 4. altre epigrafi che adoprano, per indicar la lunga, la geminazione. (Maarco, paastores) o, per l'i, l'i lunga (una i più alta delle altre lettere). Applicando tali criterî si è giunti per il latino a resultati di grande importanza:1. dinnanzi ai gruppi ns, nf, nei quali l'n era ridotta, la vocale era allungata: cōnsules; 2. parimenti dinanzi a nc + consonante: ŭngo ma ūnctus; 3. i participî perfetti in -to allungano la vocale se il suffisso era originariamente preceduto da media: dunque āctus da ăgo, ma făctus da făcio (regola di Lachmann); 4. anche il gruppo media + s allunga la vocale precedente: măgis ma māximus; 5. dinnanzi a muta geminata la vocale lunga si abbrevia: lĭttera da lītera.

Per il greco il problema è assai più ristretto, perché la lunghezza della vocale è indicata da una sillaba diversa per l'e e l'o e, nei dialetti ionico-attici, anche per l'ā, la quale si è in essi confusa con l'ē; e inoltre soccorre molto spesso la tradizione intorno all'accento, il quale è con la quantità in connessione diretta (circonflesso può stare solo su vocale lunga, e deve starci ogni qualvolta lunga e accentata è la penultima sillaba della parola, breve l'ultima).

A una data quantità non è congiunta necessariamente anche una data qualità: dottrine metriche che si fondano sul suono invariabilmente stretto di vocali lunghe, sono errate. Nel greco preellenistico l'e lunga doveva essere almeno per lo più pronunziata larga, se un solo segno indica allungamento di e e allungamento di ā, se l'alfabeto ionico introdusse un'espressione convenzionale ει per l'ēchiuso; dal periodo ellenistico in poi essa si restringe, sino a passare a i, mentre l'e breve è ora larga almeno in sillaba accentata e sono larghi tuttora almeno in sillaba accentata gli o, qualunque sia la loro qualità originaria (sulla perdita della quantità nel greco, v. grecia: Lingua). In latino, almeno per il periodo più tardo, l'e e l'o lunghe dovettero esser pronunciate strette, l'e e l'o brevi larghe almeno in sillaba accentata. Questo si deduce dai riflessi romanzi che conservano in massima tale distribuzione e mostrano invece un avvicinarsi (o identificarsi) di ĭ ad ē, di ŭ a ō. Insieme, di qui si ricava che l'antica quantid andò nel latino durante l'età imperiale perdendosi (v. metrica): la quantità si perpetua nelle lingue romanze solo in sillabe accentate, sotto forma di qualità.

Come mostra la poesia omerica, in greco la liquida (o nasale) che segue una muta chiude la sillaba precedente rendendola lunga (vale a dire il confine tra le due sillabe cade tra la muta e la liquida); dunque in Omero πᾰτήρ, ma πᾱτρί. Più tardi, in attico, il confine della sillaba si trasporta innanzi al gruppo consonantico, dunque πᾰ-τρός, πᾰ-τρί. La commedia segue rigorosamente la norma dell'uso contemporaneo, tranne dove imita o parodia la tragedia, mentre questa si attiene spesso, convenzionalmente, alla norma o1rierica. Fanno eccezione rnedia + μ, media + ν, e anche per lo più media + λ, che allungano.

Quest'allungamento di sillaba (positio debilis) è ignoto alla più antica metrica latina: lo introduce Ennio, evidentemente per artificiosa imitazione dei Greci: in latino la positio debilis rimase un fatto metrico, non divenne mai un fatto linguistico, come provano anche qui i riflessi romanzi.

