Ovidio Nasone, Publio

Enciclopedia machiavelliana (2014)

Ovidio Nasone, Publio

Maria Grazia Palutan

Poeta latino, nato a Sulmona nel 43 a.C. e morto nel 17 d.C. a Tomi, sul mar Nero.

La fortuna di O. è molto antica e segna la letteratura, la musica e le arti figurative dell’Occidente; i temi trattati dal poeta «tengono a battesimo lo sviluppo dell’amore cavalleresco nel Medioevo» (von Albrecht 1992, 19942, trad. it. 1995-1996, 2° vol., p. 819). A partire dalla fine dell’11° sec. si susseguono diverse età ovidiane; il poeta diventa figura tradizionale ed esemplare, talora con inauditi rovesciamenti dei suoi temi (l’utilizzo delle sue opere in senso didascalico arriva a trasformarlo – paradossalmente – in maestro di castità). Nel Medioevo, oltre alla produzione di molti codici, anche illustrati, vengono curate diverse traduzioni di O. in lingue volgari (Chrétien de Troyes si cimenta con l’Ars amatoria verso il 1120; Albrecht von Halberstadt traduce le Metamorfosi in tedesco nel 1210). L’editio princeps degli opera omnia di O., cui seguirono molte altre edizioni, fu pubblicata a Bologna dal Puteolanus nel 1471; al 1471-1472 risale anche un’edizione romana.

Nell’Allocuzione ad un magistrato (→), in particolare nel § 2 («Pure, per satisfare a questa cerimonia et antica consuetudine, dico come gli antichi poeti, i quali furono quelli che, secondo i gentili, cominciorno a dare le leggi al mondo, referiscono che gli uomini erano nella prima età tanto buoni, che gli idei non si vergognorno di descendere di cielo et venire insieme con loro ad abitare la terra») e in un passo successivo («Dipoi, mancando le virtù et surgendo i vitii, cominciorno a poco a poco a ritornarsene in cielo et l’ultimo che si partì di terra fu la Iustitia»), si può riconoscere l’eco di O. (Fasti I, vv. 247-50: Tunc ego regnabam, patiens cum terra deorum / esset et humanis numina mixta locis. / Nondum Iustitiam facinus mortale fugarat: / ultima de superis illa reliquit humum, «Allora regnavo io, quando la terra era tollerante degli dei e i numi frammisti ai luoghi umani. La scelleratezza mortale non aveva ancora messo in fuga Giustizia: quella ultima tra i celesti abbandonò la terra»; e Metamorfosi I, vv. 149-50: [...] et Virgo caede madentes / ultima caelestum, terras Astraea reliquit, «la vergine Astrèa lasciò – ultima degli dèi – la terra madida di sangue»).

In M. O. è presente a più livelli. Nell’epistolario il poeta fa parte di un imprescindibile sistema di riferimenti dotti, a partire dalla celeberrima lettera a Francesco Vettori del 10 dicembre 1513:

Ho un libro sotto, o Dante o Petrarca, o un di questi poeti minori, come Tibullo, Ovvidio e simili: leggo quelle loro amorose passioni et quelli loro amori, ricordomi de’ mia, godomi un pezzo in questo pensiero (Lettere, p. 295).

Dimostra l’interesse ovidiano di casa M. anche la lettera del figlio Guido (17 apr. 1527) che comunica al padre: «Della grammatica io entro oggi a’ participii, et àmmi letto ser Luca quasi il primo di Ovidio Metamorphoseos; el quale vi voglio, comunche voi siate tornato, dire tutto a mente» (Lettere, p. 460).

Nella lettera a Vettori del 4 febbraio 1514 («Veggovi combattere in fra voi, e quia non bene conveniunt, nec in una sede morantur maiestas e amor, vorresti ora diventare cigno per farle in grembo uno uovo, ora diventare oro perché la vi se ne portasse seco nella tasca, ora uno animale, ora uno altro, pure che voi non vi spicasse da lei», Lettere, p. 310) è palese il riferimento a Metamorfosi II, vv. 846-47 (Non bene conveniunt nec in una sede morantur / maiestas et amor, «Maestà e amore non vanno molto d’accordo, non possono convivere»): protagonista è sempre Giove, ma innamorato di Europa e non di Leda. M. gioca con le metamorfosi del dio per prendere in giro l’amico.

Altra allusione ovidiana nella lettera a Vettori del 25 febbraio 1514: «Et in Firenze in questo carnasciale non si è detto altro, se non: “Se’ tu il Brancaccio, o se’ il Casa?”; “et fuit in toto notissima fabula coelo”» (Lettere, p. 316). Metamorfosi IV, vv. 188-89, commenta la conclusione dell’episodio in cui Vulcano avvince in una rete sottilissima Marte e Venere stretti nell’amplesso e li mostra agli dèi: Superi risere, diuque / haec fuit in toto notissima fabula coelo («I Celesti risero, e per lungo tempo questa storia fu sulle bocche di tutti per tutto il cielo»). Lo stesso riferimento ovidiano, evidentemente proverbiale, è usato anche nella lettera di Vettori (in latino) da Firenze, datata 16 aprile 1523: «Paret frater et ipsas reluctantes domo eiecit et fuit in toto notissima fabula celo» (Lettere, p. 386).

