Pubblicita e grafica

Enciclopedia del Novecento (1980)

Pubblicita e grafica

Cesare De Seta

di Cesare De Seta

Pubblicità e grafica

sommario: 1. Introduzione. 2. Le origini della pubblicità e la sua fortuna nell'Ottocento. 3. L'uso del tempo libero. 4. Guerre, rivoluzioni e battaglie politiche e civili. 5. L'idea del progresso: dall'elettricità all'automobile. 6. Caratteri generali della pubblicità nel nostro secolo. □ Bibliografia.

1. Introduzione

Nel mondo contemporaneo si registrano tassi di alfabetizzazione mai raggiunti in passato, ma a questo fenomeno - segno statistico di una inequivocabile crescita civile in ogni continente - se ne accompagna un altro ancor più vistoso e antropologicamente di grandissimo rilievo: il dominio dell'immagine. L'uomo contemporaneo è tutto occhi, così come nell'età preindustriale - prima dell'avvento della produzione meccanica - è stato tutto mani. Questa netta prevalenza del visivo si manifesta in mille modi: dalla proliferazione ipertrofica di periodici esclusivamente o prevalentemente illustrati al cinema, dalla televisione al videotape.

È pur vero che la cronaca o la storia è sempre stata raccontata per immagini; da quando l'uomo ha cominciato a comunicare con la parola si è sempre servito anche di immagini, semplici o complesse. La colonna Traiana ne è un magnifico esempio, così come gli affreschi di Giotto, nella Basilica di Assisi, con le storie di San Francesco: testi visivi destinati a un pubblico analfabeta per illustrare le gesta di un imperatore o i miracoli di un santo, nonché mezzo di persuasione per sudditi e credenti.

Cionondimeno, bisogna pur dire che la storia della comunicazione visiva ha subito una vera e propria rivoluzione copernicana quando l'immagine è stata prodotta non più artigianalmente, cioè in pezzi unici o in pochissime repliche, ma è stata moltiplicata dapprima in centinaia, poi in migliaia, e infine in decine di milioni di esemplari. L'inizio di questa crescita esponenziale del messaggio visivo - M. Mc Luhan ha parlato felicemente della ‛galassia Gutenberg' - si può datare alla prima metà dell'Ottocento, quando per la prima volta la litografia - da scoperta sperimentale (1798, a opera di A. Senefelder, tipografo viennese) - divenne un mezzo di produzione a basso costo di immagini di buona qualità e a più colori. Già nel 1848 erano in commercio macchine capaci di produrre un alto numero di fogli all'ora. Intorno agli stessi anni, superate le prime difficoltà, W. H. F. Talbot, sulla scia di Daguerre, mette a punto il suo sistema di fotografia stampata su carta. Da queste due tecniche di produzione meccanica dell'immagine si può dire che nasca la pubblicità: mai come in questo caso l'invenzione della tecnica contiene già in sé l'uso prevalente a cui è destinata.

La pubblicità moderna ha almeno un fondamentale elemento di diversità rispetto al passato. Le celebri scritte di Pompei che reclamizzano la valentia di un gladiatore nell'arena erano destinate a quei cives che avevano occasione, individualmente e fisicamente, di passare in quel dato giorno in quel certo luogo della città. La pubblicità che noi conosciamo, al contrario, domina la nostra vita, ci raggiunge nell'intimità della nostra casa, c'insegue per le vie e sulle autostrade. La riproducibilità tecnica delle immagini è stata dunque la vera pietra filosofale della civiltà dei consumi. Non siamo noi a cercarla, è essa che ci insegue. È superfluo aggiungere che la nascita della pubblicità coincide con la produzione di beni di consumo di massa: insieme causa ed effetto di un sistema che ha permesso all'uomo contemporaneo di recepire e di possedere - sino a esserne sommerso - una tale quantità di messaggi e di oggetti come mai era accaduto nella storia. Sociologi, semiologi, storici, psicologi e studiosi di comunicazioni di massa si sono industriati nel corso del nostro secolo, secondo ottiche profondamente diverse e con motivazioni contrastanti, di indagare e analizzare il sistema della pubblicità.

Semplificando per necessità di sintesi, ma rimanendo sostanzialmente aderenti alla realtà dei fatti, distingueremo da un lato i critici radicali della società di massa - dunque i severi censori della pubblicità - e dall'altro i compiacenti fautori del sistema complesso produzione-pubblicità-produzione. Nel primo gruppo fanno spicco gli esponenti della Scuola di Francoforte (Th. W. Adorno e M. Horkheimer), le sue diramazioni statunitensi (H. Marcuse), Ortega y Gasset e T. Veblen; il secondo gruppo, assai più numeroso, comprende i ‛persuasori occulti' dagli anni venti ai nostri giorni. Le propensioni ideologiche sono antagonistiche: nei primi un certo radicalismo moralistico, nei secondi una totale accettazione del modello levigatissimo della società dei consumi. Da parte nostra, dedicheremo l'attenzione non all'universo ideologico soggiacente alla pubblicità - foresta intricatissima e lussureggiante, difficilmente rischiarabile - ma alle sue manifestazioni concrete: cioè ai messaggi visivi prodotti in oltre un secolo e alle loro relazioni con le tecniche odierne di produzione delle immagini. Nè ci dilungheremo sul rapporto tra arte e pubblicità, trattandosi di un terreno sul quale i consacrati steccati delle varie estetiche appaiono desueti. In primo luogo, la pubblicità ha una natura doppia: una verbale e una visiva; in secondo luogo, il prodotto nasce da una precisa e ben chiara motivazione: propagandare un qualcosa per venderlo. Delle varie facce del prodotto pubblicitario intendiamo esaminare quella più appariscente, quella visiva, lasciando che altri - sociologi e semiologi - ci svelino gli altri significati di questi invadenti e onnipresenti messaggi.

