OVIDIO Nasone, Publio

Enciclopedia Italiana (1935)

OVIDIO Nasone, Publio (P. Ovidius Naso)

Luigi CASTIGLIONI
Salvatore BATTAGLIA

Poeta romano dell'età augustea. I dati sommarî della vita del poeta non sono difficili a raccogliere: la sua lirica tutta soggettiva, nell'oscillare tra realtà concreta e finzione poetica, gli permetteva largamente di parlare anche di sé e dei suoi, della sua terra peligna, alla quale non poteva non essere molto attaccato, di amici di famiglia; di questi, in particolare, dopo lo schianto della sventura. In tal modo egli perfezionava un uso dell'elegia properziana, allargandolo, chiarificandolo, rendendolo spoglio di allusioni e imprecisioni, come è consuetudine caratteristica della sua arte; allo stesso modo che da Properzio e, più, da Orazio aveva preso lo spunto per l'esaltazione della propria arte e personalità. La solitudine dell'esilio, facendolo ripiegare tutto sul suo passato, gli suggerì anche la necessità di una composizione, diciamo così, autobiografica (Trist., IV, 10), che ebbe il suo seguito in età più recenti. La data della nascita, 20 marzo del 43 a. C., le condizioni della famiglia, gli studî, le tendenze, le relazioni con altri poeti, i primi passi nella poesia, anche le vicende familiari, sino alla sciagura estrema, sono qui chiaramente e largamente ricordati. Sommando questo con molti altri accenni, più o meno precisi, abbiamo gli elementi completi per la biografia del poeta. Ad altre fonti non sono da cercare se non qualche dato cronologico e l'anno della morte del poeta.

La sua origine da una famiglia benestante di Sulmona (Trist., IV, 10, 8; Am., I, 3, 9; II, 16, 1; Trist., II, 110), appartenente all'ordine equestre da antica data, è cosa che con i caratteri dell'arte e gli sviluppi ulteriori delle vicende del poeta ha assai poco a che fare; non più che la longevità paterna e materna e la prematura fine del fratello ventenne. Qualche cosa di più dice l'accenno alla tenerezza del cuore, espugnabile ai dardi di Cupido (Trist., IV, 10, 65), non costituendo ciò, per la particolare condizione del componimento, un "motivo" di elegia erotica; ma anche questo conta poco. Conta certo assai meno dell'accenno alla scuola frequentata in Roma; accenno che s'integra con le più precise notizie date da Seneca padre (Contr., II, 10, 12), e ha la sua importanza, in quanto ciò investe il problema della formazione spirituale del poeta e chiarisce tendenze, che sono rimaste in lui fondamentali. L'insuperabile propensione alla forma poetica nella composizione prosastica è affermata da Ovidio e riconfermata da Seneca; l'aver Ovidio trasportato, a sua volta, nella poesia le "sentenze" di Porcio Latrone è notizia non meno importante di quella che riguarda la sua preferenza per la suasoria in confronto con la controversia; se, com'è credibile, le epistole responsorie sono opera di Ovidio, come lo sono le epistole Eroidi, il confronto tra i due generi di produzione, che pure sono i due aspetti d'una medesima esercitazione, dimostra come nella libera attività dell'ispirazione poetica si riflettessero immutate le preferenze e le attitudini scolastiche. Comunque sia, le innate tendenze oratorie - Ovidio nacque e morì poeta eloquente -, le audizioni dell'arguto e concettoso Latrone e l'asianismo ricco di sfaccettature, di suoni, d'immagini, di concretezza descrittiva, di Arellio Fusco, si fusero tra loro in modo perfetto, formando la natura vera e il fondo della spiritualità creativa ed espressiva del poeta. Interessante è pure il fatto che il giudizio su Ovidio, nato evidentemente nelle sale di declamazione da lui frequentate, dura sovrano anche nell'età successiva, ed è sostanzialmente riespresso da Quintiliano (Instit., X, 1, 88, 98): nimium amator ingenii sui; conscio dei suoi eccessi egli stesso, ma ostinato a non emendarli; consapevole della sua organica impotenza ad emendarli, potremmo dire noi, con maggiore esattezza.

Non avremmo bisogno dell'esplicita testimonianza del poeta stesso per credere ch'egli, non nato alle lotte oratorie del foro, non aspirasse a carriera politica, e gl'impegni dell'appartenere all'ordine senatorio fossero peso maggiore delle sue forze: come triumviro capitale o, forse anche, monetale (Trist., IV, 10, 34), forse come decemviro stlitibus iudicandis (Fast., IV, 384), fece parte del XX viratus, cioè della magistratura che costituiva il primo passo alle cariche, che dischiudevano il senato; ma ciò per lui non ebbe importanza maggiore che il far parte dei centumviri; ricordi rievocati quando gli era conforto o sperata utilità il mostrare la propria vita come quella di cittadino intemerato, lealista, in tutto ossequente alle leggi dello stato e non inetto esecutore di pubbliche mansioni (cfr. specialmente Trist., II, 93 segg.).

