Provento

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Entrata, utile economico che un ente pubblico o un privato ricavano da qualsiasi fonte di guadagno (professione, attività commerciale, beni immobili, imposte ecc.).

Il tema dei p. illeciti rileva nella materia tributaria, nell’ambito delle imposte dirette e dell’imposta sul valore aggiunto. Per quel che concerne le imposte dirette, a lungo si è dibattuto in ordine alla imponibilità o meno dei p. illeciti, fino a che l’art. 14, co. 4, della l. 537/1993, ha posto fine a tale dibattito, sancendo la tassazione dei p. derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo, al ricorrere di due condizioni: la classificazione all’interno di una delle categorie di reddito e la mancata soggezione dei p. a sequestro o a confisca penale. In questa sede, si è stabilito, inoltre, che i p. illeciti sono tassati secondo la disciplina prevista dalla categoria di appartenenza. Per quanto riguarda le imposte dirette, quindi, non vi è differenza fra illecito civile, penale o amministrativo: risultano tutti ugualmente e astrattamente fonte di reddito imponibile.

Di diversi tipi può essere la relazione fra il fatto (o l’atto) illecito e il tributo; si distinguono, infatti: l’illiceità della fonte (e in questo caso si differenzia, a sua volta, la fonte di per sé illecita, per es. il commercio di stupefacenti o lo sfruttamento della prostituzione, dalla fonte illecita perché acquisita contra legem, per es. gli interessi prodotti da somma rubata), l’illiceità delle modalità di svolgimento di un’attività lecita (per es. lo svolgimento abusivo di professione), l’illiceità strumentale all’esecuzione di attività lecita. L’esclusione dalla tassazione sussiste non soltanto nei casi di sequestro o confisca penale dei p., ma anche in presenza di tutti i provvedimenti di natura civile, penale o amministrativa che hanno carattere confiscatorio e/o restitutorio. Le difficoltà di qualificazione all’interno di determinate categorie di alcune ipotesi di redditi illeciti ha condotto all’approvazione di una disposizione (art. 36, co. 34 bis, l. 223/2006), in base alla quale l’art. 14 si deve interpretare nel senso che se i p. da illecito non sono classificabili nelle categorie di reddito dell’art. 6 devono essere considerati come redditi diversi (➔ reddito). In questo modo sembra essere stata introdotta una nuova ipotesi di redditi diversi.

Differente questione è quella relativa alla deducibilità dei costi da illecito. A tale proposito (art. 14, co. 4 bis, l. 537/1993, come modificato dall’art. 2, co. 8, l. 289/2002) è stata esclusa la deduzione dei costi e delle spese riconducibili a fatti, atti o attività qualificabili come reato, a eccezione dei diritti costituzionalmente garantiti. Ai fini delle imposte sul reddito, pertanto, i costi e le spese seguono un differente regime: sono deducibili, secondo le regole ordinarie del testo unico delle imposte sui redditi, se attengono a illeciti civili o amministrativi; sono indeducibili se si riferiscono a reati. La norma non si applica a tutte le categorie di reddito, ma soltanto a quelle per le quali è prevista la deducibilità delle spese inerenti alla produzione del reddito (quindi, al reddito d’impresa e da lavoro autonomo). Sono, invece, deducibili i costi e le spese sostenuti per l’esercizio di diritti costituzionalmente garantiti: a tale fattispecie si riconducono le spese per l’assistenza legale in tutte le fasi del procedimento e del processo penale, nonché quelle collegate a una posizione giuridica riconosciuta nella Costituzione. Ai fini dell’imposta sul valore aggiunto, l’elaborazione comunitaria della Corte di giustizia ha sempre ammesso l’assoggettabilità al tributo delle attività illecite, laddove le corrispondenti attività lecite siano disciplinate come imponibili IVA. Tale conclusione trova la sua base nella necessità di salvaguardare la concorrenza e di non alterare il mercato. Le medesime ragioni conducono la giurisprudenza comunitaria a ritenere che le attività illecite possano essere assoggettate anche a esenzione IVA, se rientrano nell’ambito di applicazione della disposizione che prevede l’esenzione.

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