Psicosi

Universo del Corpo (2000)

Psicosi

Arnaldo Ballerini

Per psicosi si intende una condizione patologica di sovvertimento della struttura psichica nei rapporti tra rappresentazione ed esistenza. Benché alcuni testi psichiatrici prevedano che in futuro il termine non sarà più utilizzato, in quanto di scarsa utilità nella classificazione dei disturbi mentali, almeno finché non si avrà una conoscenza esauriente delle cause e della patogenesi dei disturbi psichici psicosi e la sua forma aggettivata, psicotico, resteranno insostituibili. La definizione del termine è comunque complessa, dato che coinvolge fortemente gli elementi teoretici della psichiatria, quali i suoi presupposti filosofici e fondamenti epistemici.

Storia del concetto

Secondo l'Oxford English dictionary il termine psicosi indica "nell'uso moderno, ogni malattia mentale o disturbo che è accompagnato da allucinazioni, deliri o confusione mentale e perdita di contatto con la realtà esterna, attribuibile o non a una lesione organica". Fra i manuali di psichiatria, lo Psychiatric glossary (American psychiatric association 1984) designa come psicosi "un disturbo mentale maggiore di origine organica o emozionale nel quale la capacità personale di pensare, reagire emotivamente, ricordare, comunicare, interpretare la realtà, e comportarsi appropriatamente è così compromessa da interferire grossolanamente con la capacità di far fronte alle ordinarie richieste della vita". L'ICD-10 (The ICD-10 classification of mental and behavioural disorders; World health organization 1993) stabilisce che il termine psicotico "semplicemente indica la presenza di allucinazioni, deliri, o un limitato numero di diverse anormalità di comportamento". Per il DSM-IV (Diagnostic and statistical manual of mental disorders) dell'American psychiatric association (1994) il disturbo psicotico "si riferisce a deliri, allucinazioni importanti, linguaggio disorganizzato, o comportamento disorganizzato o catatonico". Il concetto di psicosi e la sua polarità opposta 'nevrosi' hanno subito radicali mutamenti di significato nel corso della storia delle idee, a seconda dei contesti intellettuali e sociali in cui sono stati adoperati (Beer 1996). Quando la parola nevrosi fu introdotta da W. Cullen verso la fine del 18° secolo, essa indicava qualsiasi malattia attribuibile a un disturbo del sistema nervoso; su questa concezione, nel 1845, E. von Feuchtersleben coniò il termine psicosi scrivendo: "La malattia della psiche o psicosi ha la sua radice nell'anima anche se è mediata dall'organo del senso [...]. Ogni psicosi è nello stesso tempo una nevrosi perché senza l'intervento della vita nervosa non si manifesta alcun cambiamento psichico"; espressamente Feuchtersleben intendeva con questo "tracciare la causalità esistente fra le malattie della mente e del corpo". Successivamente i due concetti psicosi e nevrosi hanno subito un percorso divergente, il secondo rinviando a un'origine prevalentemente o totalmente psicologica, il primo a un'origine prevalentemente o totalmente somatica, almeno nel pensiero della psichiatria tradizionale. Anche se gli storici fanno risalire la matrice culturale di Feuchtersleben al movimento romantico, e in particolare a filosofi come F.W.J. Schelling, che sostenevano l'impossibilità per lo spirito e l'anima (Seele) di divenire malati, il dibattito coevo vedeva schierati pensatori convinti che i disturbi psicotici avessero sempre una causa somatica e altri, come J. Heinroth, propensi ad attribuire loro un'origine psicologica da passioni tumultuose o peccati, per cui secondo Heinroth 'l'innocenza' non diventerebbe mai pazza, lo diventerebbe 'solo la colpa' (Jaspers 1913). La proposta di Feuchtersleben conteneva comunque temi che tuttora attraversano la psichiatria e, in particolare, il problema della complessa interazione nella psicosi di motivi psicologici e somatici, anche se la radicalità della distinzione fra essi ha perso di pregnanza nel pensiero contemporaneo, e siamo oggi assai scettici circa l'asserzione di W. Griesinger (1845), secondo cui le psicosi sono equiparabili a malattie del cervello. A ben vedere tutte le definizioni correnti di psicosi ricorrono a due aspetti: uno eminentemente pragmatico, che sottolinea la gravità dei disturbi psicotici per quanto riguarda la competenza sociale (e la responsabilità, anche giuridica) della persona psicotica; uno centrato su sintomi tipici: talora l'eventuale incoerenza verbale, o le allucinazioni quali false percezioni, ma soprattutto il fenomeno del delirio.

