PSICOBIOLOGIA

Enciclopedia Italiana - V Appendice (1994)

PSICOBIOLOGIA

Alberto Oliverio

(App. IV, III, p. 86)

La p. o biologia del comportamento è una disciplina ibrida, che rappresenta il punto d'incontro di diverse discipline e tradizioni sperimentali: l'anatomia del sistema nervoso, la neurofisiologia, la farmacologia biochimica, la genetica e neurobiologia molecolare e infine lo studio del comportamento. Da un'interazione di queste discipline nasce un approccio di tipo riduzionista al comportamento, approccio che ovviamente non può essere considerato esauriente ma rappresenta uno dei più attuali livelli di lettura del comportamento, quello di tipo biologico-evoluzionista.

Sviluppi tecnici. - Lo sviluppo della p. è stato possibile grazie alla disponibilità di tecniche che hanno consentito di registrare l'attività elettrica cerebrale, mediante elettrodi disposti sulla superficie cranica o a contatto con aree o superfici profonde del cervello (Berger 1929), l'attività dei singoli neuroni, spingendo sottili elettrodi dentro le cellule nervose, i potenziali elettrici a livello delle singole sinapsi o ''giunzioni'' nervose (Fatt e Katz 1951), i potenziali di azione (correlandoli con le variazioni ioniche del sodio o del potassio a livello della fibra nervosa: Cole e Curtis 1939), sino alle complicate misurazioni delle variazioni di corrente di un singolo canale del sodio a livello della membrana nervosa (tecnica del patch clamp: Sakmann e Neher 1983).

Sono state inoltre messe a punto tecniche che hanno permesso di stimolare con elettrodi delle aree nervose (Hess 1954) o singole cellule, di somministrare, attraverso microcannule, sostanze chimiche in aree specifiche del cervello e di estrarne metaboliti per valutare le variazioni funzionali (tecnica della push-pull cannula: Stein e Wise 1971). Le recenti tecniche ''non invasive'', inoltre, permettono di esplorare nell'organismo vivente l'anatomia del cervello attraverso l'associazione di tecniche radiologiche e informatiche (Tomografia Assiale Computerizzata o TAC: Hounsfield 1973, Cormack 1973), di visualizzare aree cerebrali e di misurarne il metabolismo in vivo con la tecnica della tomografia a emissione di positroni, basata sull'uso di sostanze marcate con isotopi radioattivi (PET: Phelps e coll. 1982; Sokoloff 1984). Bisogna anche ricordare la tecnica basata sulla visualizzazione a Risonanza Magnetica Nucleare (NMR: Lauterbur 1973), che non si basa né sull'uso di raggi X, come la TAC, né sull'uso di radioisotopi come la PET, e non sottopone quindi l'organismo a fonti di radiazioni. Vanno inoltre ricordate le tecniche di neuroanatomia, l'uso di metodiche di biochimica e di neurobiologia molecolare e infine la messa a punto di metodi per lo studio del comportamento animale in situazioni di laboratorio e nell'ambiente naturale. L'insieme di tutte queste tecniche ha reso possibile un approccio riduzionista allo studio del sistema nervoso e del suo funzionamento.

Vantaggi e problemi connessi a un approccio comparato. - Dal punto di vista di un inquadramento evoluzionistico, le ricerche in ambito psicologico si fondano su uno studio comparato del sistema nervoso e su un approccio tra struttura e funzione che tiene conto di un inquadramento tracciato anni or sono da J.W. Papez (1937) e da P.D. MacLean (1955), sostenitori di una concezione del sistema nervoso in cui le funzioni emotive o viscerali sono separate, e in modo abbastanza netto, da quelle cognitive o corticali.