2. Le origini della pubblicità e la sua fortuna nell'Ottocento

Se si prescinde da alcune affiches della Rivoluzione francese, la preistoria del fenomeno pubblicitario - alla cui definizione concorrono ragioni mercantili, valutazioni culturali, scelte di gusto e inclinazioni ideologiche più o meno manifeste - è rinvenibile negli annunci economici che appaiono già nelle gazzette settecentesche, sebbene il loro posto nell'economia di questi fogli sia marginale e gli esiti commerciali del tutto irrilevanti. Nella seconda decade dell'Ottocento, in Francia prima, in Inghilterra poi, appaiono i primi annunci pubblicitari sotto forma di manifesto; tra i pezzi più rari, un manifesto per tabacco di pipa, (Débit de tabac, 1820 circa): emesso dal monopolio di Stato, mostra come, in questo caso, sia l'iniziativa pubblica a servirsi del nuovo mezzo per incrementare l'uso del tabacco tra i francesi della classe media; la qualità del manifesto - policromo - è di buon livello tecnico. Questo manifesto rimane nell'ambito della pubblicità commerciale in senso proprio, ma, avviato il meccanismo, vedremo presto che il manifesto o la locandina vengono adottati per propagandare spettacoli, pubbliche manifestazioni o veri e propri prodotti della nascente industria culturale. Il nuovo mezzo imbocca cento direzioni diverse, e non c'è prodotto che non abbia la sua pubblicità ad hoc. Le tecniche sono ancora assai primitive: tutto l'interesse è rivolto al soggetto della réclame, mentre al destinatario non si presta che scarsa attenzione. Il foglio stampato prende il posto del venditore ambulante sulla piazza del mercato o del banditore: siamo ancora lontani dalle sofisticate tecniche di manipolazione, che guardano soprattutto all'utente. A Petites misères de la vie conjugale di Honoré de Balzac (1847) è dedicato un manifesto, nel quale testo e immagini hanno lo stesso peso visivo. Che il romanzo fosse destinato a un pubblico popolare potremmo capirlo subito anche se non sapessimo nulla di Balzac: due grandi scritte nere dominano l'affiche, Vie conjugale e 300 dessins par Bertall; la prima esprime una condizione comune a milioni di francesi, la seconda annuncia che il volume è illustrato con trecento disegni. Dunque, oltre a leggersi, il libro si guarda, ed è destinato pertanto a un pubblico vastissimo.

Al centro, sta la gustosa scena di un povero cristo schiacciato dal peso della moglie con ventaglio e cane; tra le braccia ha un neonato, mentre un bambino gli si stringe a una gamba: un bastone lo sorregge a stento. Daumier non sarebbe stato più eloquente e graffiante; ma le caricature di Daumier si rivolgono a un pubblico assai più ristretto, mentre questa réclame si rivolge al pubblico popolare dei feuilletons. Prima ancora che i sociologi s'industriassero di gettar luce sull'intreccio di gruppi e classi sociali, la pubblicità, istintivamente, adottava messaggi diversi a seconda dei destinatari. Per convincere un intellettuale del valore del libro di Balzac, la vignetta era poco indicata, ma l'editore, manifestamente, s'interessava a un più vasto pubblico, e su quello calibrava il messaggio. La pubblicità al servizio dell'industria culturale si dimostrerà un filone fertilissimo che prospera con i romanzi d'appendice. Sono però i grandi spettacoli ottocenteschi - quelli che hanno bisogno di un pubblico dell'ordine delle centinaia di migliaia di spettatori - che fanno la definitiva fortuna della pubblicità.

Al centro della pubblicità stanno le grandi esposizioni - grande cassa di risonanza di una società produttrice di merci - e spettacoli come il circo, l'opera lirica e il balletto, che dominano il tempo libero del borghese nel momento della sua massima ascesa. J. Chéret nel 1870 disegna un manifesto che propaganda nuovi prodotti in ferro per svariati usi: dalle serre ai ponti, dalle panchine alle sedie di giardino.

I visitatori delle grandi esposizioni, che si succedono a ritmo regolare a partire da quella di Londra nel 1851, sono sollecitati all'acquisto con manifesti, cataloghi, opuscoli, dépliants, in cui vengono propagandati beni di ogni genere: dagli oggetti di arredo alle tappezzerie, dalle macchine industriali ai giochi, dalle novità dell'ultima moda alle nuove tecniche per l'edilizia. In questo universo di merci, le grandi esposizioni sono la meta dei più fortunati, quelli che hanno i mezzi per il viaggio e il soggiorno in un paese straniero o nella capitale. Londra, Parigi, Vienna, Pietroburgo, Torino sono le sedi europee di questi colossali mercati dell'utile e dell'inutile, del necessario e del superfluo. Iniziative analoghe si inagurano negli Stati Uniti. Ma il sistema merceologico dirama poi tentacoli in ogni città media: i grandi magazzini. Sono questi empori che adottano in modo sistematico la pubblicità non per un singolo prodotto, ma per propagandare una marca, un'etichetta, un nome che sia garanzia di qualità e quindi di buoni acquisti. Le metropoli europee si popolano di mercati a più piani, dove si può comprare di tutto: dal lucido da scarpe alla mostarda, dagli indumenti agli arredi domestici. La pubblicità affida tutte le sue possibilità di comunicazione alle forme grafiche, mentre i testi perdono sempre più importanza: fenomeno che - già nella seconda metà dell'Ottocento - segna il declino degli annunci pubblicitari tradizionali diffusi dalla stampa, mentre nelle nuove forme grafiche divengono un mezzo di finanziamento sempre più cospicuo. La stampa indipendente diffida di questo mezzo di sostentamento, come il gentleman inglese che si rifiuta di aver a che fare con la pubblicità; allo stesso modo oggi un attore di grido diffida dei caroselli. È però ben strano che questa diffidenza verso la pubblicità prosperi in una società industriale, che per altri versi ne sollecita il trionfo. Diciamo che rifiuto, o diffidenza, e adesione sono le facce di uno stesso atteggiamento dinanzi a questa protagonista del nostro tempo.

