Protezionismo

Il Libro dell'Anno 2008

Massimo Giannini

Protezionismo

Una misura protezionistica porta grande beneficio a un ristretto numero di persone e causa una lieve perdita per un grande numero di consumatori

(Vilfredo Pareto)

Globalizzazione e protezionismo

di

29 luglio

A Ginevra, dopo nove giorni di intenso dibattito, falliscono le trattative per rilanciare il Doha round della WTO, il ciclo negoziale per la liberalizzazione degli scambi avviato nel 2001 e interrotto nel 2006. Le divergenze inconciliabili tra alcuni Stati membri, in particolare Cina, India e Stati Uniti, hanno reso impossibile un accordo sull’abolizione delle misure protezionistiche, ancora adottate da molti paesi.

L’aiuto dello Stato

Il protezionismo è una pratica antica nella politica economica degli Stati. Affonda le sue radici nel 16° secolo, quando la forte spinta al commercio internazionale indotta dalle grandi esplorazioni geografiche necessitò di un consolidamento e di una protezione dalla competizione internazionale avviata dalle grandi potenze dell’epoca.

In generale gli Stati sono ricorsi al protezionismo per difendere l’industria nazionale e in particolare i settori ‘giovani’ e più esposti alla competizione. Il reale beneficio di tali pratiche però è sempre stato oggetto di discussione tra gli economisti sulla base di un’antica, quanto consolidata e attuale, teoria dello scambio internazionale nota come ‘Teoria dei vantaggi comparati’, enunciata da David Ricardo nel suo fondamentale contributo alla teoria economica Sui principi dell’economia politica e della tassazione (1817). Tale teoria dimostra come per gli Stati sia sempre preferibile adottare una politica di libero scambio piuttosto che una posizione autarchica. Attraverso la libera circolazione delle merci e delle persone, tutte le economie partecipanti a tale processo ottengono un guadagno in termini di welfare, cioè di soddisfazione dei bisogni dei cittadini. Pur con le dovute modifiche che la teoria ha avuto nel corso di circa due secoli, essa rappresenta ancora uno dei principali punti dottrinali a sostegno di un processo di liberalizzazione degli scambi internazionali, opposto quindi a una visione protezionistica.

Ma se gli economisti enfatizzano i vantaggi del libero scambio da circa due secoli, non si può dire che siano stati ascoltati. La storia moderna del commercio internazionale è, nei fatti, prevalentemente improntata al protezionismo. Il tanto famigerato processo di globalizzazione delle economie, di cui il protezionismo è ovviamente nemico, è un evento molto giovane nella storia degli Stati: come vedremo meglio in seguito, ha meno di trent’anni. Molti autori e storici sottolineano il fatto che la globalizzazione è sempre stata una caratteristica dello sviluppo umano, dall’integrazione commerciale descritta da Marco Polo allo sviluppo degli imperi coloniali, in particolare dopo l’accelerazione economica indotta dalla rivoluzione industriale del 18° secolo. Tuttavia le politiche protezionistiche sono sempre state ampiamente utilizzate. In particolare, dagli ultimi decenni del 19° secolo e per circa cento anni, vi hanno fatto ampio ricorso le economie maggiormente sviluppate. Controllo di prezzi e salari, intervento deciso dello Stato nell’economia, gestione dei settori strategici quali quello energetico, rigido controllo della stabilità dei cambi unitamente a uno stretto controllo delle importazioni e ad altrettanti generosi sussidi alle esportazioni sono state le pratiche comuni dei paesi aderenti all’OCSE. Ma è stata anche una caratteristica dei paesi in via di sviluppo, che hanno visto nel protezionismo un modo per difendersi dalla competizione dei paesi maggiormente industrializzati. Queste politiche hanno fatto anche da sostegno alla ricerca di accordi internazionali che regolassero il flusso di merci e capitali tra paesi senza creare profonde sperequazioni tra gli stessi. Le trattative note come Uruguay Round, iniziate nel 1986, si sono concluse, dopo un lungo braccio di ferro tra nazioni, solo nel 1994, con la firma del Trattato di Marrakech, che ha fatto da traino alla costituzione della World Trade Organization, istituita il 1° gennaio 1995. La ricerca di accordi bilaterali ha di fatto sancito la fine del protezionismo e l’apertura all’integrazione economica internazionale. Il processo di globalizzazione ha meno di trent’anni se, come alcuni argomentano, esso si può datare alla fine degli anni 1970, quando la crescente disoccupazione nei paesi industrializzati portò a un ripensamento generale delle politiche commerciali e chiuse definitivamente il periodo ‘aureo’ degli anni 1950 e 1960. La politica di deregulation iniziata da Ronald Reagan negli USA e da Margaret Thatcher in Gran Bretagna segnò l’avvio di una stagione di crescente privatizzazione e liberalizzazione delle maggiori economie internazionali. Va comunque detto che gli USA sono stati sempre decisamente a favore delle politiche liberiste verso gli altri paesi, ma molto meno verso loro stessi. Sia Reagan sia George W. Bush, benché fortemente inclini all’economia di mercato, hanno varato spesso provvedimenti tesi a limitare le importazioni di merci da Europa, Canada e Giappone, nella speranza di contenere il forte disavanzo commerciale che da vari anni caratterizza la bilancia dei pagamenti americana.

Una distribuzione non equa

Oggi, dopo circa un trentennio di incessante integrazione economica, sociale e culturale in atto nel pianeta, molte sono le voci che accusano questo processo globalizzante di favorire solo i paesi maggiormente industrializzati a scapito di quelli in via di sviluppo. In altri termini, la teoria di Ricardo e il liberismo economico non hanno distribuito equamente i benefici del processo di globalizzazione. Non è raro quindi che la parola protezionismo torni a riecheggiare nel dibattito, soprattutto proveniente dai paesi in via di sviluppo maggiormente esposti alla competizione internazionale.

