Provvidenza

Dizionario di filosofia (2009)

provvidenza


Dal lat. providentia, propr. «previdenza, prudenza», e, per metonimia, «divina provvidenza». Nella speculazione filosofica il concetto di p. nasce con lo stoicismo classico, per il quale esiste un ordine divino e razionale (πρόνοια) immanente all’Universo e alla sua evoluzione ciclica. Nella sua perfetta intelligenza, la πρόνοια riflette a priori il modo in cui si svolgerà il corso delle cose, e perciò stesso assicura a tale svolgimento la migliore forma possibile: essa quindi, insieme, «prevede» e «provvede». Questo duplice aspetto dell’idea della p. (che nello stoicismo giustifica da un lato la teoria della previsione del futuro mercé la mantica e dall’altro la fede ottimistica nella perfezione dell’Universo) si mantiene anche nel pensiero medievale, per quanto in questo venga sempre più prevalendo il motivo del diretto intervento di Dio nel corso delle cose. Di qui il contrasto fra l’idea della preordinata razionalità del disegno divino e quella della libera azione di Dio, a vantaggio del mondo, che la teologia cristiana medievale cerca in vario modo di conciliare. Nel pensiero moderno, Spinoza esclude rigorosamente questo contrasto riducendo la p. alla causalità dell’universale sostanza divina; e il problema della p. perde in seguito d’importanza in relazione con il diminuito interesse per i suoi generali presupposti teologici. Esso rinasce tuttavia come problema d’interpretazione storiografica. Nel Discours sur l’histoire universelle (1681; trad. it. Discorso sopra la storia universale) Bossuet, basandosi sul De civitate Dei (trad. it. La città di Dio) (➔) di Agostino, concepisce la p. come l’unica autrice della storia, i cui personaggi sono soltanto ignari esecutori dei disegni di Dio. Ma è soprattutto con la Scienza nuova (➔) di Vico che il concetto di p. assurge alla più matura espressione filosofica, sebbene sia controverso se il concetto vichiano abbia una connotazione esclusivamente razionalistica o anche religiosa. La p. costituisce per Vico il principio in virtù del quale le azioni dei singoli realizzano inconsapevolmente quei fini universali (la famiglia, la società, la civilizzazione) che vanno ben al di là del loro significato particolare. Questo tipo di interpretazione del concetto di p., in una prospettiva decisamente laica, lo si ritrova, d’altra parte, nella Favola delle api (➔) di Mandeville e nella metafora della «mano invisibile» con cui A. Smith intendeva teorizzare l’esistenza di un ordine naturale provvidenziale, intrinseco alla società e alla storia, che, al di là delle intenzioni dei singoli, realizza il bene comune. Nella forma più consapevole l’idea di una p. immanente alla storia sarebbe poi stata articolata dalla filosofia della storia di Hegel, il cui concetto di «astuzia della ragione» intendeva evidenziare come le azioni spesso divergenti degli uomini sarebbero finalizzate alla realizzazione di progetti universali che sfuggono alla consapevolezza di coloro che li realizzano. Tale concezione, da Vico e da Hegel, passa nella teoria storiografica di Croce, che parimenti considera la p. come la razionalità dell’universale accadere storico. Il concetto di p. viene negato, esplicitamente o implicitamente, da ogni concezione irrazionalistica e pessimistica del reale: come quella, per es., di Schopenhauer, che pone come principio assoluto una cieca «volontà di vivere», o come l’esistenzialismo, che oppone all’idea della progressività e razionalità del reale quella della sua precarietà e negatività, sostituendo quindi alla fede nei valori della vita e della storia il senso angosciato dei conflitti, non risolti, dell’esistenza.