Già nell'Ottocento - forse con la Comune di Parigi - fa capolino il manifesto politico in senso proprio; non che mancassero dei precedenti (basti pensare a certe affiches di club giacobini), ma è con la Comune che il mezzo viene adottato per animare i resistenti e incoraggiare i timidi o i perplessi. Su questo terreno sappiamo quanto importante sarà l'uso dei manifesti in momenti di profondi rivolgimenti sociali. Basti pensare alla serie, per così dire didattica, di Maiakovskij e Čerěmnych negli anni ruggenti della Rivoluzione sovietica. Ma ogni grande evento politico - paci, guerre, rivoluzioni, elezioni ecc. - avrà la sua storia narrata nei manifesti.

Nell'Ottocento e fino alla prima guerra mondiale si può dire che la pubblicità è ancora e solo réclame: si rivolge a un pubblico la cui composizione sociale rimane indefinita; l'attenzione dell'inserzionista è quindi interamente, o prevalentemente, rivolta al prodotto. Un'eccezione, come abbiamo già segnalato, è costituita dall'industria culturale, che per sua natura deve già tentare una selezione del pubblico, e sia pure una selezione basata su criteri di semplice buon senso. D'altra parte, questa situazione generale del messaggio pubblicitario si spiega se si pensa che le scienze sociali hanno il loro decollo verso la fine del secolo e i loro risultati saranno recepiti sul terreno dell'applicazione pratica soltanto in seguito: sarebbe utile seguire quest'evoluzione parallela - ma diacronicamente sfalsata - tra ricerca sui gruppi sociali, sul comportamento, sui consumi, e sfruttamento dei loro risultati nella pubblicità. Sebbene in anni recenti, soprattutto nella cultura sociologica francese e nordamericana, vi siano stati tentativi in questa direzione, bisogna convenire che siamo ancora lontani da un quadro sistematico che renda giustizia alla circolarità del fenomeno, che investe ambiti bensì contigui, ma con struttura e obiettivi diversi. Comunque, solo negli anni del New Deal roosveltiano si hanno le prime ricerche quantitative e motivazionali sui destinatari del messaggio pubblicitario; siamo ormai ben lontani degli anni della belle époque, quando H. Toulouse-Lautrec e J. Chéret affidano i loro ammiccanti messaggi alle straordinarie qualità del loro pennello.

In riferimento alla stagione a cavallo del secolo sarebbe facile dilungarsi sull'analisi estetica di queste immagini; conviene invece concentrare l'attenzione sul contributo specifico fornito dal manifesto, che in taluni casi oltrepassa di gran lunga il terreno esplorato dall'impressionismo per adottare un criterio compositivo del tutto originale. Lautrec nel Divan Japonais (1893) e Chéret nel Carnaval 1894 (1893) spiazzano le figure, situandole in un contesto decentrato rispetto ai modelli canonici della composizione e del ritratto accademico, modelli ai quali anche gli impressionisti s'erano in larga misura attenuti (se si esclude l'eccezione di Degas, che nella Femme aux chrysanthèmes, 1865, o nel Bouderie, 1873-1875, spiazza le immagini al modo delle prime istantanee fotografiche). Questa tipica tecnica della fotografia, poi recepita dalla pittura, consente di adottare insoliti angoli visuali: essa è utilizzata con particolare audacia da Lautrec e Chéret, i quali inaugurano una tendenza stilistica e compositiva che sarà largamente recepita nell'art nouveau, nel liberty e nello Jugendstil.

Ma per tracciare un profilo della pubblicità sarebbe poco conveniente adottare un criterio che ne facesse un capitolo ‛minore' o un paragrafo della più generale storia delle arti. In primo luogo, infatti, un tal metodo ci condurrebbe a isolare, nel più ampio settore della produzione artistica, i prodotti forniti di qualità estetica; in secondo luogo, esso cancellerebbe il carattere specifico del messaggio pubblicitario, la cui qualità estetica, sebbene talora ragguardevole, rimane pur sempre subordinata al fine precipuo che gli è proprio. Quale metodo dunque adottare per tentare un quadro che espliciti le ambiguità insite nel carattere di questa produzione? Proprio perché consideriamo la pubblicità impregnata dello spirito del nostro tempo ci pare più utile adottare un criterio di classificazione per così dire ‛tematico' e diacronico. Optiamo quindi per un'analisi che, indifferente alla cronologia e ai caratteri stilistici, privilegi piuttosto l'argomento o il tema della pubblicità. Naturalmente questa regola avrà le sue eccezioni; per intendersi, anche oggi il teatro è un tema pubblicitario, ma il teatro nella nostra società ha un posto ben più modesto di quello che ebbe nella vita dell'Ottocento. Al contrario, nella società contemporanea la pubblicità dei prodotti di bellezza e delle automobili ha un ruolo enorme, certo non paragonabile a quello che aveva nell'Ottocento o nei primi decenni del nostro secolo.