Sia gli economisti sia le istituzioni internazionali preposte alla cooperazione economica e allo sviluppo (ONU, Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale) sono concordi nel ritenere che il processo di integrazione commerciale, e soprattutto culturale e tecnologico, degli ultimi decenni abbia contribuito non poco alla riduzione della povertà nel pianeta. Tuttavia nessuno mette in dubbio che i benefici non siano stati ripartiti in modo omogeneo. Il dibattito quindi si è spaccato tra coloro che propongono un’ulteriore accelerazione del processo liberista e chi invece è portato a un ripensamento e quindi a un ritorno verso qualche forma di controllo dei flussi commerciali, se non proprio di protezionismo vero e proprio.

Se guardiamo ai dati degli interscambi commerciali e finanziari, non c’è dubbio che negli ultimi tre decenni questi sono cresciuti particolarmente in paesi che già erano caratterizzati da quote elevate. I paesi in via di sviluppo, al contrario, hanno mostrato un trend decrescente e risultano praticamente marginalizzati: nel 1997 rappresentavano solo il 4% del flusso mondiale commerciale (fonte ONU). Lo stesso dicasi per i flussi finanziari internazionali, di cui i paesi sub-sahariani ricevono solo il 2%. Se poi guardiamo ai benefici indotti dal progresso tecnologico, che sono considerati i principali motori di sostegno al processo di sviluppo delle moderne economie, i paesi emergenti sono nettamente fuori da questo contesto. Al proposito è stato coniato il termine digital divide per rendere chiaro che le nuove tecnologie stanno accentuando sempre più il divario tra paesi ricchi e paesi poveri. È drammatico pensare che metà della popolazione del pianeta non abbia mai effettuato una semplice chiamata telefonica e che l’Africa abbia solo il 2% delle linee telefoniche mondiali. Il 90% del traffico Internet riguarda i paesi maggiormente industrializzati che contano solo il 16% della popolazione del pianeta (dati ONU).

Se la continua liberalizzazione e integrazione possano essere capaci di modificare questi dati è fortemente dibattuto dagli economisti. La risposta dipende molto dal tipo di investigazione statistica che si effettua e dalle unità di studio scelte. Se infatti si guarda al tasso di crescita dell’economia, molti studi concordano che il processo di integrazione commerciale esercita senz’altro un effetto benefico sullo sviluppo dei paesi poveri. Ma il tasso di crescita non misura la povertà, in quanto riguarda la media dei redditi della popolazione e non delle fasce più esposte. Quando ci focalizziamo su questa parte della popolazione, le indagini statistiche sono molto meno chiare e spesso non si trova una correlazione positiva tra il grado di apertura internazionale e la riduzione della povertà.

Ciò che emerge dagli studi è che la sempre maggiore richiesta di merci ad alto contenuto tecnologico sta finendo per dividere il mondo tra lavoratori ad alta qualificazione, concentrati nei paesi maggiormente industrializzati e in quelli a forte espansione come Cina e India, e lavoratori a bassissima qualificazione, concentrati nei paesi poveri e impegnati nella produzione di manufatti semplici e a basso costo. Il wage gap, cioè la differenza salariale tra queste due tipologie di lavoratori, è in costante aumento. La competizione tra paesi poveri accentua ulteriormente questo fenomeno: c’è sempre un ‘povero’ disposto a lavorare per un centesimo in meno. Questa ‘guerra dei poveri’ è ben evidente proprio nelle politiche protezionistiche: i dazi imposti da paesi in via di sviluppo a merci importate da altri paesi in via di sviluppo sono quattro volte più alti di quelli esistenti tra i paesi sviluppati.

Tuttavia è nei settori maggiormente vitali per i paesi poveri che si gioca la reale partita. Nonostante i proclami a favore della sempre maggiore integrazione commerciale e della lotta contro la povertà, i paesi più industrializzati pongono limiti molto pesanti alle importazioni di merci agricole provenienti dai paesi poveri. A ciò si aggiungono i generosi sussidi che i paesi ricchi destinano ai loro settori di produzione agricola. In altri termini, la regolamentazione dell’interscambio commerciale, ma soprattutto di quello finanziario e tecnologico, è ben lontana dall’essere efficiente ed egualitaria, contrariamente ai principi fondatori della World Trade Organization.

Il forte dibattito sui presunti gainers (beneficiari) o loosers (perdenti) del processo di liberalizzazione ha portato a un profondo ripensamento delle politiche commerciali. All’inizio del terzo millennio, gli aiuti ai paesi in via di sviluppo per incrementare la loro partecipazione al processo di integrazione globale (Aid for trade) sono diventati un punto specifico del programma ONU noto come Millennium Development Goals, in particolare del goal numero 8: «Develop a global partnership for development».

Aid for trade non vuol dire soltanto rimozione delle barriere protezionistiche nei paesi sviluppati. Se i paesi in via di sviluppo non sono pronti per la produzione su larga scala e con tecnologie moderne, non riusciranno comunque a penetrare i mercati internazionali. Spesso le economie industrializzate utilizzano un protezionismo ‘subdolo’: non l’applicazione diretta di dazi e tariffe ma quella di elevati standard qualitativi e igienico-sanitari che, di fatto, impediscono l’entrata ai paesi poveri. Inoltre la rimozione delle barriere tariffarie che viene richiesta ai paesi poveri per far parte, a pieno titolo, dei tavoli di politica commerciale internazionale finisce per privarli di una cospicua parte del bilancio dello Stato utile ai fini dello sviluppo economico. È ormai acquisito che le politiche commerciali della World Trade Organization, congiuntamente alle politiche di sviluppo del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale, non hanno avuto gli effetti attesi in molti paesi a basso sviluppo, specialmente in quelli africani. Si è sempre trattato di ‘pacchetti’ di politiche preconfezionate sulla base di teorie economiche spesso carenti, imposte senza distinzione e nello stesso arco temporale a paesi profondamente diversi per tessuto economico, sociale e classe politica. In generale, queste politiche hanno richiesto la sensibile riduzione delle barriere commerciali, dei dazi e delle tariffe e una liberalizzazione dei mercati del lavoro e del capitale. Queste politiche spesso non hanno raggiunto i risultati che si erano prefissati e in alcuni casi hanno addirittura contribuito a peggiorare la discriminazione dei paesi poveri. La stessa Banca Mondiale nel rapporto Poverty in an age of globalization (2000) notava: «nonostante la riduzione delle barriere tariffarie e non tariffarie, la performance delle esportazioni è molto variegata. Mentre molte regioni hanno diversificato le loro esportazioni, l’Africa non è stata in grado di farlo, con la conseguente perdita di competitività che ha incrementato la sua marginalizzazione nel commercio globale. Così, malgrado il guadagno di efficienza indotto dal commercio, il supporto della Banca [Mondiale] non è stato sufficiente ad aiutare gran parte dei suoi clienti più poveri a raggiungere un percorso di crescita sostenuta».