La concezione di MacLean, nota anche sotto il nome di ''concezione tripartita del cervello'', si basa su una sistematizzazione di tipo evolutivo che tiene conto dell'emergere progressivo di tre strutture o insiemi funzionali che formano il sistema nervoso dei vertebrati: a un primo e più antico livello evolutivo vi sono le strutture spinomidollari, responsabili di funzioni riflesse e di attività essenziali alla sopravvivenza quali le funzioni respiratorie o circolatorie; a un secondo livello, quello paleoencefalico, c'è il cosiddetto cervello viscerale o limbico, responsabile di funzioni di tipo istintuale atte al mantenimento della specie e connotate da correlati di tipo emotivo; al terzo e ultimo livello, il più recente in termini evolutivi, c'è la neocorteccia, responsabile delle funzioni cognitive e di attività di tipo cosciente.

Lo schema evolutivo proposto da MacLean ha esercitato una notevole attrazione sia sugli addetti ai lavori che sui profani, in quanto offre un inquadramento sistematico di fenomeni complessi e permette di correlare livelli strutturali con livelli comportamentali, indicando quali siano state le tappe evolutive del cervello dei vertebrati e le origini del cervello umano. Tuttavia tale concezione presenta aspetti semplificanti, anche in termini evolutivi: le strutture paleoencefaliche, che formano il cosiddetto sistema limbico, non sono state infatti una semplice aggiunta a quelle spinomidollari nella storia evolutiva dei vertebrati, così come quelle neoencefaliche (la corteccia) non si limitano a coabitare con quelle paleoencefaliche e quelle spinomidollari. Il cervello è infatti composto di aree, centri e nuclei fortemente associati, cosicché la loro interazione dà luogo a un prodotto diverso e più complesso rispetto a quanto deriverebbe dalla semplice somma delle sue parti. Altrettanto artificiale risulta, da un punto di vista comportamentale, una distinzione netta tra attività emotive e attività cognitive, essendo entrambe strettamente e sottilmente interrelate.

La traccia evolutiva proposta da MacLean ha tuttavia consentito di portare avanti un primo approccio riduzionista al cervello e al comportamento, essenziale nella prima fase di questa disciplina, e ha consentito di raccogliere una vasta messe di risultati sul ruolo di strutture e funzioni corticali e sottocorticali, quali sono state le ricerche di J. Olds e P. Milner (1954) sul ruolo che esercitano il cosiddetto fascicolo prosencefalico anteriore e i nuclei dell'ipotalamo nel rinforzare una serie di comportamenti istintivi quali la fame, la sessualità, i comportamenti materni, ecc. Ricerche analoghe sono state condotte da J. Delgado (1969), che ha utilizzato la tecnica della stimolazione elettrica del sistema limbico per studiare le condotte aggressive di diverse specie animali; infine un approccio analogo, basato cioè sulla stimolazione elettrica di specifiche aree cerebrali, nel caso specifico di aree neoencefaliche, è stato utilizzato da W. G. Penfield (1975) per ''mappare'', cioè descrivere funzionalmente, le aree corticali

Le funzioni corticali tra localizzazione e olismo. - Penfield iniziò a mappare le aree motrici della corteccia elaborando i cosiddetti ''omuncoli'', cioè delle trasposizioni grafiche delle funzioni motrici che, sotto forma di figure deformate, forniscono una rappresentazione proporzionale della correlazione tra le aree di attività motrice e i relativi muscoli coinvolti nei movimenti fini: nell'uomo, infatti, i muscoli della mano e del viso sono rappresentati con una dimensione percentuale superiore rispetto a quella di altri territori, più semplici dal punto di vista motorio, e quindi controllati da un minor numero di neuroni, mentre in altre specie animali l'omuncolo presenta dimensioni accentuate degli arti inferiori o del tronco, in correlazione con la maggiore complessità delle aree motrici interessate.