Il viaggio in Oriente, la dimora siciliana (Trist., I, 2, 77; Ex Ponto, II, 10, 21) erano il naturale completamento della sua istruzione, e, sebbene la fantasia del poeta non chieda visioni dirette, possiamo anche credere che la visita ai paesi del mito non sia rimasta senza effetto per la sua arte. Le vicende della famiglia, cioè due divorzî ai quali seguì un matrimonio cospicuo per parentela e aderenze, a cui indarno il poeta fece appello negli anni del dolore, la nascita di una figlia, che lo rese presto avo, hanno scarsa eco nella produzione poetica di Ovidio, anzi, sostanzialmente fanno la loro apparizione, quando l'infelicità e i giorni della miseria desolata spingono il poeta ad attaccarsi ai lontani con lo strazio della speranza esacerbata dalla sconfortata certezza della vanità di ogni appello. Ed è pure di questo periodo il ricordo dei sodalizî con i compagni d'arte e delle persone che nella prima gioventù avevano incoraggiato il promettente poeta provinciale. Accenni e ricordi che hanno per noi importanza più che biografica. Primo protettore del poeta fu proprio quel M. Valerio Messalla Corvino, amico e protettore di Tibullo, la cui morte Ovidio pianse in versi di scarsa ispirazione, intessuti di motivi scolastici (Am., III, 9), ma non per questo insinceri. La menzione di Messalla affiora tardi (Ex Ponto, I, 7, 27; II, 3, 75), ma basta non soltanto a spiegare il motivo dell'epicedio, sì anche un poco la posizione d'Ovidio tra i poeti augustei e la sua lontananza dal gruppo che faceva capo a Mecenate. Del resto il poeta era di quelli ai quali la fortuna aveva arriso subito ai primi inizî e che la morbida pieghevolezza del carattere poteva porre nel centro della vita intellettuale di Roma: rispetto verso i maggiori di età, già saliti in fama o alle soglie di questa, e amabilità verso i minori; facilità nei rapporti della vita pari a quella nel comporre versi. L'elenco di nomi accompagnato sempre da lodi, spesso assai superiori ai meriti reali (Trist., IV, 10, 41 segg.; Ex P., IV, 16), è il più chiaro documento della posizione d'Ovidio nella vita letteraria di Roma; di come anche la sua giornata scorresse veramente dedita alla gioia del poetare e del vivere. La grandezza della Roma imperiale, l'attività riformatrice d'Augusto non dicono nulla di profondo e di veramente sentito al suo animo, ed è facile a ognuno l'avvertire come agli occasionali suoi encomî manchi veramente l'ethos; l'apoteosi di Cesare e la lode di Augusto, che costituiscono la chiusa fantasmagorica delle Metamorfosi, alla quale veramente il poeta è giunto quasi ansimando, preludono, con più arte, agli elogi stucchevoli dei poeti dell'età seguente; sono sostanzialmente e spiritualmente lontani dalla commozione di Virgilio e di Orazio; sono ormai non più lode, bensì adulazione. Colpa del sentimento, ma soprattutto conseguenza di età: Ovidio nasceva l'anno della battaglia di Modena, e per chi non aveva avuto contatto diretto con l'età delle guerre civili, per chi le schiere di figli contro padri, di fratelli contro fratelli erano tema di esercitazione declamatoria, l'assestamento della battaglia di Azio poteva anche sembrare la risoluzione di un conflitto dinastico, pur menzionando soltanto colei, che "indarno aveva minacciato la servitù del Campidoglio al suo Canopo". Ed è strano che questo lato eminentemente caratteristico della persona d'Ovidio non sia stato osservato da molti, che, forse per amore di malintesa novità, hanno fantasticato una ragione politica nella sventura che, inattesa, colpì il poeta ormai giunto al suo cinquantunesimo anno di età.

La vita tranquilla d'Ovidio a questo punto subì un brusco arresto: l'anno 8 d. C. un ordine di relegazione a Tomi, sulla costa occidentale del Mar Nero, alle foci del Danubio (Costanza), colpiva il poeta, mentre si trovava con Massimo Cotta all'isola d'Elba (Ex P., II, 3,83). Il provvedimento non ammetteva dilazioni, e il poeta, nel cuore dell'inverno, dovette lasciare Roma, per arrivare dopo un fortunoso viaggio per mare e per terra alle sponde per lui veramente inospitali del Ponto.

Alle cause della sua relegazione il poeta accenna spesso; cause, egli dice, anche troppo note. Com'è naturale, le notizie sulla bocca di una generazione sono proprio quelle destinate a perdersi nell'indifferenza o nell'ignoranza delle età seguenti, e così la seconda delle due ragioni, che O. adduce, carmen et error, rimane per noi un enigma. A risolvere il quale si volse l'intelligenza, e anche la facilona ottusità, di coloro che credono lecita ogni bizzarria là dove sia libero campo a ipotesi. Del carmen non si può dubitare, perché il poeta è esplicito; ma non fanno prova di molta finezza coloro che ripetono essere stato quello dell'Arte Amatoria un puro e vuoto pretesto. Causa prima del provvedimento non furono certo i libri pubblicati quasi un decennio innanzi, ma alla forma e alla gravità della pena essi concorsero validamente. Ad Augusto dovette sembrare anche più grave la colpa più recente di un poeta che nei suoi versi s'era fatto l'espressione gioconda e spregiudicata di una società, ch'egli vanamente voleva emendata nelle varie forme di vita. E un maestro di colpa e di vergogna dovette agli occhi del vecchio imperatore apparire il poeta, in un momento nel quale egli scopriva intorno a sé la colpa e la vergogna. Della quale O. dovette essere anche concretamente e direttamente non ignaro. Attribuire ad una pura coincidenza il sincronismo della relegazione di O. e i provvedimenti presi da Augusto nei riguardi della nipote Giulia, è spingere lo scetticismo agli estremi: l'ipotesi che comunque il poeta fosse testimone, in faccende del genere, di cose per Augusto molto spiacevoli, rimane, pure tra molte, sempre l'ipotesi meno improbabile. La fermezza di Augusto nel rifiutare qualsiasi commutazione di pena e di destinazione testimonia l'avversione non soltanto verso il poeta frivolo, ma anche contro chi gli rievocava perennemente un'onta e un mal sopito dolore.

Tiberio non modificò in nessun modo il provvedimento; segno questo, non ch'egli fosse personalmente interessato, ma che non riteneva opportuno un atto di grazia in cosa che personalmente aveva offeso il predecessore. A togliere il poeta dalle sue insanabili angosce provvide la morte, che lo raggiunse a Tomi sul principio del 18 d. C.

