MOCHI, Prospero

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 75 (2011)

MOCHI, Prospero

Filippo Crucitti

– Nacque a Roma tra il 1492 e il 1493 da Sansonetto di Giovanni Paolo, «candelottaro», e da una certa Orsolina.

È probabile che i genitori non fossero sposati, perché alla morte di Sansonetto (verso la fine del 1497) il M. fu privato dell’eredità dai parenti del padre. A tutela dei diritti del figlio, il 1° genn. 1498 Orsolina fece redigere un inventario dei beni contesi, che comprendevano, tra l’altro, cinque case nel rione Arenula, una vigna e numerose suppellettili di qualche pregio. Il 31 maggio 1500 fu stipulato un contratto di matrimonio tra il M., rappresentato dalla madre e dal tutore, Prospero di Acquasparta, e Sestilia Sgatesi, rappresentata dal padre Francesco, decretorum doctor e procuratore in Curia. Sgatesi si impegnava a intraprendere, in nome del M., una vertenza giudiziaria per il recupero dell’eredità; il M. a sua volta, prometteva di sposare Sestilia al raggiungimento della maggiore età e di dotarla con i beni recuperati. Rientrato in possesso di gran parte dell’eredità, il M., in una data che non è possibile precisare, mantenne l’impegno e dotò Sestilia con 400 fiorini oltre a 300 fiorini pro iocalibus.

Non si hanno notizie della formazione e degli studi del Mochi. La sua carriera pubblica cominciò con l’acquisto, il 6 sett. 1509 per 1300 scudi, della carica di collettore del piombo, che esercitò dal successivo mese di ottobre. Dopo aver venduto, il 30 nov. 1513, e riacquistato, il 23 ag. 1514, l’ufficio del piombo, all’inizio di dicembre dello stesso anno prese possesso della carica di abbreviatore de parco minori, acquistata da Prospero di Domenico de’ Porcari per 2333 ducati. Il 2 ott. 1520 la vendette per 2400 ducati, per riacquistarla poi nel novembre 1524 e cederla definitivamente il 29 luglio 1525.

Come numerosi esponenti della piccola aristocrazia municipale, il M. fu un abile usufruttuario degli uffici camerali e, speculando sull’aumento dei prezzi e sulla variabilità del valore delle monete, ne fece notevole commercio sia in forma individuale sia nella forma collettiva, introdotta nel 1514 da Leone X, le cosiddette «compagnie d’offizio». Queste erano società che raccoglievano danaro da risparmiatori piccoli e medi e lo prestavano a chi voleva acquistare un ufficio senza disporre di tutta la somma necessaria; la rendita dell’ufficio era suddivisa tra il titolare e i suoi finanziatori in proporzione alla somma conferita da ciascuno; in caso di morte del titolare dell’ufficio, le quote dei finanziatori godevano del privilegio della non vacabilità. Fra gli uffici di cui il M. fece più intenso commercio ci furono quelli di presidente del registro delle bolle di Ripa, della Scriptoria del registro delle bolle e del Clericato del registro.

Altre sue fonti di reddito furono la compravendita di case, vigne e botteghe e l’introito delle relative pigioni, il prestito su interesse, che avveniva in modo più o meno mascherato, in genere sotto forma di «censi» garantiti da un bene immobile o dalla vita di un familiare, infine l’assunzione di cariche pubbliche cittadine (divenne caporione del rione Ponte il 1° genn. 1518, il 1° apr. 1522 e nel 1539; conservatore di Campidoglio il 1° apr. 1526; sindaco degli Ufficiali di Campidoglio il 6 sett. 1545). Il 29 dic. 1522 fu nominato riformatore dello Studio di Roma su interessamento del datario di Adriano VI, il cardinale Guglielmo di Enkevoirt, con il quale ebbe rapporti di amicizia tali da essere designato come suo procuratore, il 17 maggio 1523, nell’atto di acquisto di una casa in piazza S. Luigi dei Francesi.