In pratica entrare a far parte del ‘salotto buono’ del commercio internazionale richiede elevati costi di aggiustamento, in termini di profonde riforme dei mercati, di massicci investimenti in tecnologia, infrastrutture e formazione, e in generale dell’instaurarsi di un clima sociale e politico stabile e aperto agli standard occidentali: costi che, per alcuni paesi, possono superare i benefici indotti dalla liberalizzazione delle frontiere. Per citare alcuni esempi, M.J. Finger e P. Schuler (Implementation of Uruguay Round commitments: the development challenge, World Bank working paper nr. 2215, 1999) hanno stimato che l’Argentina ha speso più di 80 milioni di dollari per adeguare la sua carne esportata agli standard igienico-sanitari occidentali, il Messico più di 30 milioni per modernizzare il suo sistema legale. Questi autori hanno valutato questi costi di aggiustamento per i paesi aderenti all’Uruguay Round in 130 milioni di dollari: una cifra molto più elevata degli aiuti che 7 paesi a basso sviluppo su 12 ricevono annualmente in cambio di queste riforme.

Protezionismo nei paesi avanzati

In altri termini la libera circolazione delle merci non è qualcosa che si possa imporre attraverso ricette precostituite applicabili sempre e comunque. I fallimenti di alcuni paesi in via di sviluppo testimoniano questa debolezza e ridanno voce ai sostenitori di una qualche forma di protezione, benché meno severa rispetto al passato. Ma questo è vero anche nei paesi industrializzati. Il basso costo del lavoro e la scarsa tutela dei diritti umani e sindacali che caratterizzano alcuni paesi emergenti spingono le imprese occidentali a delocalizzare la produzione e i consumatori ad aumentare la domanda di merci importate a basso costo. Non è raro che parti politiche più intransigenti tornino a invocare una qualche forma di protezionismo. Tuttavia anche il protezionismo non è scevro da complicazioni. Oltre alla banale osservazione di essere un naturale nemico dell’espansione commerciale degli Stati, esso ha un costo molto elevato. È stato stimato che l’imposizione di dazi sulle merci importate causa al consumatore statunitense un incremento di spesa del 20%, a cui va aggiunto un incremento del 14% delle merci nazionali indotto dalle posizioni oligopolistiche delle imprese domestiche, salvaguardate dalla competizione internazionale proprio grazie alle misure protezionistiche.

Quando si guarda all’economia come un sistema fortemente interdipendente, le restrizioni commerciali possono generare effetti diretti benefici ma altrettanti effetti indiretti negativi. La bassa competizione consente alle imprese nazionali di preoccuparsi meno dei prezzi praticati ai consumatori e del fatto di offrire merci di qualità inferiore e con tecnologie obsolete. Sono meno incentivate a investire in nuove tecnologie e a istruire professionalmente la classe lavoratrice. Questi elementi finiscono per tradursi in un calo generalizzato della domanda che produce effetti negativi molto superiori ai vantaggi delle barriere commerciali. A essere maggiormente colpiti sono inoltre i consumatori più esposti al rischio povertà. Lo studio A review of recent developments in the U.S. automobile industry dell’International Trade Commission (1985) ha evidenziato come, negli Stati Uniti, le restrizioni imposte nel 1984 alle importazioni di automobili e vestiario dai paesi orientali siano costate ai consumatori l’equivalente di 14 miliardi di dollari, equiparabili a un aumento dell’imposizione fiscale del 23% sulle famiglie con meno di 10.000 dollari annui e del 3% per le famiglie con reddito superiore ai 60.000 dollari annui.

Come qualunque testo di economia internazionale insegna, l’imposizione di un dazio su un bene importato ha sempre l’effetto di incrementare il prezzo interno della merce oggetto del dazio stesso. Questo è il motivo cardine del dazio: aumentare il prezzo di una merce che sarebbe oggetto di riduzione in un sistema di libero mercato a causa della competizione dei produttori stranieri. L’effetto quindi si ripercuote direttamente sui consumatori. Al tempo stesso lo Stato lucra un gettito fiscale sull’imposizione del dazio. Generalmente, tuttavia, le distorsioni negative introdotte dalle politiche protezionistiche, in termini di minore consumo e minore produzione interna, superano i vantaggi fiscali che lo Stato ottiene. Si tratta quindi di una perdita sia di efficienza sia di risorse che l’economia sopporta.