L'attività poetica d'Ovidio comincia assai per tempo (Trist., IV, 10, 56) e si chiude con il chiudersi della vita di lui. La massima parte di essa ci è conservata, ed è, certo, anche la parte più matura e significativa; di ciò che non possediamo, soltanto la tragedia Medea dovette avere un'importanza letteraria, che le è riconosciuta anche da Quintiliano (X, 1, 98; cfr. anche Tac., De orat., 12) e, insieme col Tieste di Vario, un valore storico, costituendo il trapasso dal tipo classico al tipo per noi rappresentato da Seneca. Tutto il rimanente, epigrammi, versi giocosi, composizioni encomiastiche (notevole, come ulteriore testimonianza della facilità ovidiana, il carme in getico per la morte di Augusto), non ha nessuna importanza effettiva; né, conservato, avrebbe modificato il nostro giudizio nei riguardi del poeta. La produzione rimasta, a eccezione delle Metamorfosi e dell'insignificante torso degli Halieutica, è elegiaca; con questa forma poetica egli iniziò la sua attività e la chiuse, e a questa impresse un suo carattere che, nonostante la facilità e perfezione tecnica del tutto esteriore, che diede al genere un aspetto forse meno personale, certamente facile alla contraffazione, non è tuttavia disconoscibile. Ridurre a poche formule gli elementi esteriori della maniera ovidiana, non sarebbe né cauto né utile; ma se uno ve n'è da notare è certamente la costanza della sua agile struttura che, se è nata dall'osservanza di leggi prefisse, ha di queste fatto una seconda e ugualmente imperiosa natura. Non assurdo è stato quindi nelle troppe discussioni sull'autenticità di taluni componimenti invocare l'infrazione di talune norme riguardanti il verso; solo lato debole, l'incertezza di poter stabilire se le infrazioni abbiano una ragione loro profonda, insuperabile, e quindi siano del poeta, o se vengano da minor capacità e denunzino quindi lo sforzo mancato dell'imitatore.

Si suole dividere l'attività poetica di Ovidio, cronologicamente, in tre periodi, e quindi in tre gruppi: ciclo elegiaco-amoroso (dall'inizio al 2 d. C.); ciclo epico (sino all'8 d. C.); elegie dall'esilio (9-17 d. C.). Che questa sia suddivisione puramente esteriore, senz'alcun intimo significato, non sarebbe nemmeno il caso di dirlo, ma è una divisione comoda ai fini dell'esposizione. L'attività di Ovidio prima dell'esilio, in qualunque forma si estrinsechi, è l'espressione di un uguale indirizzo d'arte e di pensiero; non solo il poeta delle Metamorfosi, ma anche quello dei Fasti, il cantore, cioè, delle venerande origini dei culti e delle feste romane, più o meno temperate talune crudità, è sempre il cantore delle gioie d'amore e della giocondità della vita. I toni differiscono e le leggi dei "generi letterarî" si fanno sentire, ma l'unità di spirito e d'indirizzo è sempre evidente.

Ovidio esordisce con la raccolta di elegie, ch'egli intitolò Amores, giusta il loro contenuto. Dell'edizione primitiva in cinque libri non rimane che la memoria tramandataci dal poeta stesso nell'epigramma introduttivo a quella in tre, che ci è arrivata. Argomento fondamentale il suo amore e la sua relazione con Corinna. Situazione che ci richiama a quelle, dalle quali vennero la Cinzia di Properzio e le elegie di Tibullo per Delia e per Nemesi. Della realtà di Cinzia e di Delia pochi dubitano, ai quali pare necessario revocare in dubbio ogni notizia che ci venga dagli antichi grammatici: alla verità viva di Corinna non crede, si può dire, alcuno. A torto, forse, ma la cosa è interessante e contiene il giudizio su questa prima produzione ovidiana. Mentre negli altri due poeti i singoli carmi sembrano esprimere momenti e stati d'animo, le elegie d'Ovidio sono la riproduzione di tipiche situazioni, l'illustrazione di stati amorosi in forma concreta. Un elemento, cioè, che nella produzione dei predecessori serve a portare l'individuale in una sfera più lata, è qui l'elemento primario e i nomi proprî non bastano più, come non basta lo sfondo realistico, a darci il senso della verità vissuta. Domina in sostanza il carattere, che assumerà la sua piena e perfetta espressione nell'Arte amatoria: un mondo frivolo nel quale l'individuo scompare e dominano i momenti del piacere sessuale, delle eleganze allettatrici, della giocondità, increspata soltanto dai ripicchi, che condiscono e rinnovano le piacevolezze dell'amore. Qui, all'infuori di quell'amabile superficialità, che è propria di tutta la produzione ovidiana, sta il carattere che individualizza questa nuova elegia e la separa dall'opera dei predecessori; altri elementi, che altri additano, o sono illusorî o sono affatto secondarî. Motivi di epigramma greco svolti con virtuosità poetica e retorica s'intrecciano con temi della tradizione romana, e questo pure è un carattere ovidiano: quello di trarre ispirazione dall'arte indigena, senza dissimulazione, anzi quasi con una manifesta ostentazione e compiacenza, perché il lettore comprenda con quale agilità di frase e varietà d'intonazione il poeta sappia riprendere e innovare l'altrui creazione.

Novità, certamente in un senso limitato, costituiscono le Eroidi, 15 lettere di eroine della tradizione epica e drammatica greca, a eccezione della virgiliana Didone e di Saffo, alle quali s'accompagnano tre paia di epistole, in cui le eroine, Elena, Ero, Cidippe rispondono alle lettere di Paride, Leandro, Aconzio. Ignotum hoc aliis ille novavit opus (Ars am., III, 346), afferma l'autore, e, in realtà, di siffatte trattazioni poetiche non conosciamo precedenti del tutto comparabili. Di fonti dirette in uguale stile non si può parlare, e la materia è attinta alle più svariate fonti per essere svolta con manifesti procedimenti retorici. L'elemento del monologo drammatico è quello che qui predomina, e, se si vuol dare alla definizione un valore limitato, possiamo anche accettare quella spesso ripetuta, che cioè le Epistole rappresentano una specie di suasoria in versi e sono, di tutte le opere ovidiane, quelle che, anche nella struttura, mostrano più evidenti i segni dell'origine scolastica e retorica. L'etopea è ricca, varia, abbastanza aderente alla situazione; spesso l'animo femminile è penetrato nella sua profondità; talora trattato con sconcertante superficialità. Nel complesso vi è parecchia monotonia, e più rilevate sono le epistole che più fedelmente aderiscono a un modello o rispecchiano una vigorosa fonte drammatica (Canace a Macareo; Fedra a Ippolito, ad esempio; che sono anche i temi più grati a Ovidio). Molte sono le questioni relative a questa opera: fonti del genere; fonti delle singole composizioni; problema dell'autenticità delle epistole duplici e di quella di Saffo a Faone, che ha una sua tradizione manoscritta indipendente dalle rimanenti. Per questa il problema può considerarsi risolto in senso positivo, soprattutto la grossolana concezione di Saffo sensuale e maestra di amore è tipicamente ovidiana. Per le altre non si può dire che ogni dubbio sia stato vittoriosamente rimosso e superato; comunque l'opinione generale oggi inclina verso l'autenticità di tutta la raccolta, per la quale si pensa a una duplice edizione per opera del poeta, procedimento, questo, troppo comodo.

