Quale

Enciclopedia Dantesca (1970)

quale (categoria della qualità)

Giorgio Stabile

Come aggettivo neutro sostantivato ricorre in D. col medesimo valore del neutro latino quale, comunemente usato nel linguaggio filosofico scolastico (come calco del greco ποίόν) per indicare la categoria aristotelica della qualità. Aristotele, infatti, in Cat. 4, 1 b 25 ss. aveva enumerato il q. tra le dieci categorie " Eorum quae secundum nullam complexionem dicuntur unumquodque aut substantiam significat aut quantum aut quale [ποίόν] aut ad aliquid aut ubi aut quando aut poni aut habere aut facere aut poti... quale autem velut album, grammaticum ", mentre un capitolo specifico (Cat. 8, 8b 25 ss.) era dedicato alla definizione analitica della categoria del q. o della ‛ qualità ' (ποιότης - qualitas; vedi QUALITÀ).

Come categoria, il q. costituisce una ‛ determinazione ' dell'ente rispetto alle affezioni o agli abiti qualitativi; per converso un ente in tanto può venir detto ‛ quale ' in quanto è determinato da una o più qualità: " Qualitatem vero dico secundum quam quales quidam dicimur ". In tal senso q., a seconda del livello terminologico cui attinge, costituisce o l'individuazione concreta e immediata di una data sostanza (in quanto già determinata da proprietà qualitative) oppure la stessa determinazione generale e astratta secondo cui ogni sostanza è sottoposta a condizioni qualitative. Nel primo caso - che concerne l'aspetto grammaticale - q. deriva, in via subordinata, dalla qualità e da essa è distinto; nel secondo - che concerne l'accezione tecnico filosofica - s'identifica con la categoria stessa della qualità ed equivale ad essa nell'uso linguistico.

Aristotele aveva distinti quattro generi di qualità: un primo genere è quello degli habitus (come la virtù o la scienza) e delle affectiones (come il caldo, il freddo, la salute o la malattia); l'habitus si distingue dall'affectio in quanto l'uno è stabile e duraturo, l'altra mobile e temporanea (" Differt... habitus affectione quod permanentior et diuturnior est "). Un secondo genere è quello della potenza o impotenza naturale (" potentiam naturalem vel impotentiam ") come nel caso del pugile, del corridore, del duro, del molle. Si tratta di qualità derivanti da capacità naturale a compiere qualcosa, e non risultanti da un'affectio (" Non enim quoniam sunt affecti aliquo modo, unumquodque huiusmodi dicitur, sed quod habeant potentiam naturalem vel facere quid facile vel nihil pati; ut pugillatores et cursores dicuntur non quod sint affecti, sed quod habent potentiam hoc facile faciendi ").

Il terzo genere è quello delle qualità sensibili vere e proprie. Si tratta di quelle qualità che sono in grado di provocare una ‛ passione ', o affezione qualitativa, secondo il senso (come il dolce, l'amaro, il caldo, il freddo, il nero e il bianco, ecc.). Con quale, pertanto, viene designato un oggetto o una sostanza, in quanto costituente un concretum sensibile che è caratterizzato da una o più qualità (" Et quoniam hae qualitates sunt, manifestum est; quaecumque enim ista susceperint qualia dicuntur secundum ea, ut mel, quoniam dulcedinem suscepit, dicitur dulce... Passibiles vero qualitates dicuntur non quo ea quae illas susceperint qualitates aliquid patiantur... sed quoniam singulum eorum... secundum sensus qualitatum passionis perfectiva sunt, passibiles qualitates dicuntur ").

Quarto genere di qualità, infine, è la figura e la forma che caratterizza ogni oggetto (rettilineo o curvilineo, quadrato o triangolo, ecc.). Quest'ultimo genere propriamente risulta essere una determinazione qualitativa secondo quantità.

Come si vede la categoria del q. concorre in modo eminente alla determinazione della sostanza - in quanto ne definisce la ‛ natura ' propria - e ciò in correlazione stretta con la categoria della quantità. Ogni sostanza, infatti, si pone immediatamente come dotata di una certa dimensione materiale e affetta da certe proprietà naturali. Qualità e quantità, quale e quanto, appunto perché determinazioni prime e generali della sostanza, conseguono da essa immediatamente; in particolare, la qualità deriva dalla forma e la quantità dalla materia.

Tutto ciò vale a spiegare la ripetuta correlazione in D. di q. e ‛ quanto '. In Pd II 65 La spera ottava vi dimostra molti / lumi, li quali e nel quale e nel quanto / notar si posson di diversi volti, l'uso di q. è rigorosamente tecnico, indica cioè la singola determinazione sostanziale di ogni stella secondo la categoria della qualità. Il problema posto da D. è quello della causa della diversità di tali determinazioni e, di conseguenza, della diversità di ogni determinazione qualitativa nel mondo sublunare. Le stelle fisse (lumi) presentano, tra di loro, aspetti (volti) diversamente determinati secondo qualità (natura della luce e degl'influssi) e quantità (dimensioni).