Gli esperimenti effettuati da Penfield, estesi ad altre funzioni come quelle sensitive o linguistiche, hanno suggerito l'ipotesi che diverse funzioni fossero localizzate in alcuni territori della corteccia. Esperimenti successivi indicarono infatti che alcune aree corticali, come l'area temporale mediale, potessero essere responsabili della codificazione delle memorie di tipo dichiarativo in quanto diversi ricercatori, come L. Squire e S. Zola-Morgan (1988), hanno evidenziato che le lesioni dell'ippocampo e della corteccia temporale si traducono in uno stato amnestico; ricerche ulteriori hanno però dimostrato che la memoria non è ''localizzata'' in uno specifico territorio corticale, anche se alcune strutture nervose, come quelle appena citate, possono modularla, cioè possono giocare un ruolo essenziale nei processi di codificazione e di rintraccio dei ricordi.

È però evidente che alcune aree corticali svolgono un ruolo critico nella regolazione di alcuni aspetti comportamentali e nella loro organizzazione gerarchica: per es., la corteccia frontale anteriore ha un ruolo importante nell'inibire risposte irrilevanti o ripetitive, la corteccia frontale posteriore dell'emisfero sinistro negli aspetti motori del linguaggio (area di Broca) e la parte posteriore del lobo temporale sinistro nella comprensione del linguaggio (area di Wernicke). Anche alcuni aspetti dell'emozione possono essere localizzati, come ha dimostrato E. D. Ross (1984): in particolare è stato posto in evidenza, mediante lo studio di pazienti che presentano aprosodie, cioè incapacità di comprendere o d'imprimere una carica affettiva al linguaggio, che l'area temporale destra (omologa a quella di Wernicke a sinistra) controlla la comprensione degli aspetti emotivi del linguaggio, mentre l'area frontale sinistra (omologa a quella di Broca a destra) controlla gli aspetti espressivi.

Un'ulteriore conferma della localizzazione di alcuni aspetti dell'affettività proviene dagli studi condotti da D. Bear (1979) su pazienti con epilessia temporale: in questi pazienti, soprattutto prima dell'accesso epilettico, sono usuali sensazioni di déjà vu, allucinazioni, paura, rabbia, illusioni e sensazioni connesse alla sessualità. In molti pazienti queste sensazioni erano presenti anche negli intervalli di tempo tra un accesso epilettico e l'altro, a indicare modifiche croniche a carico dell'emisfero sinistro che possono gradualmente provocare un'evoluzione della personalità di tipo paranoico. Utilizzando la tecnica della PET, L. N. Robins e collaboratori (1985) hanno inoltre indicato che il lobo temporale e altre strutture del sistema limbico sono responsabili dei cosiddetti attacchi di panico, un disturbo dell'emotività caratterizzato da episodi ricorrenti di terrore immotivato: Robins ha dimostrato che l'attacco è preceduto e accompagnato da un aumento del flusso sanguigno e del metabolismo a livello del lobo temporale che, evidentemente, svolge un ruolo critico in questi episodi.

In sostanza il bilancio tra i fautori di una concezione olista del cervello (secondo cui nulla o quasi è localizzato) e i sostenitori di una concezione localizzazionista è problematico e sfumato: vi sono alcune funzioni rigidamente localizzate (basti pensare al sonno, al sogno, alla regolazione della temperatura e della fame), altre in cui vi sono strutture nervose che giocano un ruolo critico (si pensi per es. al linguaggio), e altre ancora in cui una funzione, per es. la memoria, fa capo a diverse aree corticali e a diverse strutture sottocorticali e implica processi plastici che sono evidenti in ogni aspetto comportamentale, anche in quelli che sembrano più rigidamente determinati. In effetti persino le funzioni motorie sono soggette a qualche plasticità: per es., la denervazione di un territorio periferico (come può derivare dalla sezione accidentale di un nervo) o l'esercizio di un particolare gruppo di muscoli possono comportare una rielaborazione delle mappe sensitive o motorie, cioè una variazione nella rappresentazione di un determinato territorio a livello dell'omuncolo corticale che può essere considerato come una sorta di carta geografica dai contorni ''elastici'', ampliabili o retraibili a seconda dell'uso o del non uso di un particolare territorio. Il concetto di plasticità del sistema nervoso viene inoltre sottolineato dalle ricerche che indicano come i fattori di crescita quali l'NGF (fattore di crescita del sistema nervoso) stimolino la formazione di detriti e sinapsi nell'ambito del sistema nervoso.