Un gruppo strettamente collegato formano l'Arte amatoria, il poemetto incompleto dei cosmetici (Medicamina faciei femineae), i Remedia amoris: una vera didattica erotica, che ha nell'Arte amatoria il suo punto culminante e l'espressione artisticamente più perfetta. Questo genere ha avuto certo i suoi precedenti tra gli scrittori greci, ma ad esemplari diretti Ovidio non ha attinto; certamente nella sua lunga apologia non ci ha dato alcun indizio in proposito (Trist., II), pur facendo larga enumerazione di letteratura scabrosa e di temi di didattica erotica. I singoli elementi dei quali l'opera si compone si possono illustrare con numerosi paralleli; ma la fusione di questi elementi in un'unità artistica è opera esclusiva d'Ovidio, che appunto nella sua Arte ci dà il primo e perfetto saggio della sua attitudine a fondere la varia materia, a ravvivarla, a imprimervi il segno della propria personalità, così che indarno si cercherebbe in essa una qualsiasi stratificazione e una vera dissonanza. Le situazioni svolte dall'elegia erotica soggettiva costituiscono, se è lecito dire, la casistica della dottrina erotica; ma nulla qui vi è di astratto, nulla che non sia illuminato dalla gaiezza di un sorriso e da un'amabile leggerezza di tocco. Pregi che in minor misura si trovano anche nei Remedia, che chiudono e completano il ciclo, condotti col metodo stesso, col quale sono condotti i libri dell'Arte amatoria. I rilievi sulla composizione dei due poemetti, anche dove attingono un certo grado di probabilità, sono lucidamente spiegabili col metodo col quale il poeta dovette prepararsi il materiale grezzo; meglio ancora, con le reminiscenze spesso subitanee, suggeritegli dall'argomento, ché un lavoro preparatorio e diligente di ogni particolare è escluso dall'indole stessa del poeta. Ovidio non è certo di coloro ai quali si dovesse rivolgere l'invito a frequentare più moderatamente la biblioteca di Apollo Palatino. La tradizione erotica ellenistico-romana costituiva il fondo della sua cultura; le reminiscenze si fondevano nella fertilità della sua fantasia.

Il pulsandast magnis area maior equis di Am., III, 15, 18, allude certamente alle Metamorfosi, delle quali il poeta aveva già meditato l'ardito piano. Le costruzioni cronologiche, che si fanno su questo e simili cenni, hanno un valore relativo, che deve essere inteso col tradizionale grano di sale. Il maggior poema d'Ovidio, sia come argomento, sia come tipo di composizione, appartiene alla più schietta tradizione ellenistica. Antiche senza dubbio le favole metamorfiche e antica pure la loro comparsa nella poesia, o come fugace cenno (favola di Aedone nell'Odissea), o come argomento indipendente (Procne e Filomela, ad esempio, nella tragedia); ma il gusto della raccolta di tali tradizioni in una speciale composizione poetica, riunite per affinità di materia (ornitogonia di Boios) o con procedimenti di varia natura, con varietà di tipi metamorfici (gli Heteroioumena di Nicandro, ad esempio), è tipicamente ellenistico. Nessun dubbio che Ovidio abbia conosciuto i suoi principali predecessori e se ne sia servito e non soltanto come si servì di manuali mitografici in prosa, per attingervi esclusivamente la materia grezza. Dallo stile dei singoli poco aveva da prendere; le Metamorfosi di Partenio sono per noi, purtroppo, un semplice titolo; ma certi toni caratteristici non possono ingannare, così che, a buon diritto, possiamo affermare derivazioni anche poetiche da queste fonti greche generali, come derivazioni certe vi sono da fonti particolari, cioè da quel tipo di poemetto che i moderni sogliono chiamare epillio. Se i ricercatori di fonti hanno postulato troppo numerosi componimenti del genere per substrato di questo poema ovidiano, ciò è certamente un errore, ma che non infirma il concetto generale. L'originalità di Ovidio esiste, ma è altra dal concetto o moderno o volgare. Essa consiste, non nei particolari, che in sé hanno scarso valore, non nella materia favolistica; ma, se si vuole, in taluni atteggiamenti di questa e, sovrattutto, nella potente unità, impressa a una materia varia per origine e per caratteri. Non s'intende ridurre a questa formula semplicistica i valori e i caratteri delle Metamorfosi; ma soltanto insistere su un lato caratteristico, che i molti studî intorno al poema non hanno messo in valore. In questo vediamo la conseguenza più alta della educazione retorica di Ovidio; di qui viene la sua capacità a imporre alle cose più varie una sua forma personale e caratteristica, a disporre di una varietà di colori e di toni, che servono a differenziare i gruppi, secondo una loro linea fondamentale, ad alternare secondo gli argomenti o la declamazione tragica o la freschezza idillica o la dolcezza sentimentale e la placidità del racconto riposato, nel quale non cozzino passioni o arda la fiamma d'inconfessabili passioni. Senza dubbio ammirevole è l'arte con la quale Ovidio conduce il lettore dalle origini del mondo all'astro Giulio, con trapassi che non offendono nemmeno quando la loro artificiosità è troppo evidente; ammirevole la maestria con la quale è evitato l'incontro di procedimenti uguali e di svolgimenti tra loro identici; la varietà delle descrizioni dell'atto metamorfico e, in genere, la sceneggiatura. Ma più notevole ancora la forza di portare alla superficie gl'intimi valori di ciascun episodio, di riversare all'esterno l'animo dei personaggi. Che in questo vi sia superficialità, non è dubbio: Ovidio non è poeta profondo e non poteva esserlo per sua natura; ma supplisce il declamatore e l'abile colorista, ottenendo che la somma di tanti versi, formi, non un'accolta di episodî, ma un poema epico.