La nostra è dunque una scelta tematica che ci consente di tracciare anche, sia pure indirettamente, un quadro degli interessi della borghesia, delle sue propensioni culturali e ideologiche, delle sue scelte di gusto, dell'uso del tempo libero, ecc.

3. L'uso del tempo libero

Lo spettacolo d'evasione è un settore privilegiato del manifesto pubblicitario: Chéret è forse l'inventore di questo genere. Figlio di un tipografo, fu - come quasi ogni artista dell'Ottocento francese - allievo dell'Académie des Beaux Arts. Ma i suoi interessi si volsero subito alla nuova tecnica litografica, di cui s'impadronì ben presto: Degas parlerà di lui come del ‟Watteau des rues". La sua prima affiche - Orpheus aux enfers (1858) - è a tre colori; in seguito l'evolversi delle tecniche cromolitografiche gli consentirà di ottenere, con quattro-cinque passaggi, sfumature, ricchezza di tinte e gradualità tonali che prima avrebbero richiesto da dieci a quindici passaggi. Nascono così grandi manifesti murali per le Folies Bergères (1893), la cui protagonista è la famosa ballerina americana Loie Fuller, applaudita dai borghesi facoltosi di tutta l'Europa. Del 1893 è il Carnaval 1894 già segnalato; Chéret opera anche in altri settori pubblicitari ma è soprattutto uno specialista di spettacoli.

Toulouse-Lautrec nel 1891 dipinge i manifesti per l'altro grande tempio del borghese in libera uscita: il Moulin Rouge; ma sono decine gli artisti che propagandano gli spettacoli d'evasione come l'opera lirica, il teatro e il balletto. A Parigi e a Londra questo genere di spettacoli è al centro dell'attenzione del pubblico. Per l'Inghilterra basti ricordare il nome di D. Hardy: Skipped by the light of the moon - titolo di uno spettacolo musicale dei primi del Novecento - è certamente ricalcato sui modelli francesi, sebbene con una misura postvittoriana certo ignota agli scapigliati French Cancan. Anche oggi vi sono i manifesti delle Folies Bergères e del Moulin Rouge, ma non fanno costume né notizia: sono spettacoli tenuti in piedi per un pubblico senza troppe pretese, che si aspetta di trovare ancora a Parigi la belle époque.

Tra i passatempi del borghese dell'Ottocento un posto d'onore è tenuto dal circo. È uno spettacolo di massa che interessa tutti gli strati sociali: la grande tenda del circo ospita numerosi ordini di posti, alla portata di tutte le tasche. Con i suoi animali, ballerine, giocolieri, trapezisti e clowns, il circo è uno spettacolo che soddisfa il gusto, tipicamente ottocentesco, dell'esotico (belve feroci, elefanti), della danza, del portentoso (grandi trapezisti) e del comico (celebri clowns). Attraverso i manifesti possiamo seguire l'evoluzione del circo, la cui organizzazione acquista a poco a poco un carattere per così dire ‛industriale'; sotto il profilo figurativo è un itinerario che dal cartellone del Cirque d'hiver (1871), con le due ballerine viste come farfalle, arriva fino allo splendido manifesto polacco (1967), che riduce la ballerina in equilibrio sulla fatidica corda tesa sull'arena a un segno grafico, a una silhouette di ineccepibile eleganza. Nei manifesti rivivono anche le vicende coloniali: come in quello, con i suoi cammelli e uomini di colore, del circo di Londra del 1879; ma rivive soprattutto la grande epopea della conquista del West, che Buffalo Bill - il più celebre eroe di quella stagione di sterminio degli Indiani d'America - esporta in Europa. Con il suo pizzo e il suo cavallo bianco, con i suoi indiani a cavallo, Buffalo Bill campeggia in innumerevoli manifesti degli anni novanta, quando l'epopea ormai è divenuta consumo di massa per le platee europee, a cui quelle avventure giungono avvolte dalla leggenda. La caccia al bisonte, le piste del West, la corsa all'oro diverranno poi temi prediletti della cinematografia hollywoodiana. Celebre fu anche il grande circo Barnum, le cui grandi masse in costume preannunciavano i drammoni dedicati a Cleopatra e a Spartaco dalla nascente industria cinematografica; siamo nel 1912: il tono del manifesto è melenso, narrativo, con tutti questi quadretti e il ritratto dei soci fondatori (appunto Barnum e Bailey). Nel secondo dopoguerra anche il gusto cartellonistico si aggiorna: prodotti di qualità come quello di C. Piatti ricalcano i famosi schizzi della tauromachia picassiana, ma con il tono scanzonato e allegro richiesto dal tema. Soprattutto nell'ultimo trentennio la fortuna del circo declina rapidamente: è ormai un'immagine del passato, anche se sono ancora numerosi i circhi che lavorano nelle piazze d'Italia e d'Europa (nei paesi dell'Est il circo continua a essere uno spettacolo molto popolare). In America altri spettacoli, quelli sul ghiaccio o quelli acquatici in piscina, soppiantano il vecchio circo. La nuova moda inizia nei favolosi anni trenta: ormai le belve e gli elefanti non sbalordiscono più nessune e i clowns fanno ridere solo i bambini.