Esiste quindi uno stato di plasticità del sistema nervoso che fa sì che non vi sia una rigida localizzazione funzionale, soprattutto per quanto riguarda i comportamenti più complessi come la memoria. Oggi infatti si ritiene che i ricordi non abbiano una sede specifica, ma che dipendano dall'entrata in gioco di vaste aree corticali e sottocorticali e dall'interazione tra ''mappe'' neuronali, come verrà esposto in seguito; si ritiene inoltre che essi non costituiscano entità fisse e immutabili ma piuttosto che dipendano da un complesso lavoro di generalizzazione e di categorizzazione effettuato dal cervello nel suo insieme, il che rappresenta un importante aspetto delle attività cognitive.

Dalle ricerche sulla memoria a nuove teorie del cervello. - A questa nuova concezione della memoria e della stessa funzione cerebrale si è giunti attraverso risultati sperimentali ed elaborazioni teoriche: importanti a tale riguardo sono i risultati ottenuti nell'animale e nell'uomo, in particolare da L. R. Squire e da S. Zola-Morgan (1988), che dimostrano come a distanza di tempo da un'esperienza particolare, cioè dal consolidamento di un particolare ricordo, quest'ultimo possa essere soggetto a modifiche, cioè possa andare incontro a fenomeni di oblio o mutare nella sostanza. Questi dati, ottenuti attraverso lo studio di agenti che interferiscono coi processi mnestici (come l'elettroshock o alcuni farmaci che provocano amnesia), indicano, contrariamente a quanto si riteneva fino ad alcuni anni or sono, che i ricordi sono entità dinamiche, che una rappresentazione originaria viene ristrutturata da eventi e da apprendimenti successivi e che ogni evento è soggetto a qualche forma di oblio, talora anche massiccio, come si verifica in alcune malattie invalidanti del sistema nervoso, in particolare nel morbo di Alzheimer.

Le memorie che sopravvivono ai fenomeni di oblio, più cospicue di quanto si ritenga, vengono perciò riorganizzate di continuo, attraverso quelle che G. E. Edelman (1987) definisce "informazioni di rientro" interne o esterne: il termine proposto da Edelman sta a significare che un ricordo viene modificato sia da afferenze che provengono dall'interno del sistema nervoso, cioè da un continuo confronto con altre memorie, sia da afferenze che provengono dall'esterno, cioè dalle esperienze e apprendimenti quotidiani. Edelman ha inoltre proposto che la registrazione di esperienze faccia capo a un processo di "darwinismo neuronale": basandosi su un insieme di dati neurobiologici e di acquisizioni nel campo della neurobiologia dello sviluppo, Edelman ha notato che i diversi neuroni sono dotati di caratteristiche e di reattività diverse, tali da far sì che uno stimolo che perviene al sistema nervoso possa trovare alcuni neuroni − piuttosto che altri − in uno stato tale da farli reagire (registrare) a quello stimolo piuttosto che a un altro. Basandosi su dati empirici e su simulazioni al computer, Edelman sostiene che sarebbero quindi le caratteristiche dello stimolo a selezionare i neuroni, stimolandone alcuni a formare una trama funzionale e facendo invece sì che altri vadano incontro alla ''estinzione'': il processo di registrazione delle esperienze presenterebbe quindi somiglianze con quello della selezione naturale, da cui il termine di darwinismo neuronale. È stato inoltre ipotizzato che tale processo interessi gruppi di neuroni diversi che codificano le diverse caratteristiche di uno stimolo-esperienza. In seguito, l'interazione tra diversi gruppi o mappe neuronali permetterebbe di ricostruire l'esperienza nel suo insieme. Questa modalità consentirebbe di codificare aspetti simili di realtà diverse in una stessa mappa neuronale attraverso un processo di categorizzazione che, come effetto finale, produce la generalizzazione delle esperienze. La teoria della memoria di Edelman è quindi olistica anziché localizzazionista, in quanto presuppone che un'esperienza selezioni un particolare gruppo di neuroni anziché un altro, indipendentemente dalla loro sede nella corteccia: ciò comporta anche che diversi individui, cioè diversi cervelli, anziché far capo a particolari reti nervose, situate nelle stesse sedi specifiche, registrino esperienze utilizzando neuroni e reti nervose diverse. La teoria del darwinismo neuronale, proprio per il suo sottolineare l'individualità delle intelligenze di tipo biologico, ha avuto notevoli ricadute nel campo dell'intelligenza artificiale.