Agricoltura e servizi

Comunque, nonostante tali distorsioni economiche indotte dalle politiche protezionistiche siano note, il settore agricolo rimane ancora fortemente regolamentato dagli Stati, in particolare dagli USA. Ancor peggio, le tariffe applicate dai paesi industrializzati a quelli in via di sviluppo sono più alte di quelle applicate ad altri paesi industrializzati; viceversa i paesi in via di sviluppo applicano tariffe più basse sulle merci agricole provenienti dai paesi industrializzati (UNCTAD, Development and globalization: Facts and figures, 2008). Ma non solo le merci sono al centro dei flussi commerciali. La sempre maggiore terziarizzazione delle economie rende altrettanto importante il flusso dei servizi, soprattutto per i paesi in via di sviluppo che sono poco dotati di servizi ad alto contenuto tecnologico. Secondo l’UNCTAD, dal 1990 al 2006 la quota dei servizi sul PIL è passata dal 65 al 73% nei paesi industrializzati e dal 49,6 al 50,8% in quelli in via di sviluppo. Nei paesi industrializzati e in quelli in via di sviluppo i servizi occupano rispettivamente il 75% e il 32% della forza lavoro. Tra il 1980 e il 2006 il flusso dell’interscambio globale nei servizi riguardante le esportazioni è passato da 400 a 2800 miliardi di dollari, con una forte concentrazione nei paesi maggiormente industrializzati. Tra quelli in via di sviluppo, i principali attori sono quelli asiatici, che continuano a guidare le classifiche di performance del gruppo dei paesi emergenti. Sostenere maggiormente la presenza delle economie rimaste più indietro richiede gli interventi macroeconomici e sociali che abbiamo già evidenziato parlando di Aid for trade. In particolare lo sviluppo delle infrastrutture tecnologiche e di trasporto unitamente ai programmi di formazione ed educazione della popolazione sono elementi imprescindibili per espandere la quota di export in servizi.

Conclusioni

Per riassumere quanto si è detto, la visione dominante fra gli economisti vede il protezionismo come una perdita di efficienza economica, con conseguente danno al reddito dei consumatori e dei produttori che popolano le economie. Tuttavia il protezionismo è ben lungi dall’essere morto, perché è qualcosa di molto più complesso di una semplice politica commerciale. Un dazio colpisce una specifica merce importata e consente ai produttori domestici di quella merce di godere di una posizione privilegiata di oligopolisti, di fissare cioè liberamente il prezzo che preferiscono. Queste lobbies (come l’OPEC, o il cartello dei produttori di armi negli USA) hanno spesso avuto un ruolo politico determinante nel decidere le politiche commerciali. Anche quando non si è fatto un uso diretto degli strumenti della politica commerciale, dazi in primis, si sono aggirati i dettami del libero mercato imponendo standard qualitativi o igienico-sanitari che, di fatto, discriminano le merci provenienti da alcuni paesi e non da altri, oppure adottando restrizioni ‘volontarie’ che un paese si impone per paura di ritorsioni commerciali. Per questo, nonostante tutti vedano il protezionismo come una barriera allo sviluppo globale del pianeta, esso viene ancora utilizzato da molti paesi, anche se in una veste più moderna e sofisticata.

repertorio

Protezionismo e liberoscambismo

Con il termine protezionismo si intende quel complesso di politiche economiche, doganali o no (le cosiddette barriere non tariffarie), che allo scopo di potenziare o difendere dalla concorrenza estera uno o più settori produttivi, pongono vincoli o limitazioni alla libera circolazione internazionale di merci, di capitali o di manodopera. In questo senso il termine contrapposto è liberoscambismo. Anche se nella storia economica dell’Occidente protezionismo e liberoscambismo si presentano intrecciati fra loro, spesso corrispondendo a momenti diversi dello sviluppo economico dei singoli paesi, è innegabile che per molti secoli il protezionismo è stato la regola e il liberoscambismo l’eccezione.

Mercantilismo e protezionismo

Il protezionismo fu elemento caratteristico del sistema mercantilista proprio dell’epoca in cui si formarono i grandi Stati nazionali (secoli 16°-18°). In una prima fase della prassi mercantilista, l’obiettivo fu la crescita dell’afflusso di metalli preziosi (il cosiddetto bullionismo); in una seconda fase, più matura e risalente al 1620 circa, il desiderio di mantenere un costante surplus della bilancia commerciale spinse i mercantilisti a spostare l’attenzione dalla protezione della valuta nazionale contro il deprezzamento del cambio alla protezione di singoli settori produttivi. Tuttavia, il bullionismo non fu mai del tutto ripudiato: in Inghilterra, i divieti di esportazione di oro e metalli preziosi furono allentati sotto Elisabetta I, ma aumentarono sotto Giacomo I e Carlo I, e soltanto nel 1819 si permise la libera esportazione della moneta e del metallo prezioso in verghe. Del resto, il legame fra la bilancia valutaria e quella commerciale era presente fin dal 1381 a un funzionario della Zecca britannica, che scriveva: «Ritengo che la ragione per cui in Inghilterra non arrivi né oro né argento [...] derivi dal fatto che il paese spende troppo in mercanzia di vario genere [...]. Perciò sembrami che l’unico rimedio sia questo: che ogni commerciante che fa venire merci in Inghilterra faccia uscire un quantitativo di prodotti nostrani pari all’ammontare della merce su descritta; e che nessuno porti fuori dal paese oro e argento». L’esportazione di merci prodotte nel paese è il modo naturale per favorire l’afflusso di metalli preziosi anche secondo Francesco Bacone, il quale in un rapporto del 1616 al duca di Buckingham scriveva: «Occorre che l’esportazione ecceda l’importazione; perché allora la bilancia commerciale deve necessariamente essere regolata in moneta o metallo prezioso». Mentre l’espressione ‘bilancia commerciale’ si trova frequentemente nel corso del 17° secolo, l’espressione ‘bilancia commerciale favorevole’, indicante un surplus di esportazioni, sembra essere stata usata per la prima volta nel 1767 dal tardomercantilista scozzese sir James Steuart, al quale si deve anche l’espressione ‘bilancia dei pagamenti’ con riferimento alle partite invisibili, distinta dalla bilancia delle importazioni ed esportazioni. I mercantilisti sostenevano anche che l’oro immesso nel paese attraverso una bilancia commerciale favorevole non dovesse essere tesaurizzato, ma investito produttivamente, contribuendo ad abbassare il saggio d’interesse. La politica doganale mercantilista conobbe diverse fasi. All’inizio, a partire dal 13° secolo, in tutta l’Europa continentale si ebbero divieti di esportazione per una lunga serie di materie prime. In Inghilterra si favoriva l’esportazione dei pannilana, vietando l’importazione dei tessuti esteri e proibendo solo in un secondo momento l’esportazione di lana grezza. Al protezionismo industriale corrispose spesso nei mercantilisti il liberismo agricolo. John Hales, che pubblicò nel 1581 A discourse of the common weal of this realm of England, affermava che, mentre l’esportazione di grano doveva essere concessa perché i produttori cerealicoli potessero liberamente arricchire, l’esportazione delle materie prime doveva essere proibita perché la loro lavorazione nelle manifatture nazionali faceva aumentare l’occupazione. Il criterio da seguire era quello di vendere all’estero al più alto prezzo possibile. A chi obiettava che se i prezzi delle merci inglesi fossero aumentati troppo gli stranieri non avrebbero più comprato, Hales rispondeva che gli stranieri non potevano farne a meno perché l’Inghilterra aveva ormai conquistato il monopolio mondiale di certi prodotti. Al contrario, l’eccessiva importazione di merci straniere doveva essere combattuta perché fonte di disoccupazione all’interno. Nel 1662 William Petty affermò che era meglio bruciare i prodotti del lavoro che lasciare la gente senza lavoro. La ‘bilancia del lavoro’, cioè l’aumento dell’occupazione interna grazie allo stimolo della domanda derivante dal surplus del commercio estero, fu teorizzata da James Steuart. I vincoli all’emigrazione di manodopera nazionale qualificata (per esempio, il divieto di espatrio per i tessitori) erano invece giustificati dalla volontà di impedire che all’estero si apprendessero le tecniche produttive di cui si intendeva conservare il monopolio. Viceversa il commercio interno era considerato meramente redistributivo: «Con ciò che si consuma nel paese, uno perde soltanto ciò che un altro riceve e la nazione in complesso non diventa affatto più ricca», scrive Charles Davenant nel suo An essay on the East India trade (1696). Tuttavia il mercantilismo favorì la formazione di un mercato interno unificato. Nel 1664, Jean-Baptiste Colbert, che fu il più famoso ministro mercantilista, unificò i dazi interni francesi e creò una specie di unione doganale fra le grosses fermes del regno. In Austria, nel 1713, mentre si sostituivano i vecchi dazi di confine con divieti di importazione, si cercò di abolire i pedaggi interni, finché nel 1775 entrò in vigore la tariffa unitaria interna per tutti i territori tedeschi e slavi. In Toscana, nel 1781, un editto granducale sancì il superamento della frammentazione in dogane diverse e la formazione di «un unico territorio gabellabile».