Ancora nella prima metà del Novecento spettacoli molto seguiti sono quelli di maghi e illusionisti: vasti settori della società si rifugiano nella magia e nell'occultismo in un'epoca in cui la cultura è dominata dalle scienze positive. Il mondo dell'elettricità, dei trasporti veloci, del telegrafo, del telefono, della radio rimane tuttavia lo spazio per questa diffusissima moda. Prestigiatori come A. Herrmann (The great Herrmann, 1900) fanno la fortuna dei loro spettacoli; il mago Houdini si fa una reputazione internazionale; Carter taglia arti e teste con un'orripilante sega; altri fanno planare sulle sbigottite platee lattescenti ectoplasmi. Con il suo senso del misterioso e dell'ignoto, con le sue sfide alla legge di gravità e alla morte questo genere di spettacolo prelude da un lato all'universo freudiano, dall'altro soddisfa quella sete di magico che affiorerà con tanta virulenza per esempio nel film di R. Polansky Rosemary's baby e avrà il suo culmine tragico nelle sette californiane che trasformano il culto del magico e dell'occulto in pratiche criminose. Una sorta di baratro che si apre nel cuore della società post-tecnologica, come testimonia, in tempi recentissimi, l'agghiacciante suicidio di massa dei seguaci d'una setta americana.

Ma il mondo dello spettacolo offre anche colori più allegri, come può vedersi nel manifesto per il mago Collins (1915), di inequivocabile gusto futurista (Balla e Depero soprattutto). Anche i maghi comunque si aggiornano, e nei loro manifesti si riflette ovviamente l'evoluzione del gusto; per il congresso dei maghi tedeschi del 1967, il simbolo graficamente efficace è costituito dal fatidico cappello del prestigiatore.

Il posto tenuto dal café chantant, dal circo e dai maghi è rimasto nel nostro tempo pressoché vuoto: nel music hall di marca americana non c'è posto per lo spettatore. Le grandi riviste degli anni trenta fino a Hair nelle edizioni newyorkese e londinese lasciano ben poco spazio allo spettatore, che è solo un osservatore che paga un biglietto ma non fa certo parte dello spettacolo. I manifesti di Hair - soprattutto quelli della trasposizione cinematografica - hanno invaso il mondo: la loro fortuna è appunto affidata al successo del film. C'è stato dunque un processo di radicale trasformazione del mezzo, che ha avuto il suo momento più felice in Jesus Christ superstar, altro celebre music hall di cui si è venduto tutto: musica, testo (assai poco), protagonisti ecc. Questo ci conduce a un genere di pubblicità di enorme portata per i risultati conseguiti sia sul piano della qualità che su quello del consumo: il disco, che negli anni sessanta conosce la sua tellurica esplosione con il caso dei Beatles. Ogni loro spettacolo, ogni nuovo microsolco è preceduto e seguito da una campagna pubblicitaria che valica i continenti e non si arresta neppure dinanzi alla cortina di ferro. La musica non conosce barriere o frontiere. Attorno ai Beatles o, prima di loro, a Elvis Presley, nasce una vera e propria industria della pubblicità: da quella dei dischi e degli spettacoli in senso stretto, a quella delle magliette e dei bluejeans, dai posters alle biografie. Che poi sulle magliette compaia - sul finire degli anni sessanta - la testa di Beethoven è un segno dei tempi che sarebbe ingenuo trascurare.

Il fenomeno della musica pop ha una sua controparte grafica precisa: le grandi esperienze della pop art inglese e americana, che vengono assorbite e sfruttate dal marketing che lancia i prodotti della musica pop. Hamilton, Andy Warhol, Blake, Rauschenberg, Jasper Johns che per primi si erano serviti della cultura di massa come materiale privilegiato della loro originale esperienza estetica, vengono ripagati della stessa moneta: i loro linguaggi sono massificati e utilizzati in milioni di sottoprodotti visivi nella rigogliosa foresta pubblicitaria degli anni sessanta. Nel corso di questi anni vengono inoltre scoperti lo Zen, le religioni e le melodie orientali, la cucina macrobiotica, i paradisi artificiali delle droghe leggere e pesanti. Quest'Oriente mistificato ricorda i paradisi perduti di Gauguin, i girasoli di van Gogh, le stampe giapponesi, che tanta fortuna ebbero nella seconda metà dell'Ottocento e tanta importanza nella pittura postimpressionista.

I ‛figli dei fiori' dell'America opulenta, i giovani della rivolta contro la guerra del Vietnam, inagurano un genere di pubblicità underground, presto sfruttato dalla società dei consumi. La pubblicità scopre per la prima volta il mercato degli adolescenti e dei giovani, che un'industria multinazionale si dedica con capillare attenzione, come mai prima era avvenuto, a soddisfare. È un evento sociologicamente rilevante, anche perché alle mode giovanili si accodano le mode degli adulti. Dell'irruzione - negli anni sessanta - della beat generation sulla scena sociale, la manifestazione più vistosa e colorita è costituita proprio dalla pubblicità e dai posters a essa dedicati.

4. Guerre, rivoluzioni e battaglie politiche e civili

La grande e generosa sfida di questa generazione è contro la guerra: Billions for Jobs Not War, dice un manifesto di H. Gellert del 1975; raggelante lo scheletro di zio Sam, che chiede I Want You for U.S. Army (1972); una mano rossa - opera degli studenti del Massachusetts College of Art del 1970 - ferma la politica degli armamenti. Alla guerra del Vietnam sono dedicati centinaia di manifesti, dei quali alcuni eccellenti: è il caso di M. Kaplan con il suo No More War (1970) o quello celeberrimo del fotografo R. L. Haeberle Q. And babies? A. And babies (1970). Rudolph Baranik con il suo Angry arts-Against War in Vietnam (1967) rielabora il celebre tema picassiano di Guernica, un dipinto che negli anni della guerra di Spagna divenne il simbolo della volontà di riscossa contro la barbarie nazifascista e la denuncia più alta, dopo Goya, degli orrori della guerra. Il manifesto pubblicitario ha il suo battesimo politico proprio in occasione della prima e della seconda guerra mondiale, sebbene non manchino illustri - ma occasionali - precedenti. L'Italia ha un posto di rilievo nella cartellonistica dedicata alla grande guerra; ma tutti i paesi belligeranti, dalla Germania guglielmina alla Francia, all'Inghilterra, agli Stati Uniti, hanno una loro massiccia produzione a sostegno delle loro armi. Ogni genere e stile vi sono rappresentati: si va dai manifesti di gusto art nouveau - Jugendstil - liberty a quelli di gusto espressionistico, realistico, costruttivistico o futuristeggiante. È però con la seconda guerra mondiale che si arriva a una vera e propria diffusione di massa di questo mezzo: ricordiamo per esempio K. Koeler e V. Ancona che in This is the enemy raffigurano un alto ufficiale nazista nel cui monocolo si vede una forca.