Ambedue questi aspetti della psicosi hanno per base comune e quale concetto sovraordinato quello, meno vago di quanto possa sembrare, di 'perdita di contatto con la realtà'. È questo il fenomeno centrale della psicosi che ne determina la gravità pragmatica e assieme ne permea i sintomi caratteristici. Nonostante gli enormi progressi della psichiatria biologica e della biochimica dei sistemi cerebrali (progressi ai quali dobbiamo l'acquisizione di farmaci assai efficaci in molti disturbi psicotici) manca una compiuta spiegazione delle psicosi in termini di alterazione del funzionamento cerebrale. Una spiegazione esaustiva per diversi psichiatri non potrà mai darsi, perché quello che indichiamo come psicosi, anche se ha per correlato (come del resto ogni attività mentale) processi biochimici cerebrali (nel caso della psicosi distorti qualitativamente o quantitativamente), è un assieme sindromico di fenomeni che non discendono solo dalla probabile alterazione somatica, ma dipendono dai procedimenti di elaborazione attiva del soggetto, dal suo stile di personalità, dalla sua formazione nello sviluppo, dall'ambiente. Con una celebre immagine, K. Jaspers (1913) paragonava le esplorazioni del mondo mentale psicotico condotte sul piano somatico e quelle condotte sul piano psicologico all'esplorazione di un vasto continente che sia compiuta da ricercatori approdati su due sponde diverse: ogni esplorazione è in sé perfettamente valida, ma le due serie di risultati non s'incontreranno probabilmente mai del tutto, perché troppo ampio è lo spazio di territorio che le separa. Oggi si tende ad ammettere un'origine multifattoriale dei disturbi psicotici, ove accanto a fattori somatici (taluni anche ereditari) sono determinanti fattori psicologici legati sia a pregressi contesti e dinamiche di sviluppo infantile, sia a situazioni attuali. Secondo la psicopatologia clinica, tuttavia, andrebbe distinto ciò che ha un valore solo patoplastico, modellante i sintomi, da ciò che ha un valore anche causale-patogenetico. Per la psichiatria tradizionale tali fattori causali sono di origine organica, anche se largamente ignoti. Ciò è stato asserito non come preconcetto ideologico, ma considerando che nella psicosi si attuano forme di percepire, sentire e pensare (modelli di funzionamento mentale) che non solo non hanno riscontro nella vita psichica normale, ma non mostrerebbero transizioni rispetto a essa. Questa linea di considerazioni è stata sviluppata dalla psicopatologia mutuando da correnti di pensiero filosofico la distinzione essenziale (e oggi talora criticata) fra 'forma' dell'attività mentale e suoi 'contenuti', nella convinzione che solo l'alterazione della forma può avere un valore fondante per il concetto di psicosi. Così è stato precisato che conoscendo a fondo la storia di vita e la personalità di uno psicotico ci si può rendere conto del perché egli, per es., adotti certi contenuti e temi nel delirio, del perché viva come sue persecutrici queste o invece quelle altre persone ecc., ma non ci si può rendere conto plausibilmente della forma di pensiero che connota il delirio, per cui la patologia sta essenzialmente nei modi di pensare: più nei modelli di mente attraverso i quali lo psicotico struttura i convincimenti deliranti che nel contenuto di essi.