Le critiche di Hume e di Smith

Nella Gran Bretagna della metà del Settecento i whigs erano protezionisti, i tories liberoscambisti. Nel saggio Of commerce, parte dei Political discourses (1752), David Hume – politicamente un tory – respinge l’implicita subordinazione mercantilistica dell’agricoltura all’industria e al commercio, ma afferma anche che storicamente il commercio estero «ha preceduto ogni miglioramento delle manifatture interne e ha dato vita al lusso domestico». Una certa preferenza per il commercio, inteso anche come mezzo per accrescere la potenza nazionale, è quindi presente in questo scritto. Più chiara è la posizione antimercantilistica assunta nel saggio Of money, in cui Hume presenta la celebre spiegazione del riequilibrio automatico della bilancia dei pagamenti attraverso movimenti di afflusso e deflusso di metallo e il conseguente riallineamento dei prezzi interni a quelli internazionali: prima applicazione rigorosa della teoria quantitativa della moneta al commercio internazionale e confutazione della teoria mercantilista-protezionista della bilancia commerciale in attivo. Un paese non può stabilmente ‘mancare di denaro’, come paventano i mercantilisti. In Of the balance of trade, infine, Hume ironizza sulle proibizioni alle esportazioni di beni e condanna le politiche volte ad accumulare metalli preziosi nel tesoro pubblico.

Nel quarto libro della Wealth of nations (1776), largamente dedicato al «sistema commerciale o mercantile», Adam Smith discute le politiche doganali protezioniste, basandosi anche sull’esperienza acquisita come sovrintendente alle dogane scozzesi. Smith osserva che molti divieti di importazione sono del tutto inutili, in quanto già i costi di trasporto rendono svantaggiosa l’importazione di alcune merci (l’esempio è quello del bestiame vivo). Anche a proposito delle proibizioni fatte alle colonie di produrre manufatti in concorrenza con la madrepatria, Smith commenta che si tratta di una misura più odiosa in sé che efficace, perché le colonie non hanno convenienza a produrre tali beni per mancanza dei fattori produttivi adatti. Tuttavia Smith compie una difesa d’ufficio del Navigation act, voluto da Oliver Cromwell nel 1651 e rafforzato da Carlo II nel 1660, che aveva stabilito il monopolio della marina mercantile inglese nel commercio coloniale e in quello di importazione dall’Europa, e aveva vietato in assoluto l’importazione di merci provenienti da paesi che non ne fossero i diretti produttori (disposizione, quest’ultima, diretta a colpire l’attività olandese di trasporto per conto terzi). Smith ammette che tutto ciò «non è favorevole al commercio estero, né alla crescita di prosperità che da esso può derivare»; però, «dato [...] che la difesa è più importante della prosperità, l’Atto di navigazione è forse il più saggio di tutti i regolamenti commerciali dell’Inghilterra». Smith difende anche le tariffe di rappresaglia o ritorsione (retaliation), applicate alle merci di un paese che pone alti dazi di importazione sulle merci inglesi. Dopo aver osservato che simili guerriglie commerciali hanno condotto a guerre vere e proprie – come quella fra Luigi XIV e l’Olanda –, Smith pacatamente conclude che «ritorsioni di questo genere possono essere una buona politica quando c’è una probabilità che esse ottengano la revoca degli alti dazi e delle proibizioni di cui ci si lamenta [...]. Giudicare se tali ritorsioni produrranno probabilmente questo effetto non spetta forse alla scienza del legislatore, le cui deliberazioni dovrebbero essere guidate da principi generali che sono sempre gli stessi, quanto all’arte di quell’insidioso e astuto animale volgarmente chiamato uomo di Stato o politico, i cui consigli sono diretti dalle mutevoli contingenze». In altri termini, le politiche doganali aggressive sono ammesse, purché vi sia una ragionevole probabilità di successo. Smith peraltro condanna le politiche ispirate alla «gelosia commerciale» e al principio dell’«impoverimento del vicino», avverte che dietro la pratica dei rimborsi dei dazi vi sono molte frodi e afferma che rispetto ai premi all’esportazione sono preferibili le sovvenzioni dirette alla produzione. Smith è buon profeta nel prevedere vita difficile per le idee liberoscambiste. Dopo aver osservato che «attendersi che la libertà commerciale possa mai essere interamente ripristinata in Gran Bretagna è cosa tanto assurda quanto aspettarsi che vi possa mai essere instaurato il regno di Oceania o di Utopia», rileva che al mantenimento del protezionismo concorrono «non solo i pregiudizi del pubblico, ma anche, cosa molto più decisiva, l’interesse privato di molti individui». Le lobbies protezioniste sono in grado di influenzare il parlamento e il governo assai più della disorganizzata opinione pubblica favorevole al libero scambio.

