PSICOLINGUISTICA

Enciclopedia Italiana - IV Appendice (1981)

PSICOLINGUISTICA

Paolo Legrenzi

Si è incominciato a usare il termine "psicolinguistica" negli anni Cinquanta per indicare le ricerche sul comportamento linguistico condotte sulla base dei concetti e delle analisi dei linguisti. Il superamento della tradizionale area denominata "psicologia del linguaggio" è avvenuto, in un primo tempo, mutuando dalla linguistica una scomposizione diversa da quella fondata su "lettere/parole". Gli psicolinguisti presero infatti in considerazione unità come i fonemi, i morfemi e le combinazioni di parole, cioè le frasi. La nascita del settore di ricerca così denominato - osserva la Greene (Psycholinguistics, 1972, p. 14) - non è stata però caratterizzata soltanto dall'accettazione di unità definite in base al lavoro dei linguisti, ma soprattutto dall'influenza esercitata da parte della teoria dell'informazione e della teoria comportamentista dell'apprendimento.

Teoria dell'informazione. - È stata inizialmente proposta da Shannon nel campo delle telecomunicazioni. L'idea di base è che l'informazione trasmessa da un messaggio non va definita in relazione al suo contenuto specifico, bensì esclusivamente in termini di quantità d'incertezza eliminata grazie alla trasmissione del messaggio stesso. Poniamo che il messaggio sia di natura linguistica, costituito cioè dalla sequenza di parole che una persona invia a un'altra. Se possiamo prevedere in anticipo e con assoluta sicurezza quello che verrà detto, non c'è nessuna incertezza in relazione al messaggio, ragion per cui possiamo dire che quest'ultimo non trasmette nessuna informazione. Se invece sappiamo che il suo contenuto può essere sia A che B, siamo in presenza di un certo grado d'incertezza (dato che ci sono 50% delle probabilità per A e 50% per B), incertezza che viene ridotta a zero quando riceviamo, per es., A. La quantità d'incertezza aumenta con il crescere del numero dei messaggi possibili ed è massima quando i messaggi vengono scelti a caso, dato che non vi è alcun modo di prevedere quale sarà il prossimo messaggio. Shannon (1948) ha mostrato come la trasmissione d'informazioni mediante il linguaggio non corrisponda affatto a questa situazione di massima incertezza: via via che parliamo, dopo ogni lettera o parola, la lettera o parola successiva non può certo venir scelta a caso. Per es. la t può venir seguita soltanto da un certo numero di lettere, e dopo la q, in italiano e in altre lingue come l'inglese, si può prevedere che verrà sicuramente una u. Lo stesso si verifica per le successioni di parole: dato questo inizio di frase: Il Partito......, vi è un ampio, ma non illimitato, numero di parole che può seguire.

Miller e Selfridge (1950) hanno condotto un esperimento adottando un metodo molto ingegnoso per variare la quantità d'informazione presente in materiale verbale. Essi hanno ripreso da Shannon (1948, in Oldfield e Marshall, 1968) il concetto di "ordine di approssimazione all'inglese (o a un qualsiasi altro linguaggio naturale)" ridefinendolo in base alla procedura con cui il materiale verbale veniva composto. A partire da un livello, chiamato "ordine di approssimazione zero all'inglese" e costituito da sequenze di parole scelte completamente a caso, passiamo subito dopo a un "primo ordine di approssimazione" in cui le parole vengono scelte da campioni con alta frequenza d'uso (come i giornali di ampia diffusione o altri mezzi di comunicazione di massa). I livelli ulteriori vengono definiti introducendo vincoli sempre più rigorosi nella scelta, e cioè in concomitanza a contesti via via più lunghi. Per es., per ottenere "sequenze al quarto ordine di approssimazione", venivano presentate a una persona tre parole consecutive, come Paolo ama Maria, e le si chiedeva di aggiungerne una quarta. Poniamo che la parola scelta fosse e: in tal caso le ultime tre parole, e cioè ama Maria e, venivano presentate a un'altra persona che doveva fare una successiva aggiunta, per es. Matteo. Le ultime tre parole, Maria e Matteo, venivano quindi utilizzate per un'ulteriore aggiunta, poniamo giocano. Ripetendo molte volte questa procedura si ottenevano "sequenze al quarto ordine di approssimazione", del tipo: Paolo ama Maria e Matteo giocano....... (con lo stesso metodo si ottenevano anche liste al "quinto ordine": l'unica differenza consisteva nella lunghezza del contesto precedente, formato in tal caso non da tre ma da quattro parole, ecc.). Queste catene di parole, costituite da sotto-blocchi sensati e coerenti, appaiono nel loro complesso disarticolate, in quanto piene di salti e interruzioni.