Scendere ai particolari non è ora possibile, e i particolari sono stati illustrati da lunga serie di pazienti ricerche. Col poema ovidiano la poesia metamorfica, ripercorrendo la via dall'ellenismo di tipo neoterico verso la classicità epica, raggiungeva la sua perfezione e il suo termine. Nella linea dell'ellenismo puro il poeta rimaneva invece con i suoi Fasti. Non soltanto perché il tema era callimacheo, ma perché il tono della narrazione è, rispetto alle Metamorfosi, un altro. Non soltanto il tono didattico, ma quello delle narrazioni di più largo respiro. Il tema etiologico aveva tentato già Properzio; il disegno di costruire il poema continuato dei mesi è originale di Ovidio ed è conforme al piano seguito nell'ideare le Metamorfosi. Quale, poi, sia il rapporto tra questo e l'incompleto poema dell'amico di Ovidio, Sabino, nessuno potrebbe dire. Il comune ritorno allo stile della didattica ellenistica è interessante come indicazione di gusti e di tendenze. Gioverà ricordare che Ovidio s'era cimentato anche con la poesia astronomica. I Fasti sono il poema di Roma; ma nessuno seriamente dovrebbe affermare che essi esprimano il bisogno di un accostamento ad Augusto. Se mai, all'imperatore poteva sembrare cosa di dubbio gusto il poeta di Corinna alle prese con le venerande tradizioni romane. Il poema era rimasto in tronco, probabilmente, a cagione della condanna alla relegazione: Ovidio non ebbe la forza di ritornarvi e di condurlo a termine. Esso non interessava ai fini immediati di una grazia e non diceva nulla all'animo del poeta, che lo riprese stancamente, per dedicarlo a Germanico, al quale poteva, anche per le sue stesse tendenze letterarie, tornare grato; non una continuazione, ma un rimaneggiamento esteriore della parte già composta. Arrivare al dodicesimo mese dell'anno, con una composizione, che, variata nel particolare, era uniforme nell'insieme, era una prospettiva non molto allettante; anche la materia era tutta da raccogliere in testi eruditi e senza luce di poesia; le favole e i riti non molto varî né così numerosi, da promettere risultati veramente felici. Se per un antiquario non riesce molto doloroso l'abbandono del primitivo disegno da parte del poeta, ché per questo lato non molto offrono i libri compiuti, per chi considera l'opera poetica la cosa è più indifferente ancora. Improbabilissimo è poi che il poeta abbia dettato qualcosa che andasse oltre i libri elaborati e giunti sino a noi; ma la cosa non ha importanza alcuna. Nei libri effettivamente scritti, a Ovidio è riuscito di formare uno stile poetico congruo alla materia, e, nonostante molta superficialità e molte parti aridamente tracciate, lo sforzo di dare una veste poetica e un corpo, a favole che non avevano una tradizione letteraria, non è rimasto tutto infruttuoso. Al nostro gusto quella Lucrezia così idillica e grecizzata nella tenuità dei suoi affetti, quell'Ilia elaborata pure secondo questo tipico schema, sono figure che possono anche non piacere; ma dal punto di vista del poeta questo era il fine da raggiungere: dare alla grezza materia l'impronta che i poeti greci avevano data alle favole non molto dissimili. I Fasti dovevano essere il libro romano delle Cause, e, per quanto le forme del suo ingegno permettevano, Ovidio riprodusse linee e atteggiamenti dell'esemplare callimacheo; a fonti romane egli prese soltanto le notizie e la materia necessaria. Virgilio aveva tratto da Varrone vera poesia; ma l'argomento era ben altro. Dal medesimo Varrone, da Verrio Flacco, da Livio stesso, in materia di tradizione romana, si poteva trarre erudizione e senso di austera grandezza, cioè quanto non si adattava in tutto al genio ovidiano.

Lasciando da parte il poemetto incompiuto sulle varietà dei pesci, che quasi sicuramente è autentico, e costituisce un problema di stile e di tradizione letteraria di una certa importanza, ma poeticamente non significa nulla, al periodo dell'esilio appartengono cinque libri di Tristia, i quattro delle Epistulae ex Ponto e il poemetto Ibis. Una condanna tradizionale grava su tutta questa poesia dell'esilio: i pianti del poeta non hanno commosso nessuno nella realtà del momento, non commuovono i lontani nepoti. Nei giudizî in proposito v'è qualche cosa di vero, ma vi è anche molta affrettata superficialità. In queste elegie domina certamente la monotonia degli argomenti; l'animo è assorto in un solo pensiero e teso a un solo desiderio; la potenza espressiva vi è scarsa, poiché il poeta ha quella sua forma liscia e superficiale, divenuta ormai la sua stessa natura. Ma la pena e lo spasimo sono realtà, e realtà non immota, ma che s'acuisce, nelle lettere cronologicamente ultime, in una tragica certezza dell'inutilità della preghiera. Sebbene la letteratura non sia il fine di questi componimenti, la decenza letteraria vi si dimostra nella distribuzione stessa dei singoli componimenti per libri, cercando di evitare, nella monotonia inevitabile dei temi, quella che potrebbe derivare dall'identità delle persone alle quali i versi sono indirizzati. La cultura e la tradizione retorica dominano, com'è naturale, ogni particolare, ed è appunto qui la ragione per cui meno risuona all'orecchio non esercitato il vero grido dell'anima. Esclusivamente conformato come una difesa giudiziaria è il libro secondo dei Tristia: apologia del poeta dell'Arte amatoria di fronte ad Augusto e alla condanna, ricco di elementi letterarî e in cui qua e là appare stranamente inabile la scelta degli argomenti. Per il resto variano le persone rievocate dal poeta, non variano profondamente le effusioni del costante dolore, che è soprattutto inquieto disagio e bisogno e rimpianto della vita di Roma. In queste elegie il carattere epistolare è implicito, ma il poeta non nomina la persona alla quale si rivolge; nelle 46 che compongono i quattro libri Ex Ponto il carattere epistolare è esplicito, ma la sostanza non è variata. Riguardo al poemetto Ibis, tipico rappresentante di quelle "imprecazioni" poetiche, che si confacevano allo spirito dei poeti ellenistici raccoglitori di favole recondite e desiderosi di nascondere nei meandri dell'allusione artificiosa le nozioni comuni, la derivazione dall'omonimo carme callimacheo è dichiarata dal poeta (55 seg.); naturalmente O., secondo il costume, molto ha messo di suo, o per reminiscenze o per dirette letture; cosa che affermiamo consciamente, sapendo quale valore dare alle affermazioni del poeta circa il suo isolamento, anche intellettuale, nelle solitudini pontiche. Vecchia questione è quella, se il poeta nei suoi 644 versi maledica un reale e maligno nemico o sfoghi bizzarramente il tedio doloroso della relegazione; uno spregiudicato esame degli elementi a nostra disposizione fa propendere il giudizio verso la prima soluzione: al solito la realtà tende, poi, a perdersi nella convenzione.

