Public choice theory (teoria delle scelte pubbliche)

Dizionario di Economia e Finanza (2012)

public choice theory (teoria delle scelte pubbliche)

Giuliana De Luca

public choice theory (teoria delle scelte pubbliche)  Scuola di pensiero sviluppatasi negli USA durante la seconda metà del 20° sec. sotto la guida di J.M. Buchanan, avente come oggetto lo studio dei processi decisionali alla base delle scelte pubbliche (non di mercato) nelle democrazie contemporanee: essa applica ai soggetti interessati da tali processi (gli elettori, gli eletti, i funzionari pubblici, i partiti politici e i gruppi di pressione) ipotesi di comportamento identiche a quelle supposte valide per i soggetti privati, considerandoli cioè massimizzatori razionali dell’interesse personale (prestigio, ricchezza, potere, vantaggi fiscali).

Approccio di base e filoni di ricerca

La struttura di fondo della p. c. t. è positiva, diretta verso la comprensione della politica attraverso gli strumenti tipici dell’economia, ma nel corso del tempo ha assunto una forte connotazione normativa. I contributi più rilevanti alla scuola sono venuti da D. Black, che si è occupato dello studio sulle decisioni di comitato (1951), da A. Downs, padre della teoria economica della democrazia (1957) e della burocrazia (1967), da A. Olson, G. Tullock, D.C. Mueller, K.J. Arrow e da numerosi altri studiosi provenienti dalle università di Chicago e della Virginia. La teoria della p. c. si è sviluppata lungo una varietà di filoni di ricerca: la teoria delle votazioni (studio delle diverse procedure di voto, quali l’unanimità e la maggioranza), la teoria assiomatica delle scelte sociali (elaborazione delle regole di decisione sociale e delle caratteristiche assiomatiche desiderabili che queste dovrebbero soddisfare), la teoria economica del governo, la teoria della burocrazia (esame del percorso che le decisioni devono seguire per trasformarsi in azioni), la teoria del ciclo politico-economico.

La teoria delle votazioni

L’espressione p. c. è stata coniata alla fine degli anni 1960 ma già fin dalla seconda metà del 18° sec. alcuni matematici, tra i quali J.-C. de Borda e J.-A. de Caritat, marchese di Condorcet, avevano ipotizzato l’impiego della matematica nell’analisi del processo di voto. I risultati a cui è giunta la teoria delle votazioni, a partire dai lavori di questi ultimi fino ai più moderni contributi degli anni 1950, è che nessuna delle regole elettorali sembra essere immune da manipolazioni. Quella dell’unanimità (la procedura ideale per una società liberale, secondo K. Wicksell) è difficilmente applicabile perché essa tende a far preferire lo status quo, in quanto l’esito finale della votazione può dipendere dal percorso seguito e dal comportamento insincero dell’elettore e, inoltre, perché risulta troppo costosa. Anche la regola di maggioranza non garantisce soluzioni stabili – per es., quando il confronto binario tra più alternative dà luogo a preferenze sociali intransitive, tali da determinare maggioranze cicliche; oppure quando risulta vincitore un candidato che non è la prima scelta di nessuno degli elettori, ovvero è la scelta meno gradita a tutti (paradosso di Condorcet, ➔ Condorcet, criterio di) – eccetto che in certe condizioni in cui le preferenze degli elettori sono single-peaked riguardo ad alternative disposte secondo un ordine progressivo crescente (teorema dell’elettore mediano o teorema di Black, ➔ elettore mediano, teorema del), violando però, in questo caso, la condizione di dominio universale. Più in generale, nessuna procedura di voto maggioritaria non dittatoriale su più di due alternative resiste alla manipolazione delle preferenze da parte degli elettori (teorema di Gibbard-Satterthwaite).

La teoria delle scelte sociali

Un risultato ancora più sorprendente emerge dalla teoria assiomatica delle scelte sociali, il cui maggior esponente, K.J. Arrow, formalizzando dal punto di vista teorico le intuizioni di Condorcet e di Black, ha dimostrato (1951) che non esiste alcuna funzione di benessere sociale che soddisfi le condizioni di dominio universale, unanimità (o principio di Pareto), transitività, indipendenza dalle alternative rilevanti e che non sia dittatoriale (teorema dell’impossibilità).

La teoria della democrazia rappresentativa

Il filone della teoria economica del governo è stato avviato da Downs, il quale ha trasposto i risultati del teorema di Black nell’ambito degli studi sulla democrazia rappresentativa. A differenza di Black e Arrow, Downs ha abbandonato l’analisi dei meccanismi astratti del sistema politico per concentrarsi sugli attori politici, muovendo dalla teoria della concorrenza politica di J.A. Schumpeter. Nel modello di Downs gli uomini politici sono volti alla massimizzazione dei voti per giungere al potere o mantenerlo, e gli elettori alla massimizzazione del proprio interesse. Nell’assegnare i voti, la concorrenza fra partiti conduce così all’attuazione di una politica che soddisfa le preferenze dell’elettore mediano.

La teoria del ciclo economico

Questo filone della p. c. t., che deriva dalla teoria economica del governo, cerca invece di spiegare l’andamento ciclico dell’economia sulla base delle politiche elettorali seguite dai governi (per es., se gli elettori desiderano un basso livello di disoccupazione, allora, in prossimità delle elezioni, la spesa pubblica verrà diretta principalmente a interventi a supporto dell’occupazione). Esso è stato sviluppato in particolare da W. Nordhaus (1975), D.A. Hibbs (1977) e A. Alesina (1992).

La teoria economica della burocrazia

In questa linea di ricerca la p. c. t. mette in risalto il vantaggio informativo della burocrazia pubblica (per es. sui propri costi o sulla domanda del servizio che produce) nei confronti del potere politico che la finanzia, con il risultato che la burocrazia tenderebbe a scegliere il massimo livello di produzione compatibile con lo sfruttamento totale della somma complessiva che il Parlamento è disposto a stanziare per ottenere una data quantità e qualità di produzione dell’ufficio. Uno dei maggiori esponenti di questa teoria è W. Niskanen.