L'esperimento vero e proprio di Miller e Selfridge (1950) consisteva nel presentare ai soggetti, che avevano il compito di memorizzarle, liste di parole generate con questa procedura, e cioè sequenze di ordine zero, di primo ordine, secondo, terzo, ecc. Il fatto, abbastanza scontato, che i soggetti ricordano tante più parole quanto più è alto l'ordine di approssimazione, è stato interpretato da Miller e Selfridge come una dimostrazione della possibilità di misurare la "quantità di significato" di un testo esclusivamente in termine di prevedibilità di una parola dato il contesto precedente. Al di là di tali risultati (e di quelli di altri esperimenti) di per sé interessanti, i limiti della teoria dell'informazione nel suo complesso, intesa cioè come modello della comprensione e della produzione linguistica, sono analoghi ai difetti della teoria comportamentista dell'apprendimento (il che è comprensibile se si tien conto non solo del fatto che questi due approcci si sono sviluppati nello stesso periodo ma anche, e soprattutto, della loro complementarietà teorica).

Teoria comportamentista dell'apprendimento linguistico. - Si tratta di un filone teorico, più che di una singola teoria: l'idea di base è costituita dal modello "stimolo (S) - risposta (R)". Nel caso del linguaggio L. Bloomfield (1933) è stato tra i primi a proporre che l'attività verbale venga considerata come una sotto-classe delle risposte che l'organismo impara a emettere in rapporto a un qualsiasi stimolo presente nell'ambiente circostante. Di conseguenza la capacità di parlare (produzione) e quella di capire (comprensione) possono venire spiegate all'interno del sistema più generale che governa, secondo i comportamentisti, le connessioni tra stimoli e risposte.

La soluzione teorica più semplice, in merito a questa connessione, è quella di B. F. Skinner (1957), il quale postula che le risposte verbali siano immediatamente collegate agli stimoli, senza alcuna mediazione di variabili intervenienti come "significato", "operazioni mentali", "regole grammaticali", ecc. Più complessa è la teoria dell'apprendimento introdotta da Osgood (Osgood, Suci e Tannebaum, 1957). Egli ritiene che il significato corrisponda, sul piano psicologico, a processi di mediazione simbolica: questi non sono osservabili e costituiscono il tramite per cui diamo una certa risposta verbale (una parola) in corrispondenza a uno stimolo esterno (un oggetto). Per Osgood è dunque molto importante studiare la natura di tale presunta mediazione e, a questo scopo, ha realizzato uno strumento di misurazione del significato delle parole che ha avuto poi diverse applicazioni anche esterne alla p., per es. in campo pubblicitario e nelle indagini di opinione (cfr. Capozza e De Carlo, 1975). Essenzialmente tale misurazione si realizza chiedendo a un dato campione di persone di giudicare la posizione di un qualsiasi nome o concetto (soldato, pecora, P.C.I., democrazia, ecc.) su una scala a sette punti i cui estremi sono costituiti da coppie di aggettivi del tipo: buono-cattivo, forte-debole, veloce-lento, attivo-passivo, caldo-freddo, ecc. Secondo Osgood è possibile, effettuata questa misurazione del significato, collocare tutti i nomi in uno spazio tridimensionale definito da tre dimensioni: attività, potenza e bontà (per es., soldato potrebbe essere + 2 buono, + 7 potente e + 7 attivo mentre per pecora potremmo avere + 3 buono, + 1 potente e + 3 attivo).