Nel modo di strutturarsi del delirio è stata classicamente descritta la 'percezione delirante' (Schneider 1950), espressione con cui s'intende una percezione in sé normale alla quale viene dal delirante attribuito un significato particolare e personale, senza un motivo razionale o emotivo comprensibile. Ogni percezione, anche la più banale, può essere sentita nella psicosi come carica di significati e messaggi soggettivi. Nonostante analisi più recenti (Koehler 1979) tendano a dimostrare che esiste una continuità o almeno una contiguità di esperienze interne, che vanno da un estremo altamente patologico, quale appunto la percezione delirante, a un polo che sfuma verso le normali forme di conoscenza, il delirio, in quanto definito da particolari modi dell'esperire e non dalla falsità dei suoi contenuti, continua a essere un esempio delle modificazioni formali dell'attività mentale che caratterizzano la psicosi. Egualmente esemplari sono quelle esperienze psicotiche, tanto lontane dal comune esperire da essere quasi indescrivibili, che si riferiscono a una sorta di alterazione dei 'confini dell'Io', della 'intimità dell'Io', e in cui la persona sente, e crede, che i suoi atti psichici, e in particolare i suoi pensieri, siano violati o artefatti e manipolati dall'esterno (esperienze di influenzamento). La mancata individuazione di esplicite cause somatiche della psicosi, oltre all'interesse (anche terapeutico) per la dimensione più propriamente umana dei disturbi psicotici, è stata determinante per gli studi psicopatologici sul tema. La psicopatologia è infatti una scienza rivolta all'analisi e allo studio delle 'esperienze interne' delle persone disturbate, più che al loro comportamento o alle ipotetiche cause; è, cioè, una ricerca fenomenologica che indaga le caratteristiche connotative e gli aspetti strutturanti di che cosa e in che modo una persona pensa, sente, vive internamente, esperisce. Sono la conoscenza e la cultura psicopatologiche in definitiva a permettere una delimitazione del concetto di psicosi.

In sintesi si sono contrapposte da oltre un secolo due tesi: l'una che ritiene scientificamente fondato distinguere nell'ambito dei disturbi psichici maggiori malattie diverse (schizofrenia, o il suo storico precursore che era la demenza precoce, disturbi dell'umore melanconici o maniacali, stati deliranti transitori ecc.); l'altra che ritiene invece che manchino dati sufficienti per un'effettiva distinzione nell'ambito psicotico di malattie diverse, intese come differenti enti di natura, e che quindi le varie sindromi delineabili in base all'osservazione clinica sono solo aspetti evolutivi possibili di un unico disturbo mentale. Per Jaspers, nelle psicosi il caso particolare sarebbe classificabile soltanto secondo una tipologia, in base alla quale potremmo dire quanto il singolo paziente si avvicina o si discosta, per es., da quella che consideriamo la situazione tipica, più astratta che reale, del paziente schizofrenico; non si potrebbe invece fare una diagnosi di schizofrenia come se quest'ultima fosse una malattia definita in natura.

Mancando una sufficiente base scientifica circa le alterazioni somatiche che distingua le psicosi in malattie differenziate quali taxa naturali, gli altri criteri adottabili (decorso, esiti ecc.), se pur statisticamente importanti, non assumono un valore definitivo ed emerge la convenzionalità della separazione dei disturbi psicotici in malattie diverse. Tale convenzionalità, pur necessaria, si basa prevalentemente sul consenso degli psichiatri ed è evidenziata non solo dal variare dei limiti attribuiti alle singole psicosi a seconda delle convenzioni adottate, ma anche da diversi fatti clinici, quali: 1) l'aspecificità dei singoli sintomi (delirio, depressione, eccitamento ecc.), che possono funzionare quale separazione fra psicosi diverse solo se classificati in rapporto a un qualche arbitrario principio gerarchico (come quello celebre di Jaspers, secondo cui alcuni sintomi contano più di altri nella diagnosi psichiatrica); 2) l'aleatorietà, per definire malattie psicotiche differenziate, dei criteri di decorso ed esiti, assai multiformi all'interno di una stessa sindrome; 3) la non rara osservazione di commistioni fra quadri sintomatologici giudicati invece appartenere a psicosi diverse (i cosiddetti casi di mezzo). Per tutti questi motivi si va affermando l'idea di un continuum psicotico nel quale i poli estremi sono rappresentati, da un lato, dai disturbi schizofrenici e, dall'altro, dai disturbi dell'umore (melanconia e mania), con al centro i casi intermedi (disturbi schizoaffettivi) e senza nette distinzioni categoriali degli uni dagli altri. La bipartizione classica dei disturbi psicotici, invece, lasciando da parte più dettagliate convenzioni nosografiche, è quella fra campo dei disturbi dell'umore (melanconia e mania) e campo dei disturbi schizofrenici. I primi sono caratterizzati, oltre che dalla priorità dei sintomi a carico dell'umore, dalla tendenza alla episodicità e ciclicità; i secondi dalla priorità dei disturbi del pensiero (dissociazione, frammentazione, bizzarria ecc.), dai deliri e dalle allucinazioni e dal potenziale evolutivo verso la cronicità. Tuttavia il decorso dei disturbi psicotici schizofrenici può essere tutt'altro che cronico e continuo, fino a uno stato di deterioramento terminale, e lo stesso asserito 'difetto' terminale (Defekt) può essere una sorta di artefatto legato a innumerevoli condizioni, non ultime quelle connesse al tipo di contesto sociale dell'assistenza (Ballerini-Rossi Monti 1983). Si è pertanto prospettata l'ipotesi che in realtà i disturbi psicotici schizofrenici possano essere assai più episodici di quanto non si pensasse un tempo, e che la condizione di cronicità riguardi non tanto i sintomi quanto la vulnerabilità a essi.