Risultati in ambito psicofarmacologico e genetico. - Accanto a questi filoni di ricerca, che puntano a un'analisi dei rapporti tra struttura e funzione attraverso approcci che tentano di fondere le neuroscienze e le scienze del comportamento con altre discipline, non ultima la scienza dell'informazione, altre due linee di ricerca della p. hanno prodotto interessanti risultati in questi ultimi anni: la psicofarmacologia e lo studio dei rapporti tra comportamento e fattori genetici e molecolari.

Nel primo caso, partendo dalle ricerche volte a chiarire il meccanismo d'azione degli psicofarmaci sintetici, si è arrivati a comprendere che diverse sostanze prodotte dal cervello, di cui gli psicofarmaci imitano l'azione, possono indurre stati ansiosi o di calma, confusionali o psicotici. Così, partendo da ricerche sull'azione di sostanze estranee al nostro organismo, come la morfina o l'eroina, è stato possibile scoprire che esistono oppioidi endogeni, come le encefaline e le endorfine (Hughes e Kosterlitz 1975), che modificano diversi aspetti del nostro comportamento emotivo e modulano i processi mnestici agendo su quegli stessi recettori localizzati a livello del sistema limbico su cui agiscono, con effetti sedativi e piacevoli, i derivati naturali o sintetici dell'oppio.

Studiando gli effetti di farmaci neurolettici come la clorpromazina, utilizzati per controllare i sintomi degli stati schizoidi, si è scoperto che questi farmaci agiscono a livello di recettori localizzati nel sistema mesolimbico, un insieme di nuclei che modulano il flusso dell'emotività in direzione della corteccia: poiché su questi recettori agisce anche il mediatore nervoso dopamina, è stato ipotizzato (Carlsson 1974) che alcuni aspetti dei disturbi schizofrenici possano dipendere da alterazioni a livello dei recettori dopaminergici, tesi che ha trovato qualche conferma in risultati di tipo biochimico e da tecniche di visualizzazione cerebrale che mettono in evidenza le alterazioni della distribuzione e del numero di questi recettori nei pazienti psicotici.

Per quanto riguarda infine la genetica del comportamento, passando attraverso lo studio di ceppi di animali con alterazioni neurobiologiche e comportamentali (Bovet e collaboratori 1969; Oliverio 1983) simili a quelle di alcune malattie del sistema nervoso, questa disciplina si è recentemente rivolta verso una biologia molecolare del sistema nervoso, cioè verso lo studio delle modalità attraverso cui i geni codificano le proteine cerebrali: questo approccio può consentire di caratterizzare dal punto di vista molecolare i meccanismi di base della fisiologia e patologia cerebrale di alcuni aspetti del comportamento e di malattie neurologiche che dipendono, per es., dall'azione di peptidi e proteine anomale. Importanti risultati sono stati raggiunti, per es., utilizzando un approccio genetico alla corea di Huntington o al morbo di Alzheimer: ci si augura che nei prossimi anni questi approcci, al momento limitati alla ricerca dei meccanismi responsabili di queste malattie invalidanti, comportino ricadute in campo clinico.

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