Al di là di certe specifiche tecniche derivate da questi due approcci, sia nel campo delle comunicazioni che dell'insegnamento, il loro limite teorico consiste nell'ignorare completamente i meccanismi mentali che ci permettono di usare e di capire il linguaggio, o, meglio, quel sistema di regole che padroneggiamo nel costruire frasi corrette (cioè sequenze di parole che obbediscono alle norme della sintassi). Come risolvono questo problema, che è quello della cosiddetta "competenza linguistica", la teoria dell'informazione e i sostenitori del modello stimolo-risposta? Assumendo semplicemente che ogni parola di una frase venga scelta in rapporto ai termini precedenti, secondo un calcolo delle probabilità che è guidato dalla nostra esperienza passata formata di connessioni tra stimoli e risposte verbali (cfr. Herriot, 1970, e Greene, 1975).

L'importanza del lavoro di Chomsky (1957-65) è dovuta proprio, sul piano storico, all'aver confutato i compositi modelli del comportamento linguistico basati sui due filoni teorici qui esaminati. Chomsky e anche Miller (cfr. Miller, Galanter e Pribram, 1960) hanno mostrato in primo luogo che un sistema di scelta basato sulla pura frequenza delle parole non può corrispondere ai processi mentali effettuati mentre parliamo. In secondo luogo un modello basato sull'esclusiva azione dell'esperienza passata non spiega come mai riusciamo a dire e capire frasi nuove (cioè non udite in precedenza) e come mai riusciamo ad accorgerci del fatto che frasi senza senso, del tipo Incolori idee verdi dormono furiosamente, obbediscono alle regole della sintassi. Infine Miller ha messo in luce il paradosso per cui la nostra infanzia dovrebbe durare più di un secolo se volessimo render conto della nostra competenza linguistica sulla base esclusiva dell'esperienza passata: questo sarebbe infatti il tempo necessario per poter ascoltare almeno una volta le frasi che un bambino sa usare. Il fatto è, come ha mostrato Chomsky, che noi non impariamo "associazioni di parole o legami tra frasi" bensì l'uso di semplici regole grammaticali. Seguendo tali regole possiamo costruire tutte le frasi che vogliamo, combinando in modo corretto le parole che abbiamo imparato e immagazzinato nella "memoria semantica", dove sono organizzate in base ai reciproci rapporti di significato e non di associazione (cfr. Legrenzi, 1975a).

Il modello chomskiano. - Il compito del linguista diviene così, secondo Chomsky, l'esplicitazione e la rappresentazione di questo sistema di regole di "assemblaggio" che costituiscono la nostra "competenza linguistica". Lo psicolinguista dovrà invece appurare con la metodologia sperimentale come tale sistema di parole viene di fatto usato (cioè la sua "esecuzione"). Si tratta cioè di verificare se in compiti di memoria linguistica (per es. il "ricordo di frasi") o in compiti basati sui tempi di reazione (per es. la quantità di tempo necessaria per decidere la verità di una frase) o, infine, in altre prestazioni, i risultati siano quelli che ci si dovrebbe aspettare qualora le operazioni mentali a monte di tali prestazioni venissero eseguite secondo le previsioni deducibili dal modello chomskiano (o da parti di tale modello), che dimostrerebbe così di possedere "realtà psicologica". È in tale prospettiva che oggi, sempre più spesso, si parla di p., intendendo cioè riferirsi con questo termine a quel settore di ricerca che ha fatto suoi i modelli legati all'impostazione chomskiana. La massa di lavoro sperimentale volto a controllare le proposte teoriche di Chomsky, e, al di là di questo ambito più specialistico, l'entusiasmo suscitato dalla sua concezione del rapporto individuo-ambiente, diviene comprensibile se si pone mente alla profonda rivoluzione innescata nei confronti della piscologia allora dominante, e cioè l'impostazione comportamentista intesa in senso lato (si tratta di quell'insieme di filoni teoretici che volevano la mente come "tabula rasa", o addirittura la ignoravano in quanto "scatola nera").