Vulnerabilità schizofrenica

Il concetto di vulnerabilità schizofrenica si riferisce a caratteristiche del funzionamento mentale della persona, che precedono anche di molti anni l'eventuale attuarsi di disturbi schizofrenici del pensiero e di disturbi deliranti-allucinatori, e persistono dopo l'eventuale scomparsa di questi. L'indagine è stata condotta su piani diversi, ma uno degli approcci più consistenti è quello che, ricorrendo ancora una volta allo strumento della psicopatologia fenomenologica, ha precisato e valutato con apposite scale quali esperienze interne indichino lo stato e il livello di vulnerabilità del soggetto alla psicosi, definendo i cosiddetti sintomi base (Huber 1983). Fino a un certo grado tali esperienze non sono affatto patologiche, ma sono stati sottolineati i possibili passaggi o 'sequenze di transizione' fra queste e i sintomi psicotici. Da tale corrente di studi il concetto di psicosi viene ricondotto a una crisi peggiorativa di una disfunzione precedente, e molti sintomi psicotici a un tentativo personale di fronteggiamento (coping) o di compenso delle esperienze disturbanti anche attraverso un'attiva, difensiva, attribuzione di senso a esse. D'altronde la condizione di vulnerabilità è stata vista dal punto di vista della fenomenologia antropologica come correlata con una perdita o evanescenza dell'evidenza naturale (Blankenburg 1971) nella quale tutti viviamo normalmente, circa i significati ovvi di sé e del mondo, una sorta di debolezza della 'fiducia di base' (Erikson 1959). Queste linee di studio sono correlate con un'ulteriore dicotomia nel campo delle psicosi: quella tra fenomeni primari e secondari, dove questi ultimi sarebbero derivati dai primi come sviluppo, difesa, reazione della persona. In genere, sotto il profilo teoretico i fenomeni primari sono considerati, nella psicosi schizofrenica, come mancanza e perdita dell'associazione ideativa (Bleuler 1911) o del contatto vitale con la realtà (Minkowski 1953) che porta la persona a vivere in un mondo autistico; nella psicosi melanconica, come uno sconvolgimento della struttura del tempo interiore, con abnorme prevalere del passato.