Il M. godette della fiducia di diversi pontefici, che gli conferirono importanti incarichi amministrativi e militari. Il 23 marzo 1522 fu nominato da Adriano VI cancelliere della guardia del papa e del palazzo apostolico con una provvigione di 12,5 ducati al mese. Confermato nell’incarico da Clemente VII, dovette assistere, il 20 sett. 1526, all’assalto e al saccheggio del palazzo del papa da parte delle truppe del cardinale Pompeo Colonna. Il 31 luglio 1526 era stato inoltre nominato commissario per la provincia di Marittima e Campagna con il compito di impedire, visto lo scarso raccolto di quell’anno, l’esportazione di frumento, biade e altre vettovaglie, di riorganizzare i presidi militari territoriali, di perseguire e punire, con la confisca dei beni, con pene corporali e perfino con la pena capitale, chi si fosse opposto alle disposizioni papali.

Un censimento effettuato tra novembre 1526 e gennaio 1527 annovera il M. tra gli abitanti del rione Campo Marzio. In occasione del sacco di Roma (6 maggio 1527) si salvò riparando in Castel Sant’Angelo, ma ebbe la casa danneggiata e dovette pagare, come molti romani benestanti, una cospicua taglia agli invasori. Nel 1528 ebbe successo la trattativa da lui condotta, su incarico del papa, per la liberazione di padre Andrea Vives, scrittore delle lettere apostoliche e medico pontificio, e di numerose altre persone di origine spagnola residenti a Roma, sequestrate per ritorsione da un gruppo di cittadini romani e di signorotti laziali dopo la partenza dalla città dell’esercito imperiale e tenute prigioniere a Tagliacozzo, Licenza e Vicovaro.

Fu familiare di casa Farnese e godette della protezione di Pierluigi, figlio di Paolo III e capitano generale dell’esercito pontificio, che l’8 ag. 1537 lo nominò provveditore alle vettovaglie per il suo esercito. All’inizio di settembre il M. lo seguì in una spedizione punitiva contro Fermo, dichiarata ribelle per essersi rifiutata di pagare le imposte e di cessare l’occupazione del castello di Monte San Pietro. Dopo il saccheggio della città, abbandonata dagli abitanti che si erano rifugiati nei centri vicini, il 18 settembre Pierluigi, chiamato ad altri incarichi, affidò al M. il compito di imporre ai fermani di rientrare in città e di punire, con la confisca dei beni, chiunque avesse rifiutato obbedienza alla S. Sede.

Anche Paolo III si valse della collaborazione del M., che dal 14 genn. 1538 all’aprile 1542 ricoprì l’incarico di soprintendente alla Fabbrica della fortificazione di Roma, con uno stipendio di 6 scudi al mese.

Decisi dal papa, che riteneva Roma non sufficientemente munita di fronte alle minacce esterne, i lavori, progettati e diretti da Antonio da Sangallo il Giovane, iniziarono nel settembre 1537 sulla riva sinistra del Tevere con la contemporanea costruzione di 3 dei 18 baluardi inizialmente previsti, quello di S. Saba, i cui lavori furono interrotti nel gennaio 1539, quello sull’Aventino, detto La Colonnella, abbandonato nel settembre successivo e quello ardeatino, o di S. Sebastiano, l’unico che risultava completato nell’aprile 1542 quando, per motivi essenzialmente economici (gli introiti dell’imposta sul grano, istituita per questo scopo da Paolo III, non erano bastati a finanziare l’ambizioso progetto) i lavori furono interrotti.

Accantonato il disegno originario, il 18 apr. 1543 furono avviati i lavori per la fortificazione della sola città leonina, ancora una volta in base a un progetto e sotto la direzione di Sangallo. Alla sua morte (29 sett. 1546) il papa chiamò a sostituirlo il ferrarese Iacopo Meleghino, suo protetto e familiare fin dal tempo in cui governava la Chiesa di Parma; consapevole tuttavia delle sue scarse capacità tecniche, dispose che la direzione effettiva fosse svolta da Michelangelo. Questi, compiuto tra la fine del 1547 e l’inizio del 1548, il baluardo del Belvedere, si rifiutò di continuare la collaborazione con Meleghino e fu sostituito, nel marzo 1548, da Iacopo Fusti Castriotto di Urbino.