La propaganda antisemita ha naturalmente il suo posto. Con volto compunto un'ausiliaria bacia la bandiera (propaganda per l'arruolamento nella X Mas). Nel 1944 il regime in disfacimento stampa manifesti - assai mediocri - contro gli eserciti alleati. Quanto alla Germania nazista, fin dalle olimpiadi di Berlino del 1936 organizza con ineccepibile precisione una macchina propagandistica di rara efficacia. Già nel 1932 il soldato tedesco si rivolge all'osservatore: Und du?; nel 1943 le SS celebrano la conquista dell'Olanda con cieli azzurri in cui svettano aerei, cannoni ed elmi. I ritratti di Hitler campeggiano ovunque nelle adunate oceaniche e nelle vie delle città tedesche. Da parte alleata, in un manifesto americano del 1942 Churchill, simbolo della resistenza britannica, diviene un bulldog a difesa della bandiera. Nella produzione sovietica, i connotati realisti e popolari hanno sostituito la tradizione costruttivistica e cubofuturistica degli anni della rivoluzione. Contro il mercato nero, il governo francese dichiara: Crime contre la communauté (1943).

Le guerre di liberazione e rivoluzionarie in Africa e in Sudamerica forniscono l'occasione per una nuova ricca fioritura della cartellonistica politica. Il paese che meglio d'ogni altro ha espresso un profondo rinnovamento di gusto in questa materia è senza alcun dubbio Cuba. La rivoluzione cubana, e quella cinese, hanno prodotto una messe enorme di manifesti. A Cuba è evidentissima l'influenza della cultura figurativa americana: vi sono manifesti celebrativi non dissimili da quelli che propagandano i maggiori successi della musica pop; salvo che al posto di cantanti o batteristi ci sono i volti dei protagonisti della rivoluzione. È questa una prova tra le altre di quanto le scelte di gusto siano indifferenti alle inclinazioni ideologiche. Qualcosa d'analogo accadde nella stagione liberty in Italia, quando un medesimo stile accomunò i manifesti di moda, i manifesti per la guerra, quelli dell' ‟Avanti!" o addirittura le tessere del neonato partito comunista. Ciò sta a dimostrare che le immagini conservano connotati comuni anche quando i messaggi siano antagonistici tra loro. Nel mondo occidentale, un successo particolarissimo ebbero, negli anni sessanta, i manifesti del Che Guevara e di Mao; di quest'ultimo persino Andy Warhol - uno dei grandi protagonisti della stagione pop - ci ha lasciato un celebre ritratto nello stile di quello di Elizabeth Taylor o di altri divi americani.

Il Maggio francese del 1968 è la grande cassa di risonanza e il momento di massima fortuna del manifesto politico. Nelle immagini della Sorbona occupata è possibile leggere le generose velleità di una generazione, che uscirà malconcia dalla ‛contestazione' e dalle cui ceneri nasceranno gli inquietanti e drammatici fantasmi del terrorismo, dapprima sudamericano, poi tedesco e italiano. Se per una qualunque ragione libri e giornali, film e riprese televisive dovessero d'improvviso sparire, allo storico del futuro basterebbero quei manifesti per ricostruire uno tra i momenti più tesi, fecondi e drammatici del nostro tempo.

5. L'idea del progresso: dall'elettricità all'automobile

Nel secolo in cui trionfa la scienza e si afferma la cultura positivista non sorprende affatto che talune ‛magiche' novità - anzitutto la luce elettrica - siano al centro dell'attenzione pubblicitaria. In Germania prospera la grande industria elettrica AEG, che ebbe come presidente un personaggio di grande spicco, Walter Rathenau, e per la quale lavorò un grande architetto e designer come P. Behrens, autore di alcuni splendidi posters che hanno come tema la luce elettrica. Accanto al celebre caso tedesco, si può ricordare la più modesta casa italiana Lipizzi (1908), che affida i suoi manifesti a D. Cambellotti.

C. Phillips - un grande artista americano - propaganda l'uso della luce a carbone e i suoi vantaggi economici, quasi prevveggente ammonimento di più tardi sprechi energetici. Capitale è il ruolo che la luce elettrica assume in tutta la cartellonistica dei primi decenni del secolo: non è più la luce del sole a dominare nella pittura postimpressionista, ma la luce artificiale, come si può vedere nel calendario Lucifer (1904 c.) di V. Schufinsky, in bilico tra secessione viennese ed espressionismo, o in tanti manifesti italiani (Distillerie italiane di Mëtlicovitz, 1897 c.) o nella pubblicità del quotidiano l' ‟Ora" di Palermo (1897-1898 c.), in cui campeggia un Prometeo che non reca più il fuoco ma una lampada elettrica. La luce artificiale, d'altro canto, è un tema dominante nella cultura dei primi decenni del secolo: la poetica futurista inneggia alla nuova invenzione, che ha aperto illimitate possibilità alla ‟nuova sensibilità futurista".