I poeti ovidiani. - Nelle sue forme esteriori l'arte e la tecnica ovidiana erano facilmente imitabili e tali da invitare alla gara. Chiamiamo col nome di poeti ovidiani gl'ignoti autori di componimenti, che la tradizione erroneamente assegnò a O., e che effettivamente hanno qualche punto di contatto con la sua maniera. Naturalmente non teniamo conto della produzione pseudepigrafa medievale.

In capo a queste composizioni poniamo l'elegia Nux, diffuso componimento, che sviluppa in 182 versi un epigramma dell'Antologia (IX, 3), e che la critica più recente è propensa ad assegnare al vero Ovidio (C. Ganzenmüller, Die Elegie Nux u. ihr Verf., Tubinga 1910); comunque appartiene certamente all'età augustea e ai primi decennî dell'era volgare. La noce piange la sua sorte di albero fecondo, fatto segno ai sassi e ai colpi della pertica crudele: veramente nuoce dar frutti, quando le donne, che vogliono parer belle, dànno l'esempio della sterilità. Versi eleganti, di un poeta che ha voluto mostrare la sua abilità retorica (ediz. critica capitale del Vollmer, Poetae Lat. min., II, 2, Lipsia 1922; ed. commentata, discreta, di S. Wartena, Groninga 1928).

In questa categoria vengono collocate le Elegiae in Maecenatem e la Consolatio ad Liviam (Epicedion Drusi), argomento di molte disquisizioni filologiche. Il risultato che parrebbe accettabile, dopo tanti, e spesso sagaci, studî, sarebbe che entrambe le composizioni non possano essere collocate lontano dalle persone e dagli avvenimenti ai quali si riferiscono e che O. non abbia nulla di comune con esse. Ma, specialmente per la Consolatio, non si può escludere che sia esercitazione retorica (accuratissimo, in proposito, B. Axelson, in Eranos, XXVIII, 1930, 1, che discende sino all'età dei Flavî, dopo Marziale e Stazio); le manifeste imitazioni ovidiane rendono credibile che l'elegia non sia stata composta prima della morte di questo poeta (a ogni modo, per l'opinione opposta cfr. la chiara esposizione dello Skutsch, in Pauly-Wissova, Real-Encycl., IV, col. 933; altra letteratura in Martini, 64 segg.).

Per talune affinità formali si suole congiungere alla menzione della Consolatio quella delle Elegie che hanno per argomento Mecenate morto e morente, due poveri componimenti, che la tradizione tramandò col nome di Virgilio, senza distinzione di parti, e che Giuseppe Scaligero giustamente suddivise in due componimenti (1-144; 145-178), che per altro sono opera della stessa mano, per noi assolutamente non identificabile. Intorno a queste elegie, come intorno alla Consolatio, le questioni e i dubbî sono molto più gravi di quanto il valore artistico di esse comporti. Se si ammette che l'autore di esse sia anche l'autore della Consolatio, poiché egli dice d'aver pianto "dianzi con lacrimoso canto la morte di un giovane" (ma il cenno in sé non ha nessun valore e gli altri elementi che si adducono non hanno molto peso), sarebbero risolte le questioni cronologiche nel senso che la Consolatio fu scritta il 9 a. C. e le Elegiae in Maecenatem l'8. In verità, anche qui, l'accenno a una realtà concreta (il nome di Lollio, cioè M. Lollio Paullino), non è elemento di primo piano per decidere la cosa, e non si può escludere che anche qui si abbia dinannzi un'esercitazione retorica in forma poetica. Indiscusso rimane soltanto il fatto che col nome e con l'arte d'Ovidio nessuno di questi componimenti ha la minima attinenza: il nome di O. per la Consolazione non ha maggiore autorità di quello di Virgilio per le elegie mecenaziane. Di tentativi recenti di attribuire a O. alcuni componimenti raccolti nell'"Appendice Virgiliana" non è il caso di parlare.

Ediz. principi: Bologna 1471 e Roma 1471-72. Notevole fra le edizioni successive quella di D. Heinsius, Leida 1629, e, assai più, quella di N. Heinsius, il più intelligente tra i critici del testo ovidiano (Amsterdam 1652). Di valore, per i rapporti con i moderni criterî critici, l'edizione del Merkel, Lipsia 1851, sulla quale si fonda la recensione dell'attuale testo teubneriano. Singole opere hanno avuto edizioni recenti, che soddisfano convenientemente alle esigenze moderne (Metamorfosi, ed. Magnus; Tristia, ed. Owen; Ibis, ed. Ellis); aspettano un'edizione pienamente soddisfacente i carmi amatorî. Edizioni italiane: Arte amatoria, ed. Marchesi; Metam., ed. Fabbri; Tristia e Fasti, ed. Landi (questa con un buon apparato critico); tutte nel "Corpus Paravianum". Edizioni moderne commentate: Amores e Ars amatoria, a cura di P. Brand, Lipsia 1911 e 1902; Remedia, a cura di Némethy, Budapest (comm. latino); Metamorfosi a cura di Haupt-Korn-Ehwald (in Italia ediz. scolastiche parziali); Fasti, grande edizione rivolta specialmente all'illustrazione dell'elemento religioso, del Frazer Londra 1929, in cinque volumi; sufficiente per necessità più ristrette l'edizione del Peter, Lipsia 1907; incompleta l'italiana del Cornali, Torino 1926-27; Tristia, a cura del Némethy, Budapest 1913; ed. del secondo libro a cura dell'Owen, Oxford 1924 (importante); varie edizioni italiane con intento prevalentemente scolastico (Cocchia, Vivona; più recente e ampio, Masera, Torino 1929).