Sempre a Vettori (in latino), da Sant’Andrea in Percussina il 4 dicembre 1514, M. scrive: «Quo magis crucior atque angor, quod videam ut inter tot tantasque Magnifice Domus felicitates et urbis, soli michi Pergama restant» (Lettere, p. 331). Più dolente il richiamo a Metamorfosi XIII, vv. 507-08, attraverso le parole di Ecuba sul cadavere della figlia Polissena, sacrificata dagli Achei, dopo la distruzione di Troia, sulla tomba di Achille ([...] soli mihi Pergama restant, / in cursuque meus dolor est, «soltanto per me Pergamo esiste ancora: le mie pene non sono ancora finite»). M. richiama alla mente dell’amico l’ingiustizia della sua sorte, pure in un periodo fortunato e glorioso per la casa dei Medici.

La lettera di Vettori a M. del 30 dicembre 1514 si apre con queste parole: «Ecce iterum mihi bella movet violenta cupido, / compater, ecce iterum torqueor igne novo. Veramente che Ovidio disse bene che l’amore procedeva di ozio» (Lettere, p. 345). È abbastanza chiaro il richiamo a Remedia amoris, vv. 161-62, in cui l’ozio stimola Egisto all’adulterio: Quaeritur, Aegistus quare sit factus adulter? / In promptu causa est: desidiosus erat («Tu chiedi ciò che ha reso adultero Egisto? la ragione è ovvia: era ozioso»).

Nella lettera a Vettori del 31 gennaio 1515 appare una lunga e completa citazione, con lievi imprecisioni, da Metamorfosi I, vv. 504-07 (nel testo ovidiano al posto di «Petreia» appare «Penei»: lo scambio potrebbe essere allusivo alla durezza di cuore dell’amata):

E manco di dua sere sono mi avvenne che io potevo dire, come Febo a Dafne: Nimfa, precor, Petreia, mane: non insequor hostis, / nimfa, mane: sic agna lupum, sic cerva leonem, / sic aquilam fugiunt penna trepidante columbae / hostes quaeque suos (Lettere, p. 349).

O. costituisce anche un modello per le composizioni in versi di Machiavelli. In questo caso non si tratta di riprese letterali, ma piuttosto di allusioni a storie conosciute a cui il poeta latino diede fama imperitura. Nel “Capitolo pastorale”, vv. 19-24 («Io veggo la tua faccia che raccende / più che l’usato un vivace splendore, / né vento o nube questo giorno offende, / tal che aiutato dal tuo gran valore, / o sacro Apollo, e da tue forze, io voglio / spenderlo in far al tuo Iacinto onore»), la vicenda del giovane spartano Giacinto, amato da Apollo che lo uccide per sbaglio durante una gara di lancio del disco, riecheggia Metamorfosi X, vv. 162-219. Il nome «Iacinto» potrebbe alludere a Iuliano, cioè Giuliano de’ Medici (→).

Nella Serenata, i vv. 21-24 («ma per pregarti che tu fugga l’ira / di questa dea, con uno esempio vengo / acciò impari a fuggir la crudel rete / ove rimase presa Anassarete») richiamano la dolente storia di Ifi, suicida per amore della crudele Anassàrete: la donna, dal cuore di pietra, fu trasformata in statua al passaggio del funerale. La patetica vicenda è affidata, in Metamorfosi XIV, vv. 698-761, alle parole di Vertumno, che esorta Pomona a corrispondere al suo amore. Più avanti, i vv. 197-200 della Serenata richiamano il momento culminante dell’episodio («In fin per terminar tanti dolori, / si lasciò ir tutto pendente poi, / e nel cader parve la porta dessi / un suon che del suo caso si dolessi»).

Nell’Asino iv, i vv. 109-11 ricordano la notissima tragedia di Ero e Leandro: «Ben entreresti in qualche loco infido / per ritrovarti meco, o noteresti / come Leandro infra Sesto e Abido». Osserva Corrado Vivanti (in N. Machiavelli, Opere, 3° vol., 2005, p. 774) che, oltre che di O. (la vicenda è narrata nelle Heroides 18 e 19), si può osservare la ripresa, forse caricaturale, di Purgatorio XXVIII 73-74.

Da ultimo, anche nel teatro si palesano echi ovidiani. Nella Clizia (atto I, scena ii), Cleandro inizia il suo monologo con queste parole:

Veramente chi ha detto che lo innamorato e il soldato si somigliono ha detto il vero. El capitano vuole che i suoi soldati sien giovani, le donne vogliono che i loro amanti non sieno vecchi. Brutta cosa vedere un vecchio soldato, bruttissima è vederlo innamorato.

Dietro questa proposizione generale appare Amores I ix, vv. 1-4:

Militat omnis amans et habet sua castra Cupido; / Attice, crede mihi, militat omnis amans. / Quae bello est habilis, Veneri quoque convenit aetas: / turpe senex miles, turpe senilis amor

Ogni innamorato è un soldato e Cupido ha un suo proprio accampamento; Attico, credimi, ogni innamorato è un soldato. L’età che si adatta alla guerra conviene anche a Venere. È turpe un soldato vecchio, è turpe un amore senile;

il v. 4, per Vivanti (in N. Machiavelli, Opere, 3° vol., 2005, p. 795), potrebbe essere addirittura ‘la morale della commedia’.

Bibliografia: M. von Albrecht, Geschichte der römischen literatur. Von Andronicus bis Boethius, 2 voll., Bern-München, 1992, 19942 (trad. it. Storia della letteratura latina. Da Livio Andronico a Boezio, a cura di A. Setaioli, 3 voll., Torino 1995-1996); Aetates ovidianae. Lettori di Ovidio dall’antichità al Rinascimento, a cura di I. Gallo, L. Nicastri, Napoli 1995; G. Sasso, Per due citazioni machiavelliane, in Id., Machiavelli e gli antichi e altri saggi, 4° vol., Milano-Napoli 1997, pp. 269-98.

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