L'altro mito del nuovo secolo è quello della velocità, del dinamismo, interpretato con preveggenza dal talento disordinato e geniale di F.T. Marinetti. Nella pubblicità appaiono le prime biciclette, poi le prime automobili, infine gli aerei. Bisogna però riconoscere che quasi mai il gusto di questi manifesti è aderente alla modernità dei nuovi mezzi di locomozione.

Per la propaganda della bicicletta si fa spesso ricorso a belle donne, presentate talvolta in goffe divise osé (è il caso di A. Villa, 1896 c.): è solo l'esordio dell'uso della donna-oggetto al servizio del mercato. Non c'è casa produttrice di biciclette, auto e relativi accessori che non invada il mercato pubblicitario: dalla Opel alla Fiat, dalla Talbot alla Ford. Questa pubblicità diviene sempre più imponente: se la bicicletta va scomparendo, l'automobile assume un ruolo di assoluta protagonista della vita contemporanea, e la sua pubblicità invade il mondo intero.

Per l'aereo, si passa dalle gare dei primi pionieri alla pubblicità delle grandi compagnie aeree dei nostri giorni: dai monoposti dei trasvolatori solitari al jumbo jet con trecento passeggeri dei nostri giorni, è una sequenza ininterrotta di immagini. Le prime risposte della pubblicità alle scoperte scientifiche, alle nuove frontiere della tecnologia, riflettono assai bene il ritardo culturale rispetto alla prodigiosa accelerazione delle scienze nel nostro secolo. Aerei, transatlantici, auto, telefono, radio, sono mezzi di comunicazione che trasformano la vita del nostro tempo, ma le immagini con cui vengono propagandati sono irrimediabilmente arcaiche: la luce è Prometeo; l'aereo è Mercurio; giovani nerboruti come prigioni michelangioleschi cavalcano le scheletriche strutture dei primi aerei; signore sovraccariche di pizzi e di trine e con cappelli a larghe tese inforcano con improbabile destrezza esili velocipedi. Negli anni trenta del secolo c'è una svolta nel costume; la moda s'adegua finalmente ai nuovi mezzi: l'auto, è ormai chiaro, non è più una carrozza trainata da cavalli a vapore, ma un mezzo che esige abiti più pratici. Nella pubblicità il trapasso è illustrato con una chiarezza e un'eloquenza esemplare. Dall'araldo con la scritta sul petto ‛Progresso' (si veda il manifesto di M. Dudovich per l'Esposizione di Lodi del 1901) si arriva alla più sofisticata pubblicità della grande industria elettronica dei nostri giorni (IBM, Olivetti, Rank). Ci sembra che gli attuali designers siano migliori interpreti di questo salto tecnologico di quanto non lo fossero gli artisti agli esordi del secolo; ma può anche darsi che la nostra valutazione sia viziata da un errore di prospettiva di cui oggi è difficile rendersi conto.

6. Caratteri generali della pubblicità nel nostro secolo

La società dei consumi di massa - nel vecchio continente - comincia a far capolino in Gran Bretagna negli anni trenta, che precedono la dissoluzione dell'impero e la seconda guerra mondiale. Questa autentica esplosione dei consumi di ogni genere, che aveva avuto il suo epicentro nell'America del New Deal roosveltiano, interesserà nel secondo dopoguerra tutti i paesi occidentali industrializzati.

In questi anni compaiono sulla scena pubblicitaria, accanto al tradizionale manifesto, la cui fortuna non tramonterà certo, altri mezzi di comunicazione visiva. Prima dell'avvento del cinema e della televisione come strumenti pubblici ari, un posto di assoluta preminenza è occupato dalle riviste illustrate e dai rotocalchi. ‟Life" è il primo periodico che ricorre a un'impostazione grafica di primissimo ordine e non solo per la pubblicità stricto sensu, inserita con dovizia nelle sue pagine, ma anche per le copertine, che divengono di per se stesse un veicolo pubblicitario della testata. Sul modello di ‟Life" sono nati in tutto il mondo occidentale periodici di larga diffusione, rivolti a un pubblico medio-alto; Phillips, a partire dagli anni dieci, si impegna a disegnare le copertine della rivista americana. ‟Birches" (ottobre 1911) ha una linea sofisticata, che va già molto al di là dello stile floreale e liberty che dominerà ancora per molti anni la pubblicità e il gusto grafico del vecchio continente. Per questa testata lavoreranno i maggiori artisti americani: tra questi M. Parrish con il suo segno graffiante e ammiccante, come in A dark futurist del 1923, rappresentante un piccolo pittore appollaiato su uno sgabello.

Negli Stati Uniti questo genere di copertina indulge a un gusto naturalistico, che nell'Europa delle avanguardie storiche appare obiettivamente desueto; rimane comunque il fatto che al modello di ‟Life" si ispirano numerosissimi magazines sia statunitensi che europei. In Italia l' ‟Illustrazione italiana" è il modello qualitativamente più rilevante; bisognerà attendere poi ‟Omnibus" di L. Longanesi e ‟L'Europeo" di A. Benedetti.

Centinaia sono poi le testate straniere che accoppiano all'alto livello grafico (sia per le illustrazioni sia per l'impaginazione) un uso massiccio della fotografia, la quale viene così ad assumere un ruolo primario anche nella pubblicità. Possiamo dire, per usare una formula sintetica, che a un certo punto la centralità del bozzetto dipinto viene erosa da questo straordinario mezzo di comunicazione: è un processo che interessa qualunque tipo di pubblicità, da quella politica a quella commerciale, da quella degli spettacoli a quella dell'industria culturale.