Da questo filone sperimentale volto a controllare la realtà psicologica del cosiddetto "modello classico", in quanto avanzato da Chomsky nel suo saggio del 1957 e poi perfezionato nel libro del 1965, sono emersi alcuni limiti (cfr. Johnson-Laird, in Lyons, 1970). La difficoltà fondamentale consiste nella rigida separazione tra il significato delle frasi e le regole sintattiche di composizione delle medesime, regole che, secondo Chomsky, vanno definite indipendentemente dal significato. La Sacks (1967), per es., ha potuto mostrare che, quando a una persona si chiede se una certa frase era presente o meno in un brano appena letto, le differenze di sintassi, irrilevanti per il significato, non vengono notate mentre le differenze semantiche sì. In memoria viene quindi conservato il significato delle frasi del brano, non la loro sintassi. Se la frase da riconoscere è però l'ultima del brano appena letto, allora tutte le differenze vengono notate: questo indica che per un certo lasso di tempo viene conservato sia il significato che la forma sintattica. Si tratta di un risultato sperimentale confermato da Flores D'Arcais (1974), il quale ha mostrato che il ricordo letterale, cioè parola per parola, è buono se viene misurato subito dopo aver visto delle frasi, mentre con intervalli più lunghi assume la forma di parafrasi di "ogni possibile tipo" delle frasi originali. Lo stesso Flores D'Arcais (in Flores D'Arcais e Levelt, 1970) aveva ottenuto dei dati volti a provare l'impossibilità di render conto delle prestazioni con frasi comparative in base esclusivamente alle trasformazioni previste dalle regole chomskiane.

Psicolinguistica post-chomskiana. - Appurata l'importanza degli aspetti semantici delle frasi (evidenziati, tra l'altro, dal fatto che sono questi a venir conservati in memoria) si è cercato di costruire dei modelli sufficientemente articolati di tale contenuto semantico (per l'analisi storico-critica di questo sviluppo, cfr. Legrenzi, 1975b). Abbiamo così il superamento del modello chomskiano nella cosiddetta "psicolinguistica postchomskiana", la quale, beninteso, mantiene gli assunti di base del modello precedente (e cioè il rifiuto a considerare la frase come una sequenza associativa di elementi e la conseguente necessità di analizzarla globalmente in base a regole, regole che si suppone siano contenute nella mente e non siano quindi riducibili a degli osservabili secondo il classico approccio comportamentista). Attualmente non abbiamo una rappresentazione del significato delle frasi che sia accettato dalla maggioranza dei linguisti e universalmente proposto al controllo degli psicologi, come negli anni Sessanta. Potremmo anzi dire che questi ultimi hanno incominciato a prendere l'iniziativa procedendo spesso autonomamente anche a livello teorico (Parisi, 1974). Un modello semanticista molto seguito, almeno in termine di "adozione" nel corso di verifiche empiriche, è la "grammatica dei casi" di Fillmore (cfr. Brown, 1973, Bowerman, 1973, e Flores D'Arcais, 1973). Molto successo incontra anche l'approccio cibernetico allo studio dei linguaggi naturali o, più specificamente, il "programma" elaborato da Winograd (1973) rifacendosi alla grammatica di Halliday (1973).

In Italia la maggior parte delle ricerche viene condotta seguendo un modello simile a quello della semantica generativa di Lakoff (1970), sebbene diverso per una serie di aspetti (Parisi e Antinucci, 1973). Tale modello, proposto da Parisi e da un gruppo di collaboratori dell'istituto di psicologia del CNR di Roma (cfr. Parisi, 1975, dove sono esposte anche molte applicazioni), prevede che il significato delle parole sia rappresentato come una combinazione di componenti, cioè operazioni mentali elementari che ricorrono nel significato di più parole. In modo analogo viene rappresentato anche il significato delle frasi, dato che l'attività di un parlante (produzione) viene interpretata fondamentalmente come il prodotto di due operazioni: 1) L'elaborazione di strutture mentali, descrivibili in modo formale come configurazioni di predicati, e 2) la successiva proiezione di queste strutture nell'appropriata sequenza di suoni. La comprensione avviene secondo un processo inverso: si elabora la sequenza di suoni in ingresso secondo lo stesso sistema di regole di proiezione, così da ricostruire la configurazione di predicati che costituisce il significato che si vuole comunicare (cfr. Parisi, 1972). Tale modello è stato applicato sistematicamente allo studio dell'acquisizione del linguaggio nel bambino nei primi tre anni di vita e ha permesso l'identificazione di due stadi dello sviluppo linguistico su base puramente semantica. Al termine di questi due stadi il bambino sembra già possedere praticamente tutti i meccanismi semantici a disposizione dell'adulto. Il controllo sperimentale sugli adulti viene condotto secondo un'estensione e una specificazione dei meccanismi psicologici della comprensione e della memoria linguistica (cfr. Parisi e Castelfranchi, 1974). Sono stati recentemente affrontati anche alcuni aspetti pragmatici, come lo sviluppo delle relazioni tra la negazione e il contesto in cui viene usata e lo sviluppo delle interazioni comunicative nel primo anno di vita (Bates, Camaioni e Volterra, 1973).