L’apogeo del protezionismo

Come si è detto, Smith fu buon profeta: la Rivoluzione francese e l’Impero napoleonico non sono stati eventi favorevoli al diffondersi del libero scambio. Secondo Napoleone «Le arti industriali non attendono che il soffio protettore dell’amministrazione per creare prodigi». Con i due decreti di Berlino (1806) e Milano (1807) l’imperatore cercò di creare un mercato comune europeo, ovviamente chiuso al commercio inglese e incentrato sullo sviluppo delle manifatture della Francia e della Confederazione del Reno – che in effetti ne beneficiarono ampiamente –, ma con sacrificio dei domini francesi periferici, come l’Olanda e l’Italia. Di qui le numerose lamentele dei commercianti e manifatturieri di queste regioni. Il blocco, che non impedì la crescita delle esportazioni inglesi in Europa e quindi fallì il suo scopo principale, portò in Italia a una caduta del commercio estero. Gli storici inoltre concordano sul fatto che l’innegabile sviluppo industriale francese in età napoleonica fu dovuto, più che al protezionismo, alla diffusione delle conoscenze tecniche e scientifiche, alla disciplina della proprietà e dei contratti (Codice civile), alla fondazione delle grandi écoles.

Un sostenitore della politica di protezione industriale in Italia fu Melchiorre Gioia, che nel suo Nuovo prospetto delle scienze economiche (1839) dedica un’ampia parte all’«azione governativa sulla produzione, distribuzione, consumo delle ricchezze», ironizzando sui ‘filosofi’ (Smith soprattutto) che hanno sostenuto il principio della «libertà intera, o abolizione di qualunque vincolo» per il commercio estero. Più ancora dell’assoluta protezione doganale, Gioia caldeggiava premi, porti franchi, trattati di commercio accompagnati da misure di incoraggiamento alla produzione e da controlli statali sui consumi. Per sfatare il mito del free trade e del laissez-faire che accompagnava di solito l’immagine della potenza economica britannica, l’economista piacentino sottolineava come la maggior parte dei progressi economici dell’isola avesse coinciso con le fasi di più acuto protezionismo.

Dopo il 1815, in Inghilterra, in seguito all’adozione del dazio sul grano, iniziò un movimento di pensiero e di opinione pubblica sempre più favorevole alla sua abolizione e all’affermazione del libero scambio. La maggior parte degli economisti classici seguì David Ricardo, che dimostrò come la liberalizzazione del commercio del grano riducesse i costi di produzione dei benisalario e favorisse quindi lo sviluppo della manifattura. Soltanto Thomas Malthus si attestò sulla difesa del protezionismo cerealicolo in quanto fonte di rendita per i proprietari, la cui spesa in beni di lusso egli vedeva come antidoto alle crisi di sovrapproduzione. I ministeri liberali di George Canning e William Huskisson abolirono molte proibizioni e promossero trattati di commercio basati sul principio di reciprocità. Fra il 1822 e il 1825 l’Inghilterra concesse inoltre alle colonie una quasi completa libertà di esportazione e importazione con tutti i paesi del mondo, in posizione di parità con la madrepatria. Si aprì il grande periodo dell’espansione economica inglese, che appunto per essere avvenuta all’insegna del free trade è stata definita dagli storici come l’era dell’‘imperialismo del libero scambio’. Non mancarono però vivaci reazioni. Un professore e uomo d’affari tedesco, Friedrich List, svolse un’appassionata propaganda protezionista in Germania e, dal 1825 al 1832, negli Stati Uniti, dove le idee protezioniste erano già state diffuse dal federalista Alexander Hamilton, autore nel 1791 di un Report on manufactures. La tesi di fondo dell’opera principale di List, Das nationale System der politischen Ökonomie, è che la ‘scuola dominante’ ha tenuto conto soltanto dell’individuo, da una parte, e della collettività umana indifferenziata, dall’altra, trascurando il livello intermedio dei fenomeni economici, quello appunto della nazione. In Germania le teorie di List contribuirono alla formazione dello Zollverein, unione doganale basata sull’applicazione della tariffa prussiana del 1818, ‘protettiva moderata’ e comprendente anche Assia, Baviera, Sassonia, Turingia e Württemberg. L’ultimo economista classico, John Stuart Mill, che è anche un classico del liberalismo politico, riconosce che nel caso di «industrie nascenti» (infant industries) una certa protezione è ammissibile. «La superiorità di un paese rispetto a un altro in un ramo di produzione – scrive nei suoi Principles of political economy (1848) – spesso nasce soltanto dal fatto di aver cominciato prima. [...] Un paese che [...] debba ancora acquisire capacità ed esperienza, può [...] essere più adatto alla produzione di quei paesi che entrarono prima in quel campo [...] Ma non ci si può attendere che gli individui, a proprio rischio, [...] introducano una nuova manifattura e sostengano l’onere di condurla finché i produttori siano stati istruiti fino al livello di coloro per i quali quei processi produttivi sono tradizionali. Un dazio protettivo, continuando per un periodo ragionevole, potrebbe talvolta essere il metodo meno costoso con il quale la nazione può contribuire a realizzare tale esperimento [...]. Tuttavia ai produttori nazionali non deve essere lasciato sperare che essi continueranno a godere della protezione oltre il periodo necessario per poter ragionevolmente dimostrare quello che sono capaci di fare». L’argomento dell’industria nascente è stato accettato dagli economisti ortodossi.