Nella prosodia latina sarebbero da notare molte altre particolarità per le quali manca qui lo spazio: segnaliamo solo alcune delle principalissime:1. ogni vocale lunga che si trova dinnanzi a un'altra, se non si contrae con essa in una vocale unica, si abbrevia (vocalis ante vocalem corripitur). La regola vale in genere fin da tempo preistorico, ma si trovano ancora forme arcaiche con i e u (fūi in Plauto, Dīana persino in Virgilio), perché l'i e l'u svilupparono un suono di passaggio, che si suole segnare rispettivamente con. e u̯ fūi̯i, Dīi̯ana: ; 2. lunga finale di parola è abbreviata dinnanzi a enclitica: ma sĭquidem; 3. vocali lunghe vengono abbreviate dinnanzi a m finale: rēs ma rĕm, ferāmus, ma ferăm. Altri impulsi si sono fatti sentire non sin da principio ma durante il corso dello sviluppo della lingua latina; così: 1. in monosillabi la lunga dinnanzi a t rimane ancora in Plauto, è abbreviata più tardi: Plauto sīt, dēt, più tardi sĭt, dĕt; 2. negli antichi scenici una serie giambica la quale porta l'accento sulla breve o la quale preceda immediatamente l'accento, diventa pirrichia. È discusso in che misura questo mutamento sia prosodico, in che misura metrico (cioè fondato sì sulla lingua ma dipendente anche dall'arbitrio dei poeti). È certo che parole bisillabe giambiche restano pirrichie, anche nella lingua posteriore (bĕnĕ da bĕnē, mŏdŏ da modī, tĭbĭ da tĭbō, ecc.), a meno che la lunga non sia reintrodotta da altre forme dello stesso paradigma; mentre altre abbreviazioni degli scenici non hanno lasciato traccia; certo anche che i bisillabi divenuti pirrichî sono da Plauto ammessi in versi o in sedi di verso, dai quali l'abbreviazione giambica in parole di maggior volume è esclusa. Se ne induce che in bisillabi l'abbreviazione fosse per Plauto un fenomeno ereditato e prosodico, non metrico, diversamente che nelle altre parole; 3. vocali lunghe nell'ultima sillaba di polisillabi dinnanzi a -t, -r, -s, -l sono ancora lunghe negli antichi scenici, ma sono abbreviate più tardi (Ennio ha talvolta la quantità antica, talvolta la recente): Plauto uxōr, arāt, solēt; Ennio splendĕt, mandebăt, ma anche ponebāt; 4. l'o finale della prima persona singolare del presente indicativo e del nominativo singolare dei temi in -ón (homo, regio) si abbrevia durante l'eta imperiale.

Che lo scadimento della quantità abbia più tardi portato a quell'isocronia quantitativa e a quella netta distinzione qualitativa che è presupposta dalle lingue romanze, abbiamo già accennato sopra.

Fin qui abbiamo trattato della prosodia nella lingua, abbiamo cioè considerato la metrica solo quale un mezzo per determinare quali sillabe fossero brevi, quali lunghe nella lingua parlata greca e latina. Ma ogni poesia quantitativa importa convenzioni. È forse già convenzionale la regola per la quale la sillaba lunga corrisponde a due brevi. L'osservazione delle lingue presenti mostra durata di lunghe diverse da caso a caso e anche da una persona all'altra. Del resto quella regola anche nella poesia greca non ha valore generale: noi sappiamo da una testimonianza di Dionigi di Alicarnasso (De nom. compos., p. 71, 8 Us.-Rad.) che la lunga del dattilo era di durata alquanto inferiore a due brevi. Soltanto nella metrica? Testimonianze di musici intorno a lunghe di tre e più tempi possono invece riferirsi alla loro durata in pezzi cantati, dunque a qualche cosa di arbitrario. Ma altre convenzioni, alcune più, alcune meno arbitrarie, presenta già l'esametro omerico: in modo puramente arbitrario non è tenuto conto della lunghezza di posizione là dove l'osservanza di questa renderebbe impossibile introdur le parole nel metro (rare volte anche altrove): Αἰγυ???πτιος. Così in parole formate di 4 sillabe brevi, o che presentano le forme -⌣- (con finale consonantica), oppure -⌣--, ⌣--⌣⌣̲, Omero si fa lecito di allungare sillabe brevi: per es. l'α iniziale di 'Āϑάνατος. Così pure allunga senza scrupolo sillabe finali brevi dinnanzi a parola che comincia per vocale, in ogni arsi e talvolta perfino nella tesi del secondo e quarto piede (un verso comincia Αἶᾱν 'Ιδομενεῦ τε). È dubbio quanto fosse radicata nella lingua la cosiddetta abbreviazione di iato, cioè abbreviazione di vocali finali lunghe (anche dittongo) dinnanzi a parola che comincia per vocale: ἄνδρα μοι??? ἔννεπε. Mentre le altre libertà sono accettate per lo più solo dagli esametrici (e da poeti di altri ritmi solo sporadicamente), l'abbreviazione di iato è consueta nella poesia greca non soltanto in dattili ma anche in anapesti e coriambi (presso Pindaro e Bacchilide e nelle parti meliche del dramma) e nel gruppo -⌣⌣⌣- di certi ritmi corali, nella prima parte del docmio e così via; ma essa è tuttavia esclusa da altri ritmi. Che il digamma in principio di parola abbia valore pieno di consonante, era probabilmente sentito già dai poeti omerici quale un arcaismo, dunque una convenzione metrica, tant'è vero che esso spesso non conta neppure nell'epica; è pura convenzione nei posteriori che di quella libertà fanno uso (una posizione speciale ha il pronome riflessivo di terza persona; dove anche i posteriori paiono sentire l'effetto del digamma quale vivo). Altre libertà omeriche e postomeriche non si possono ricondurre a regola, rivelano quindi ancor meglio il loro carattere arbitrario.