Durante questa seconda fase il M., nominato con motu proprio pontificio del 26 marzo 1545, ricoprì l’incarico di commissario generale per la Fabbrica delle mura con un compenso di 12 scudi al mese e lo mantenne fino alla morte del papa e alla conseguente interruzione dei lavori (10 nov. 1549). Nel frattempo, il 16 ott. 1539, a Bologna, era stato nominato dall’imperatore Carlo V cavaliere e conte palatino con la facoltà di nominare notai imperiali e giudici ordinari e di «legitimar bastardi in cesta».

La consuetudine del M. con il suo protettore non si interruppe neanche dopo il conferimento a Pierluigi Farnese del Ducato di Parma e Piacenza (19 ag. 1545). In alcune lettere al duca, oltre a chiedere un intervento in suo favore contro il tesoriere della Camera apostolica che intendeva ridurgli lo stipendio di commissario alle Fortificazioni, egli fornisce notizie dettagliate sull’avanzamento dei lavori e sulle scelte che di volta in volta venivano compiute. Il 7 sett. 1545 riferisce che il baluardo del Belvedere aveva ceduto e sarebbe stato presto riparato; il 4 genn. 1546 che i lavori erano stati interrotti dappertutto tranne che alla porta di S. Spirito, il cui completamneto si prevedeva per l’aprile seguente; il 2 marzo 1547 che il Sangallo era stato sostituito con Meleghino con l’esplicita disposizione del papa di prendere ordini da Michelangelo, pur formalmente a lui sottoposto, che la porta di S. Spirito non era ancora stata completata e che si stava costruendo la cortina agli Spinelli (presso l’arco di S. Anna). Riferisce inoltre sull’andamento della costruzione di palazzo Farnese e su importanti ritrovamenti archeologici, in particolare di un gruppo marmoreo rinvenuto nel gennaio 1546 alle terme di Caracalla e collocato proprio a palazzo Farnese, nel quale si credette che fosse rappresentato Ercole, ma che oggi è designato come Toro Farnese (Napoli, Museo archeologico nazionale).

Dopo la morte di Paolo III l’impegno pubblico del M. si diradò: sotto Giulio III fu revisore dei Ponti (14 nov. 1550 e 5 ott. 1551) e commissario dei Grani; sotto Paolo IV fu nominato maestro di Strada (21 marzo 1556). Fece parte della compagnia del S. Rosario alla Minerva, di cui fu priore il 9 febbr. 1542. Il 25 marzo 1534 aderì alla Confraternita della Ss. Annunziata, alla quale – dopo aver garantito alla moglie un’abitazione decorosa e una rendita vitalizia – con l’ultimo testamento, del 22 apr. 1563, affidò il suo cospicuo patrimonio immobiliare e l’archivio personale.

Esiste tuttora in Roma, in via dei Coronari nn. 148-149, una delle case del Mochi. Fu costruita, o forse radicalmente ristrutturata, nel 1516, in stile tardorinascimentale, sotto la responsabilità dell’architetto fiorentino Pietro di Giacomo Rosselli, aiutante di Antonio da Sangallo il Giovane nelle fortificazioni di Roma, e risente ancora, nella purezza delle linee, dell’influenza del palazzo della Cancelleria. La costruzione, decorata in origine da eleganti graffiti ancora visibili alla fine dell’Ottocento e coronata da un cornicione a mensole, si sviluppa su tre piani con finestre ornate con lo stemma della famiglia Mochi. Sulla trabeazione del portale l’iscrizione: «Tua puta que tute facis». Le finestre del primo piano indicano il nome e la carica del proprietario: «P. De Mochis Abbr[eviatore] Ap[ostolico]», quelle del secondo riportano i motti: «Non omnia possumus omnes» e «Promissis mane». Il M. abitò in questa casa dal 10 marzo 1517; nel 1542 la vendette ai fratelli Virgilio e Alessandro De Grassi per 1200 scudi.

Il M. morì a Roma il 24 ott. 1563.

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