Per quanto concerne tali aspetti pragmatici possiamo concludere dicendo che tutta la p. attuale pone l'accento sulle dimensioni pragmatiche e sociali del linguaggio inserendosi così in modelli più ampi della mente e della società. È sempre più raro il tentativo, frequente nel decennio chomskiano, di considerare la capacità linguistica indipendentemente dalla capacità cognitiva dell'uomo, dalle sue conoscenze riguardanti il mondo, dalle sue capacità d'inferenza e di ragionamento, dagli scopi che governano il suo uso del linguaggio, e così via. La p. diviene così un aspetto della psicologia cognitiva e, soprattutto, del suo settore oggi più in espansione, quello cioè della simulazione dei processi psicologici sul calcolatore e dell'intelligenza artificiale.

Bibl.: L. Bloomfield, Language, New York 1933 (trad. it. Il linguaggio, Milano 1974); C. E. Shannon, A mathematical theory of communication, Urbana 1949; G. A. Miller, J. A. Selfridge, Verbal context and the recall of meaningful material, in American Journal of psychology, 63 (1950), pp. 176-85; N. Chomsky, Syntactic structures, L'Aia 1957 (trad. it. Le strutture della sintassi, Bari 1970); C. E. Osgood, G.J. Suci, P. Tannenbaum, The measurement of meaning, Urbana 1957; B. F. Skinner, Verbal behaviour, New York 1957; G. A. Miller, E. Galanter, K. H. Pribram, Plans and structure of behaviour, ivi 1960 (trad. it. Piani e struttura del comportamento, Milano 1973); N. Chomsky, Aspects of theory of syntax, Cambridge 1965 (trad. it. Aspetti della teoria della sintassi, in N. Chomsky, Saggi linguistici, voll. 2, Torino 1970); R. C. Oldfield, J. C. Marshall, Language, Harmondsworth 1968 (trad. it. Psicolinguistica, Torino 1974); Advances in psycholinguistics, a cura di G. B. Flores D'Arcais, W. L. M. Levelt, Amsterdam 1970; (trad. it. La psicologia del linguaggio, Bari 1972); G. Lakoff, Irregularity in syntax, New York 1970; New horizons in linguistics, a cura di J. Lyons, Harmondsworth 1970 (trad. it. Nuovi orizzonti della linguistica, Torino 1975); J. Greene, Psycholinguistics, ivi 1972; D. Parisi, Il linguaggio come processo cognitivo, Torino 1972; R. W. Brown, A first language, Cambridge (Mass.), 1973; M. Bowerman, Early syntactic development: a cross-linguistic study with special reference to Finnish, ivi 1972; M. A. K. Halliday, Explorations in the functions of language, Londra 1973; D. Parisi, F. Antinucci, Elementi di grammatica, Torino 1973; T. Winograd, Understanding natural language, New York 1973; G. B. Flores D'Arcais, Is there a memory for sentences?, in acta psychologica, 38 (1974), pp. 33-58; D. Parisi, Psicolinguistica post-chomskiana, in Giornale italiano di psicologia, 1974, I, pp. 9-34; E. E. Bates, L. Camaioni, V. Volterra, The acquisition of performatives prior to speech, in Merrill-Palmer quarterly of behaviour and development, XXI (1975), pp. 205-26; D. Capozza, N. A. De Carlo, Metodi e ricerche per l'indagine psicologica di alcuni temi della società italiana, Bologna 1975; J. Greene, Thinking and language, Londra 1975; P. Legrenzi, Linguaggio e pensiero, in G. Kanizza, P. Legrenzi, P. Meazzini, I processi cognitivi, Bologna 1975 a, pp. 400-589; id., Forma e contenuto dei processi cognitivi, ivi 1975 b; Studi per un modello del linguaggio, a cura di D. Parisi, in Quaderni de La ricerca scientifica del CNR, Roma 1975.

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