Bibl.: Il materiale pertinente alla vita di O., sia le notizie che si ricavano dai suoi versi, sia le altre, scarse e imprecise, che vengono d'altra fonte (l'anno di morte, ma al 17 d. C., cioè inesattamente, presso Hieron., 2, p. 147 Sch.), sia infine le trattazioni d'insieme e di particolari ad opera di moderni, tutto si trova raccolto ed elencato presso Schanz, Gesch. der röm. Literatur, II, I, p. 266 segg.; e, anche più in esteso, presso E. Martini, Einleit. zu Ovid, in Schriften der philos. Fakult. der deutsch. Universit. in Prag, XII, 1933, p. 6 segg. Buone osservazioni in Pokrovskij, Philologus, Suppl. II (1909), p. 375; meglio di altre divagazioni più recenti sull'esilio di O. Appel, Quibus de causis Ovid. relegatus sit, Lipsia 1872; G. Boissier, L'opposition sous les Césars, Parigi 1875, p. 112.

La copiosissima produzione critico-letteraria sulle varie opere, sui caratteri dell'arte ovidiana, sulle fonti, sulla fortuna nei varî secoli, è scrupolosamente enumerata nelle citate opere dello Schanz e del Martini, dove soltanto si sarebbe desiderata una più ragionata cernita; infatti, accanto a scritti pregevoli, sono alla rinfusa prodotti i titoli di lavori insignificanti o del tutto inutili. Lo studioso di O. potrà, infine, rispetto alla produzione critica ovidiana orientarsi ottimamente consultando i resoconti periodici dell'Ehwald e del Lewy, in Bursians Jahresber., 1885, 1894, 1901, 1914, 1919, 1924, 1930.

Per tutte le varie questioni sui poeti ovidiani, v. le citate opere dello Schanz e del Martini, che rispettivamente rappresentano le due correnti opposte circa il carattere storico o fittizio di questi componimenti.

Ovidio nel Medioevo e nelle letterature moderne.

Per la cultura medievale l'opera di Ovidio rispondeva a un duplice ordine d'interessi; con il suo poema ciclico, egli rappresentava il mitografo più completo del mondo classico, tanto che le Metamorfosi erano comunemente designate l'"Ovidio maggiore" per distinguerle dall'altra sua poesia di argomenti più modesti; e invece per l'Ars amatoria e i Remedia amoris era ritenuto il depositario della didattica erotica e dello spirito più libertino della tradizione latina. Ma appunto per entrambi questi aspetti, O. dovette vincere le diffidenze che naturalmente provocava negli ambienti ecclesiastici e in genere nella cultura medievale-cristiana, che per profondi motivi d'ordine ideologico e morale rifuggiva da un contenuto così schiettamente pagano; cosicché fino a tutto il sec. X O. rimase quasi confinato nell'ombra; ma anziché ignorato, fu più spesso taciuto di proposito, ché ogni qualvolta il Medioevo rinnovava i suoi interessi letterarî, si ricorreva alla poesia ovidiana, chiara e facile, ricca di luoghi comuni, riposata nei suoi pochi e fedeli schemi metrici. Presente al gusto poetico di quel primo e timido umanesimo carolino, peraltro ancora legato a forme scolastiche, O. acquista una più larga diffusione a partire dal sec. XI; entra allora nell'insegnamento monastico (Armerico, per es., nel suo De arte lectoria del 1086, raccomanda assieme a Virgilio e Orazio la lettura d'Ovidio), è chiosato come testo di alta dottrina (glosse mitologiche sulle Metamorfosi compose Manigaldo di Lautenbach intorno agli stessi anni), offre nomi e figure della mitologia, immagini liriche e moduli letterarî di un passato che ormai si andava considerando con animo più sereno e più aperto al fatto artistico; quasi tutta la poesia latina dei secoli XI-XIII ne è come impregnata: tanto da indurre un illustre medievalista a definire quest'epoca come l'"età ovidiana" della cultura medievale, in contrapposizione agli altri secoli, durante i quali Virgilio e, in misura minore, Orazio godettero maggiore fiducia. La fortuna di O. è principalmente legata al metro elegiaco, che, assai diffuso nella poetica medievale, derivava dall'opera dell'autore classico una elementare e normativa semplicità. Del resto a lui furono attribuite le opere anonime di qualche pregio, specie quelle di contenuto erotico, come accadde di qualcuna delle commedie cosiddette "elegiache", composte nei secoli XII-XIII sotto la diretta derivazione ovidiana. Fra di esse è tipica quella del De nuncio sagaci, il cui titolo in qualche codice si alterna con l'altro di Ovidius puellarum, inizialmente dato nel senso di "arte d'amare per ragazze" e poi frainteso per testimoniare l'autenticità ovidiana della commedia. Ma c'è di più: l'anonimo chierico che saccheggiava O. per la sua erotica commedia De tribus puellis, non esitava a simulare l'opera come ovidiana. E a O. fu attribuito l'elegiaco Pamphilus (fine del sec. XII), tutto materiato di quello spirito psicologico-sensuale dell'Ars amatoria: il tema della seduzione e l'esperienza cinica che vi si traducono ebbero singolare fortuna, poiché, ripresi con spirito spregiudicato e caustico dall'Arciprete de Hita nel Libro de Buen Amor, servirono a F. de Rojas per la sua Celestina (v.), la prima e grande commedia del teatro spagnolo; così assieme al motivo si veniva perpetuando anche l'imitazione ovidiana, elemento di trapasso dalla cultura medievale a quella umanistica. Ma frattanto in altre zone intellettuali le Metamorfosi operavano con interessi diversi, sottoposte a un processo deformatore, tipico della mentalità cristiano-medievale che tentava di trasportare nell'ambito della dottrina sacra la letteratura pagana. Questo studio allegorico-esegetico, tentato in parte nell'insegnamento di Arnolfo d'Orléans (metà del sec. XII) e con maggiore coscienza negli Integumenta Ovidii di Giovanni di Garlandia (prima metà del sec. XIII), proseguito con intenti puramente divulgativi da Giovanni del Virgilio nelle sue lezioni allo studio bolognese (1322-1323), trovava la più diffusa e sistematica trattazione nell'Ovidius moralizatus di Pierre Bersuire (1290-1362): ma la sua opera dà ormai il senso di una cultura e di una sensibilità che volgono al tramonto.

