Prosopopea

Enciclopedia Dantesca (1970)

prosopopea

Francesco Tateo

Figura retorica consistente nell'attribuire a cose inanimate o a concetti astratti prerogative proprie della persona umana, facendoli parlare e rivolgendo loro la parola. Affine alla p. è la personificazione, che nella retorica classica e medievale non è espressamente e distintamente definita, ma è inclusa genericamente nella ‛ fictio personae '. Essa consiste nel far agire cose inanimate e concetti astratti come figure umane o divine, per la qual cosa viene a incontrarsi col metodo figurativo del simbolismo. Nella Poetria nova di Goffredo di Vinsauf (v.) gli esempi di p. consistono nel far parlare la Croce, la tovaglia e la Superbia (vv. 461 ss., ediz. E. Faral, pp. 211 ss.).

D. introduce la definizione della p. nel Convivio (III IX 2) per giustificare la parte della canzone in cui egli si rivolge alla canzone stessa, e la fa consistere nel parlare a cose inanimate.

In Vn XXV, invece, dove non usa espressamente il termine di p., D. ne dà in effetti una più completa definizione riferendosi all'uso dei poeti latini, sulle cui orme i volgari avrebbero il diritto di usare le licenze proprie del parlar figurato: li poete hanno parlato a le cose inanimate, sì come se avessero senso e ragione, e fattele parlare insieme; e non solamente cose vere, ma cose non vere, cioè... detto hanno, di cose le quali non sono, che parlano, e detto che molti accidenti parlano, sì come se fossero sustanzie e uomini (§ 8). Tuttavia all'inizio del capitolo l'occasione del discorso critico era stato dato dalla ‛ personificazione ' di Amore, cioè dalla trasformazione di un ‛ accidente ' in corpo, fatto ‛ agire ' come persona.

Il tipo classico della p. si scorge dunque soprattutto nei casi in cui il poeta si rivolge alla canzone (e ciò avviene di solito nella tornata), la quale viene personificata quasi in un messaggero che tiene il rapporto fra lui e la donna. Così nel sonetto O dolci rime che parlando andate, che si fonda su una p., è inclusa la personificazione del precedente sonetto (a voi verrà, se non è giunto ancora, / un che direte: " Questi è nostro frate ", Rime LXXXV 3). Oltre questi casi, non c'è che la p. di Amore, accusata e criticamente spiegata dallo stesso poeta. A lui infatti si rivolge talora il poeta, lo fa parlare come un personaggio reale, ma lo fa anche agire: la figura retorica si sviluppa invero fino a giungere al limite dell'allegoria. E allegorie sono le personificazioni di Rime CIV (Drittura, Larghezza, Temperanza), la prima delle quali anche parla secondo lo schema classico della p. (vv. 31-36).

Altrove la p. può più agevolmente catalogarsi come apostrofe (v.), poiché D., per la stessa struttura teologica e religiosa della sua opera, evita di dar ampio sviluppo alle finzioni tipiche degli scritti pagani e le contiene entro gli stretti limiti richiesti dall'ornamentazione retorica. Più vicine alla p. sono apostrofi come Morte che fai? che fai, fera Fortuna...? (Rime CVI 90 ss.); O mente che scrivesti, ecc. (If II 8); O avarizia, che puoi tu più farne...? (Pg XX 82); ma soprattutto come Ahi serva Italia, di dolore ostello... (Pg VI 76), Laetare iam nunc miseranda Ytalia... (Ep V 5).

È collegato con la personificazione l'uso di far parlare l'anima e il cuore in Gentil pensero che parla di vui (Vn XXXVIII 8 ss.), l'anima, lo spiritello, i pensieri in Cv II Voi che 'ntendendo, uso che si ricollega alla tradizione stilnovistica. In Rime LXVII 15 ss. parlano gli occhi, in Vn XLI 5 ss. lo spirito del poeta torna dalla sua mistica ascesa e parla incomprensibilmente al cuore, così come il ‛ desire ' grida, in Rime LXVII 49. Un posto a sé occupa la figurazione dell'aquila composta dai beati del cielo di Giove, che in definitiva è una p. (... io vidi e anche udi' parlar lo rostro, Pd XIX 10), assolutamente insolita perché l'animale che parla è in sostanza il coro dei beati; ma D. sottolinea nei versi introduttivi l'eccezionalità del fatto, che si colloca fra le strordinarie figurazioni, più che fra gli artifici della retorica.

Analogamente la personificazione si risolve spesso in una figurazione allegorica. Non così dov'è personificata la città (rimase tutta la sopradetta cittade quasi vedova dispogliata, Vn XXX 1; quel che Prato, non ch'altri, t'agogna, If XXVI 9; la tua Roma che piange, Pg VI 112; Romam urbem... solam sedentem et viduam, Ep XI 21), o le entità astronomiche ('l sole i crin sotto l'Aquario tempra, If XXIV 2; il freddo animale / che con la coda percuote la gente, Pg IX 5-6; la notte, de' passi con che sale ..., v. 7; la stella, / che 'l sol vagheggia or da coppa or da ciglio, Pd VIII 12).

La p. assume nel Fiore, così direttamente collegato con la tradizione allegorica della poesia didattica e satirica, uno sviluppo inconsueto nell'opera dantesca; i sonetti della raccolta sono infatti generalmente dedicati a figure simboleggianti aspetti della vita morale e psicologica (Franchezza, Pietà, Vergogna, Schifo, Bellaccoglienza, Gelosia, ecc.), che vengono descritte o introdotte a recitare la loro parte nell'immaginaria vicenda. Notevole è, malgrado la tradizionale consuetudine di questa figura, la ricchezza dei composti con cui vengono designate alcune personificazioni (Troppo-dare, Ben celare; cfr. onomastica), e l'affastellamento di esse in sonetti come il LXXIX, che segue del resto un modulo della poesia lirica.

Nel Detto si ritrovano personificazioni dello stesso genere; accanto alle classiche di Amore, Ragione e Fortuna, incontriamo Folle-Larghezza, Cuor-Fallito. Ma particolarmente ampia è la personificazione, quasi un'allegoria, della Povertà (vv. 318 ss.).