Dell'arbitrarietà della positio debilis nella metrica latina abbiamo già parlato sopra. È dubbio in quale misura abbia carattere convenzionale la misura pirrichia di ille e iste (e altre forme di tali pronomi) negli antichi scenici. Essa dev'essere congiunta con proclisi perché non si trova nell'ultima tesi del senario gìambico e del settenario trocaico né nella quarta tesi del settenario giambico, cioè dinnanzi a pausa. L'osservanza parrebbe dunque radicata nella lingua.

Bibl.: Su prosodia dal punto di vista fonetico, O. Jespersen, Lehrbuch der Phonetik (Lipsia 1904), p. 173 segg.; hanno valore anche per altre lingue le ricerche condotte sull'inglese da E. A. Meyer, Englische Lautdauer, eine experimentalphonetische Untersuchung, Upsala e Lipsia 1903. Per quantità in greco, in genere, R. Westphal, Griechische Metrik, II, Lipsia 1868, p. 66 segg. (raccolta delle testimonianze letterarie); e da un punto di vista più linguistico, C.-A. Schwyzer, Griech. Grammatik, I, Monaco 1934, pp. 180 segg., 279 segg., 370 segg.; per quantità in latino, F. Sommer, Handbuch der lat. Laut- u. Formenlehre, Heidelberg 1914, pp. 118 segg., 142 segg. (di chiarezza esemplare) e Leumann-Hofmann, Latein. Grammatik, Monaco 1928, p. 99 segg.; E. Hermann, Silbenbildung im griechischen und in den anderen indogermanischen Sprachen, Gottinga 1923. Materiale per la quantità di vocali in sillabe chiuse dànno Gröber, Vulgärlateinische Substrata, in Arch. f. lat. Lexicographie, I-VII e Meyer-Lübke, nel Romanisches etymologische Wörterbuch; cfr. anche Marx, Hülfsbüchlein für die Aussprache der lateinischen Vokale in positionslangen Silben, 3ª ed., Berlino 1901. Per la prosodia degli antichi scenici, non ancora sostituito, benché assai invecchiato, C. F. W. Müller, Plautinische Prosodie, Berlino 1869, e Nachträge zur plautinischen Prosodie, Berlino 1871; sulla lex iambica, i lavori del Jachmann citati alla voce metrica, XXIII, p. 106 (v. anche bibliografia alla voce plauto); per una questione particolare, la quantità della prima sillaba di ille e iste, F. Sommer, Kritische Erläuterungen, Heidelberg 1914, p. 115 segg. Osservazioni prosodiche sui poeti posteriori nell'opera di L. Müller citata alla voce metrica.

Per libertà prosodiche della poesia greca, v. P. Maas, Griechische Metrik, Lipsia 1929; per gli allungamenti omerici, la bibliografia citata alla voce omero, XXV, p. 344; la testimonianza di Dionigi di Alicarnasso sulla durata della lunga nell'arsi del dattilo è sfruttata da E. Fraenkel, Rheinisches Museum, LXXII, 1917, p. 192 segg.