La tradizione più vitale doveva invece fluire nella nuova poesia romanza, non tanto nella lirica trovatorica, in cui le reminiscenze ovidiane sono puramente esornative, poiché gl'ideali cortesi e psicologici della poesia amorosa attingevano a premesse più attuali (lo stesso Andrea Capellano, nel suo De amore, si servì con molta discrezione dell'opera ovidiana), quanto nella produzione narrativa francese d'argomento erotico-sentimentale; le Metamorfosi fornirono alcuni motivi che arricchirono il patrimonio lirico di quel primitivo romanticismo e costituirono autonome storie d'amore e d'avventura, specie Narcisus, Philomena (che sembra opera di Chrétien de Troyes) e, la più fortunata, Piramus et Tisbe (ch'ebbe varie redazioni, dalla latina di Matteo di Vendôme, a quelle francesi e italiane; v. piramo e tisbe); questi episodî, rielaborati come veri e proprî lais, furono anche inclusi nell'Ovide moralisé, libero e abbondante rifacimento delle Metamorfosi, in 70.000 versi, composto al principio del secolo XIV e perciò contemporaneo, ma indipendente, all'Ovidius moralizatus del Bersuire, che anzi per la sua seconda parte si servì dell'opera in volgare. A questo tipo lirico si riconnettono le riduzioni poetiche dell'Ars amatoria e dei Remedia amoris, di cui abbonda la letteratura francese dei secoli XII-XIV (è perduta la traduzione dell'Ars fatta da Chrétien de Troyes e menzionata nel suo Cligès; ma ci sono pervenute: l'Art d'amour d'un maestro Elia, del sec. XIII; l'Ars e i Remedia furono parafrasati nell'Ovide de art en roumant di Jacques d'Amiens; l'anonima Clef d'amour in 3426 ottonarî, del 1280 circa; l'Art d'amour di Guillaume Guiart, anch'egli del sec. XIII; nel sec. seguente furono tradotti i Remedia in 1729 ottonarî e l'Ovide du remede d'amours; sotto forma di episodio sono riferiti i precetti dei Remedia negli Échecs amoureux, 1370-1380, ecc.). In Italia invece prevalevano le traduzioni in prosa, la cui originalità consisteva appunto nella fedele adesione al testo latino, quasi presentimento di un più saldo gusto umanistico: ne è bella prova il volgarizzamento trecentesco di Arrigo Simintendi da Prato. E infatti con Boccaccio (specie nel Filocolo, tutto impregnato di visioni ovidiane) e con gli umanisti, O. continuava a operare nella sensibilità poetica, ma con maggiore completezza e con adesione più critica (fra le traduzioni delle Metamorfosi si vedano quelle di G. A. dell'Anguillara, del 1561, e l'altra di F. Mazzetti, del 1570); la sua poesia continuò ad agire in seno alla tradizione classica fino a tutto il Settecento, ma non più con la vitale funzione esercitata all'alba della cultura moderna. (Fra le traduzioni moderne è notevole quella italiana in ottava rima di L. Goracci: ediz. a cura di I. del Lungo, Firenze 1927).

Bibl.: A. Graf, Roma nella memoria e nelle immaginazioni del Medio Evo, II, Torino 1883, pp. 296-315; F. Ghisalberti, Giovanni del Virgilio espositore delle "Metamorfosi", in Giornale Dantesco, XXXIV (1931), pp. 1-110; id., Arnolfo d'Orléans, Un cultore di Ovidio nel sec. XII, in Memorie del R. Ist. Lombardo, XXIV (1932), pp. 157-230; id., Ovidius moralizatus, in Studi romanzi, XXIII (1933), pp. 1-136; Giovanni di Garlandia, Integumenta Ovidii, poemetto del sec. XIII, a cura di F. Ghisalberti, Milano-Messina 1933. Per l'Ovide moralisé, cfr. G. Paris, in Histoire littér. de la France, XXIX (1885), pp. 455-525; ediz. dell'Ovide moralisé, a cura di Ch. de Boer, in Verhandlingen dell'Accad. di Amsterdam, XV (1915), XXI (1920), XXX (1931). Inoltre: P. Lehmann, Pseudoantike Literatur des Mittelalters, Lipsia 1927; E. Faral, Recherches sur les sources latines des contes et romans courtois, Parigi 1913; G. Cohen, La "Comédie" latine en France, voll. 2, Parigi 1931; D. Scheludko, Ovid u. die Trobadors, in Zeit. f. rom. Phil., LIV (1934), pp. 129-174; L. Karl, Ovide, poète de l'amour au moyen âge, in Zeitschr. f. rom. Phil., XLIV (1924), p. 66 segg.; L. A. Possa, I due volgarizzamenti toscani dell'"Ars" e dei "Remedia" in due codici marciani, in Atti del R. Istituto Veneto, XCI (1931-32), pp. 1551-1592; A. F. Ugolini, I cantari italiani d'argomento classico, Ginevra 1933 (nella Bibliot. dell'Archivum Romanicum).

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