La ripresa del protezionismo alla fine dell’Ottocento

L’era del libero scambio cominciò a declinare in Europa a partire dagli anni 1870. In Italia, dopo l’Unità fu estesa al resto del paese la tariffa sarda del 1851, voluta da Cavour. Essendo la tariffa più liberista fra quelle degli antichi Stati, essa provocò la crisi delle industrie meridionali, cresciute al riparo di una protezione quasi proibitiva. Lo stato di arretratezza dell’industria italiana indusse poi ad adottare una linea interventista di politica economica, dapprima con la Destra (Quintino Sella, Marco Minghetti) e dopo il 1876 con la Sinistra (Agostino Depretis), che all’inizio sembrava fedele al liberismo. Si giunse dunque alla tariffa del 1878, più fiscale che protettiva, che sostituì i dazi ad valorem, facilmente eludibili, con dazi specifici commisurati al peso o alla misura delle merci. Tale tariffa consentì un certo sviluppo della produzione dei filati di cotone e dei tessuti di lana, ma questo non bastava ai protezionisti. Con la successiva tariffa del 1887, dichiaratamente protezionista, furono introdotti il dazio sul grano e quello sullo zucchero, e furono protette la siderurgia e, seppure più moderatamente, la nascente industria chimica. Restava insufficientemente protetta l’industria meccanica, come lamentava nel 1891 uno degli industriali più importanti, l’ingegner Giuseppe Colombo. Probabilmente l’Italia era costretta alla scelta protezionista dal fatto che le potenze confinanti, Austria e Francia, si erano già convertite al protezionismo, e anche dal fatto che, mentre il corso forzoso aveva funzionato fino ad allora da sostegno delle esportazioni, il ritorno alla convertibilità agiva in senso contrario. È comunque difficile stimare gli effetti della tariffa del 1887, in quanto nello stesso anno scoppiò la decennale guerra doganale con la Francia – occasionata dal fallimento delle trattative per il rinnovo del trattato commerciale del 1881 – che vide crollare il nostro commercio estero. Il protezionismo trovò nuovi argomenti intorno al 1910, invocando il dumping (vendere sottocosto all’estero per aprire nuovi mercati per i prodotti nazionali) sul modello tedesco e americano. A livello politico la scelta protezionista sancì l’alleanza della borghesia industriale del Nord con l’aristocrazia fondiaria del Sud: il famoso ‘blocco industriale-agrario’ che dominò l’Italia, attraverso regimi diversi, fino al secondo dopoguerra.

Negli Stati Uniti, dove il protezionismo, fatto proprio dai repubblicani, aveva raggiunto il suo massimo con la tariffa McKinley del 1890, una nuova tariffa del 1894 ne attutì le punte estreme, introducendo i dazi ad valorem al posto dei dazi specifici e abolendo il dazio sulla lana. Si cominciò infatti a ritenere il protezionismo responsabile della crescita dei monopoli e dell’eccessiva concentrazione industriale. Il teorico principale del protezionismo fu l’economista Simon N. Patten, sostenitore di un’‘economia dell’abbondanza’ attraverso il pieno impiego delle risorse nazionali.

In Europa, la Francia scelse il protezionismo con la tariffa Méline del 1892, mentre in Germania, dopo un primo periodo liberista, culminato nell’esenzione del ferro da dazi, avvenuta nel 1873, il Reich bismarckiano si convertì al protezionismo con la tariffa del 1879. È stato osservato che alla spinta protezionista contribuì il movimento operaio tedesco, ostile – a differenza di quello inglese – al libero scambio. Qui, più che negli altri paesi, si registrò un’assoluta convergenza degli interessi dell’agricoltura (i produttori cerealicoli volevano difendersi dal basso prezzo del grano proveniente dagli Stati Uniti) e della grande industria.

Perfino in Inghilterra il timore della concorrenza tedesca e americana spinse alcuni settori industriali – specie nelle Midlands e soprattutto a Birmingham – a promuovere agitazioni per chiedere l’introduzione di retaliatory duties nei confronti dei paesi che discriminavano i prodotti inglesi. L’agitazione ebbe due fasi. Nella prima (1879-81) nacquero comitati e associazioni, con nomi come National society for the defence of British industries, National and patriotic league for the protection of British interests, National fair trade league, la più duratura. Nella seconda (1902-06) la tematica protezionista si collegò organicamente al progetto di uno Zollverein fra madrepatria e Dominions (Canada, Australia, Nuova Zelanda). Il movimento ebbe un suo riconosciuto leader politico in Joseph Chamberlain, ministro delle Colonie nei gabinetti conservatori-unionisti Salisbury e Balfour. Alfred Marshall, il più autorevole economista inglese dell’epoca, assunse una posizione moderatamente critica nei confronti della riforma delle tariffe, non per ragioni di principio, ma in base alla convinzione che il peso di dazi più alti non si sarebbe scaricato tanto sui produttori stranieri quanto sui consumatori inglesi, date le diverse elasticità della domanda dei beni di importazione e di esportazione. Le elezioni del 1906 videro la sconfitta dei conservatori-protezionisti e la vittoria dei liberali-liberoscambisti.