Sebbene labile, il confine fra industria culturale e stampa periodica nondimeno esiste, e l'editoria ha una propria tradizione che merita d'esser segnalata. Sotto il profilo grafico, l'evoluzione va dalle famose copertine preraffaellite dell'inghilterra vittoriana fino alla grande esperienza italiana, segnata dall'antitesi Croce-D'Annunzio. Le opere di D'Annunzio hanno copertine liberty disegnate daA. De Carolis, l'artista prediletto dal poeta-soldato. La chiave grafica è sofisticata, languida e allo stesso tempo pateticamente eroica: De Carolis riflette i gusti decadenti e le manie neorinascimentali dell'autore. Croce, invece, rivela anche su questo terreno la sua severa concezione della vita e della storia. La famosa copertina mattone dei suoi volumi laterziani è un modello di rigore formale e di modernità grafica. Come sappiamo dalla corrispondenza con il suo editore G. Laterza, il filosofo prendeva un interesse vivissimo a ogni particolare della produzione del libro: dal corpo dei caratteri alla qualità della carta. Certo, Croce si richiamava in ciò alla tradizione tipografica sette-ottocentesca, aggiornandola però secondo i modelli di un gusto asciutto, senza dubbio antagonistico alla moda dominante.

L'industria editoriale, a partire dagli anni trenta, incomincia a servirsi di tecnici pubblicitari e di grafici per le proprie collane e la propria pubblicità. Pensiamo al ‟Politecnico" diretto da E. Vittorini e disegnato da A. Steiner, un grafico che avrà un posto di primissimo piano nell'editoria italiana del dopoguerra; al B. Munari che plasma l'immagine della casa editrice Einaudi, che s'impone per la finezza e l'eleganza dei suoi volumi. B. Munari, A. Steiner, M. Castellano, M. Provinciali non sono che alcuni nomi - certamente significativi - che potrebbero aprire un capitolo tutto dedicato all'industria editoriale. (A questo riguardo, per un'illustrazione sistematica delle novità su scala internazionale in questo settore di punta della pubblicità d'alto livello rimandiamo alle annate del bellissimo mensile svizzero ‟Grafis").

Negli ultimi decenni assume un posto di rilievo la pubblicità destinata alle battaglie per i diritti civili, alle campagne antinucleari, alla difesa dell'ambiente, alla tutela della salute. È un tipico fenomeno del secondo dopoguerra: dopo Hiroshima e specialmente negli anni della guerra fredda un largo movimento di opinione prende coscienza dello spettro rappresentato dalla catastrofe atomica. Contemporaneamente nascono le campagne contro la disoccupazione (B. Shahn, 1944-1945), per la lotta alla poliomielite (H. Beyer, 1949) e al cancro. Un settore di spicco è quello della campagna per i diritti civili negli Stati Uniti, campagna che, iniziata da M. Ackoff con Wipe out discrimination (1949), prende slancio soprattutto con il New Deal kennediano degli anni sessanta. Assai aspra è la protesta di O. Viskupic (1969): un negro pende dalla forca, con una bandiera americana sulla testa, R. Garcia punta sul volto di Angela Davis, allieva di Marcuse. Sempre negli anni sessanta si sviluppa una robusta campagna in difesa dell'ambiente che, di rimbalzo e con ritardo, arriva anche in Italia, patrocinata da associazioni come il WWF e Italia Nostra. Occorre menzionare anche le campagne contro la droga che rivelano una sia pur tardiva presa di coscienza di questo drammatico problema. Con temi di tal genere la pubblicità diventa uno strumento per il progresso civile e non solo un mezzo per la diffusione di prodotti. In Italia l'Associazione pubblicità per il progresso redige una sorta di decalogo da osservare sia nel settore della pubblicità commerciale - che, si dice, dovrà essere veritiera sia in quello più generale delle comunicazioni. La pubblicità come servizio pubblico è un tentativo generoso di controllare l'imponente potere delle compagnie commerciali: in un'epoca di sofisticazioni - alimentari, culturali o ideologiche che siano - questo tentativo resta sostanzialmente un conato generoso degli artisti più seri impegnati in questo settore e delle ditte di marketing capaci di darsi un codice morale di comportamento.

In questa sintetica rassegna non si può non fare cenno alla pubblicità sussidaria e ci riferiamo in primis al cinema: lo spettacolo che ha soppiantato circhi, teatri, maghi e ogni altro spettacolo d'evasione. Il cartellone cinematografico è stato il mezzo che ha assicurato la popolarità dei grandi divi: col suo straordinario successo nel cinema (Fellini, Antonioni, Visconti e prima ancora De Sica, Zavattini, Blasetti ecc.) l'Italia contemporanea ha prodotto una cartellonistica di grande qualità; un caposcuola come Enrico De Seta ha reso celebri con le sue tempere alcuni dei più famosi attori del cinema italiano: da Totò ad Anna Magnani, da Mastroianni a Sofia Loren. Bisogna dire che su questo terreno, tra gli anni cinquanta e sessanta, l'Italia del miracolo economico non è stata seconda a nessuno.

La forza straordinaria del cinema ha trovato nel cartellone un alleato prezioso; e tutta la città, nelle sue vie e nelle sue superfici tappezzate di manifesti, è divenuta un veicolo pubblicitario. Da Las Vegas a New York, da Londra a Roma, fino al più sparuto paese calabrese o andaluso, questa silenziosa invasione ha trasformato il volto urbano. La città è divenuta lo scenario privilegiato della pubblicità e purtroppo non c'è paesaggio che vi si sottragga, non c'è monumento, per quanto insigne e vetusto, che non divenga supporto di messaggi pubblicitari.

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