Il contributo della psicoanalisi

La psicoanalisi ha a lungo incentrato il proprio interesse sulle condizioni nevrotiche più accessibili all'indagine e alla terapia psicoanalitiche, ma ha anche ricercato aspetti dinamici e meccanismi psichici della psicosi. Secondo J. Laplanche e J.B. Pontalis (1967), la teoria psicoanalitica individua la psicosi "fondamentalmente in una perturbazione primaria della relazione libidica con la realtà [...] e considera la maggior parte dei sintomi manifesti (costruzione delirante in particolare) come tentativi secondari di ripristino del legame oggettuale" (trad. it., p. 440), quel legame cioè con il mondo e le persone, quell'investimento affettivo che sarebbe nelle psicosi stravolto da un prevalere dell'investimento verso il Sé (narcisismo: la psicosi come equivalente di una 'nevrosi narcisistica'). Tuttavia si deve considerare il lungo percorso di pensiero compiuto dallo stesso Freud e soprattutto dalla psicoanalisi postfreudiana nei riguardi del concetto di psicosi. Il problema si è incentrato non semplicemente sull'opposizione fra investimento affettivo verso gli altri e investimento verso l'Io, ma sulle considerazioni circa una qualità e una linea di sviluppo indipendente del narcisismo rispetto all'investimento libidico degli oggetti e delle possibilità di patologica regressione, nell'ambito dello stesso narcisismo, da forme normali a forme psicotiche. Inoltre fin dai contributi di Freud che, in una certa fase del suo pensiero, definiscono la psicosi in opposizione alle nevrosi come una rottura tra l'Io e la realtà che lascia l'Io sotto il dominio dell'Es, vengono individuati processi psichici tipici della psicosi (proiezione, preclusione e diniego della realtà).

Un fondamentale contributo al pensiero psicoanalitico sulle psicosi è stato dato da M. Klein, il cui lavoro con i bambini portò a individuare il tipo di rapporto non verbale e presimbolico che lo psicotico stabilirebbe con gli oggetti, la particolarità - ma non l'assenza - nella psicosi del legame di transfert, la violenza dei meccanismi di difesa (scissione e diniego della realtà psichica, identificazione proiettiva), la presenza ubiquitaria negli stadi molto precoci dello sviluppo infantile di stadi simil-psicotici che rappresenterebbero i punti di fissazione corrispondenti alle eventuali psicosi. Fra i successivi contributi clinici (quando si cominciò a sperimentare la terapia psicoanalitica con gli psicotici adulti) e teoretici, spicca quello di W. Bion (1967), che precisò le forme della 'identificazione proiettiva' (parti del Sé fantasmaticamente proiettate nell'altro e poi reintroiettate) quale meccanismo primordiale di comunicazione, la funzione di 'contenimento' di questi meccanismi che la madre esercita verso il lattante e l'analista verso lo psicotico, e descrisse una teoria della formazione del pensiero e delle funzioni che lo caratterizzano quale base per descrivere e trattare il processo psicotico. Bion sembra considerare la psicosi (termine per lui largamente sovrapponibile a quello di schizofrenia) come "una grave conseguenza della identificazione proiettiva e della scissione dell'Io e degli oggetti in una situazione in cui gli attacchi, sotto l'influsso di un eccesso di impulsi distruttivi (forse connessi a gelosia e invidia), producono una frammentazione della personalità, portando così alla distruzione la capacità di pensiero verbale" (Meltzer 1978, trad. it., p. 34).

Nell'ambito dei numerosi filoni del pensiero psicoanalitico sulle psicosi coesistono modelli teoretici che considerano la differenza tra psicosi e nevrosi come essenzialmente quantitativa, di grado, non di genere, poiché ritengono la prima dovuta a una più profonda regressione e a una maggior violenza dei conflitti, mentre altri la considerano qualitativamente diversa, basata su fattori (anche ereditari) concernenti un difettoso funzionamento del Sé, e con dimensioni ampiamente preconflittuali, antecedenti nello sviluppo ai conflitti che connotano le nevrosi. Si confrontano cioè le opposte tesi del conflitto intrapsichico e del deficit psichico, anche se è sembrata possibile una loro riconciliazione. In parallelo alle varie ricerche psicoanalitiche si sono sviluppati, sia pure non diffusamente, alcuni modelli di approccio psicoterapico alle psicosi (Benedetti 1997) i quali contemplano una modificazione della tecnica psicoanalitica classica, e altri che si rifanno invece integralmente a essa. Tuttavia, a prescindere dalle differenti proposte circa la teoria della tecnica e la tecnica nella terapia psicoanalitica delle psicosi, e al di là degli stessi risultati terapeutici, il pensiero psicoanalitico ha decisamente contribuito a modificare l'atteggiamento mentale, la considerazione nonché il modo di porsi di molti psichiatri nei confronti della persona psicotica.

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