Keynes e le politiche economiche degli anni 1930

John Maynard Keynes non fu mai un liberista puro. Nel 1930, deponendo davanti alla Commissione Macmillan per la finanza e l’industria, affermava che «la virtù del libero scambio è che abbassa i salari monetari e non abbassa i salari reali; mentre non è altrettanto probabile che il protezionismo abbassi i salari monetari, ed è molto più probabile che abbassi i salari reali. Ma la virtù del protezionismo è che funziona, mentre, nelle condizioni presenti, il libero scambio non funziona». La rigidità dei salari monetari verso il basso rendeva improponibile il wage-cut che gli economisti ortodossi proponevano per risolvere il problema della disoccupazione. Keynes invece sperava che una blanda politica protezionistica potesse sostenere gli investimenti esteri inglesi e nel 1931 proponeva invano l’introduzione di un dazio doganale come alternativa alla svalutazione e all’uscita dal Gold standard. Nel 1933 giustificava un moderato protezionismo con il fatto che il crescente peso dei servizi – non commerciabili internazionalmente – rendeva meno gravosa per i consumatori una politica di protezione dei manufatti o delle materie prime, e fissava degli obiettivi di maggiore benessere, di maggiore cultura e civiltà, per i quali l’«internazionalismo economico» basato sul laissez-faire non sembrava appropriato, mettendo tuttavia in guardia dal cadere nell’eccesso opposto del «nazionalismo economico», possibile fonte di «stupidità».

Mentre le provocazioni keynesiane avevano un’eco soprattutto intellettuale, l’Inghilterra degli anni 1930 riprendeva le tematiche della tariff reform campaign di Chamberlain. Nell’estate 1932 si tenne la Conferenza economica imperiale di Ottawa, che deliberò l’introduzione di una tariffa doganale protettiva e un regime di preferenza doganale a favore dei Dominions. Vennero anche introdotti controlli sulle esportazioni di capitali, da cui conseguì una caduta del livello del commercio estero, ma anche la riduzione della disoccupazione e lo sviluppo di industrie ‘nuove’ per il mercato nazionale.

Il clima della grande crisi fu favorevole a una drastica restrizione degli scambi internazionali: negli Stati Uniti si approvò la tariffa protezionistica Smooth-Hawley (1930) e il Buy American act (1933); in Francia tra il 1929 e il 1933 si adottò una politica di contingentamenti delle importazioni; nella Germania nazista il piano Schacht del 1934 varò una politica commerciale basata sul principio di «acquistare per quanto possibile merci soltanto da paesi che comperano merci germaniche». In Italia, il Piano regolatore dell’economia lanciato da Mussolini nel marzo 1936 – giustificato dalle «inique sanzioni» decretate dalla Società delle Nazioni contro l’Italia per l’aggressione all’Etiopia – ruppe definitivamente con il liberismo seguito dal regime negli anni 1920 e impostò le linee di una politica autarchica di evidente preparazione alla guerra. Si trattava di politiche protezioniste attuate anche per via indiretta, come la disciplina delle ‘autorizzazioni agli impianti industriali’ che sanciva il controllo statale sull’apertura di nuovi impianti e funzionava da barriera non tariffaria all’entrata di nuove imprese.

Il dopoguerra

Dopo il 1945, a differenza del primo dopoguerra, la ricostruzione dell’economia mondiale avvenne sotto il segno della collaborazione internazionale, attraverso accordi multilaterali e non più bilaterali fra nazioni. La collaborazione fu all’insegna del libero scambio, sotto la leadership degli Stati Uniti, che pure non avevano tradizioni in questo senso. Nel 1947 fu varato il GATT (General Agreement on Tariffs and Trade) allo scopo di ridurre, attraverso la collaborazione multilaterale e negoziati periodici, gli ostacoli tariffari e di eliminare le discriminazioni in materia di commercio internazionale di manufatti (esclusi dunque l’agricoltura e i servizi). Furono ammesse peraltro diverse eccezioni alla norma del libero scambio, soprattutto per venire incontro alle esigenze dell’Impero inglese.

Negli anni 1960, con il Kennedy round (1964-67), si ebbe una più decisa sterzata liberoscambista, con riduzioni tariffarie medie del 35%. I successivi due decenni, però, videro un ritorno di fiamma del protezionismo: da una parte vi fu la costituzione di un cartello sovranazionale come quello dell’OPEC (Organization of Petroleum Exporting Countries), che nel 1973 – a seguito della guerra arabo-israeliana e dell’embargo posto dai paesi arabi nei confronti dei paesi che sostenevano Israele – tentò di fissare un prezzo monopolistico internazionale del petrolio; dall’altra gli Stati Uniti, pur proclamandosi liberisti e accusando la CEE di protezionismo agricolo, seguirono – specie sotto la presidenza Reagan – politiche di sostegno della propria industria, minacciata dalla concorrenza europea e giapponese. Da allora, a più riprese, la difficile congiuntura economica ha spinto molti paesi, nonostante il carattere di globalizzazione e di internazionalizzazione assunto dagli scambi mondiali, a chiudersi in un atteggiamento più protezionista. In proposito si è parlato di neoprotezionismo, indicando con questo termine un revival del mercantilismo, per cui le nazioni cercano di risolvere i problemi della disoccupazione, della crescita stagnante e della crisi industriale imponendo restrizioni alle importazioni e sovvenzionando le esportazioni. Gli strumenti coi quali si limitano le importazioni sono abbastanza diversi, e meno trasparenti, dei dazi tradizionali e sono globalmente denominati ‘barriere commerciali non tariffarie’ (NTB, Nontariff Trade Barriers): comprendono restrizioni ‘volontarie’ alle esportazioni come gli accordi sul marketing, misure antidumping, dazi compensativi, clausole di salvaguardia ecc. Il loro numero e la loro importanza sono cresciuti tanto rapidamente da divenire un ostacolo più grave dei dazi al commercio tradizionale.

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