Se causa di tale diversità fosse soltanto il raro e il denso, il principio differenziante - e quindi d'individuazione - delle stelle sarebbe ridotto alla sola determinazione quantitativa (quanto), cioè alla determinazione derivante ex parte materiae (principio materiale). Di conseguenza, la determinazione qualitativa (quale) derivante ex parte formae (principio formale) sarebbe, in tutte, eguale per essenza e diversa solo per accidente, cioè solo per diversa distribuzione secondo magis e minus, che sono determinazioni quantitative (una sola virtù sarebbe in tutti, / più e men distributa e altrettanto, vv. 69-70). In breve: se la sola differenza deriva dal principio materiale (quantitativo), il principio formale (qualitativo) sarà unico in tutte le stelle. Ma ciò è impossibile: se le stelle esercitano virtù diverse - cioè se hanno ‛ esplicazioni sostanziali ' differenti -, diversi dovranno essere i principi formali o sostanziali (determinati secondo il quale) da cui tali virtù sono prodotte (Virtù diverse esser convegnon frutti / di principi formali, vv. 70-71). È infatti da ricordare che ciò che caratterizza la categoria della qualità è la capacità di differenziare gli enti tra di loro secondo simiglianza e dissimiglianza (cfr. Arist. Cat 8,11a 15 ss.). Nel luogo dantesco la nozione di q. andrà pertanto riferita sia a quella di ‛ principio formale ', sia a quella di ‛ virtù ' come proprietà naturale da esso derivata. Che le stelle sono essenze diverse perché ognuna diversamente determinata dalla categoria della qualità è confermato dai vv. 116 (quell'esser parte per diverse essenze) e 139-140 (Virtù diversa fa diversa lega / col prezïoso corpo ch'ella avviva).

Ancora in diade con ‛ quanto ', q. ricorre in Pd XXIII 92 (il quale e il quanto de la viva stella), dove uso e significato sono analoghi a quelli esaminati (il q. della viva stella indicherà in particolare la sua qualità luminosa), e in XXX 120 (La vista mia... tutto prendeva / il quanto e 'l quale di quella allegrezza) dove, in forma ellittica, D. vuole indicare la ‛ qualità ' (e quantità) di luce come differenza sostanziale anche per il merito e la gioia conseguente. D., cioè, percepiva nel loro insieme il variare dei gradi, secondo quantità e qualità, della candidi rosa. È opportuno infine notare che la stretta correlazione ‛ q.-quanto ' esprime per D. i connotati primi ed essenziali delle sostanze ‛ pure ' qu'ali gli si presentavano nel Paradiso.

In If II 18 è presente in correlazione ‛ chi-q. ' (Però, se l'avversario d'ogne male [Dio] / cortese i [ad Enea] fu, pensando l'alto effetto / ch'uscir dovea di lui, e 'l chi e 'l quale / non pare indegno ad omo d'intelletto) che equivale all'altra del latino scolastico quid-quale (nella formula et quis et qualis). Qui e 'l chi e 'l quale indicano l'uno la determinazione secondo il quid (cioè la quidditas [v. QUIDITATE] o essenza specifica) di Enea, l'altro le ‛ proprietà qualitative ' di lui, proprio in quanto derivano immediatamente dalla sua quidditas. Il valore di q. sarà pertanto " qualità sostanziali ", in grazia delle quali la virtù di Enea si esplicò per metter capo all'alto effetto (Roma e l'Impero). Una sfumatura tecnica ha pure la quale e 'l quale del v. 22 usati con valore pregnante. Per il corretto assetto sintattico, e il conseguente significato logico di tutto il periodo, da vedere le importanti pagine del Pagliaro (Ulisse, pp. 85-87).

Un problema a sé pone invece If IV 139 vidi il buono accoglitor del quale, / Dïascoride dico. Comunemente il luogo viene spiegato: vidi " il buon raccoglitore della qualità " cioè " delle qualità o virtù delle erbe ". Ma quest'ultimo è un trapasso logico arbitrario, che la locuzione, presa di per sé, non permette. Tanto più che, secondo l'uso più corretto e comune del termine, D. intende sempre q. come " categoria della qualità " e, perciò, come determinazione generalissima - in rapporto alle proprietà qualitative - di ogni ordine di sostanze. Pertanto q. non contiene, in sé, alcun carattere connotativo, e tanto meno denotativo, rispetto a una specie così delimitata come le erbe medicinali o le pietre.

Semmai, nell'uso corrente si era soliti parlare di potestates, proprietates o virtutes herbarum, ma anche qui la specificazione era essenziale a determinare di quali virtù o proprietà s'intendesse parlare (cfr. Dioscoride De Materia medica proem. " studiose et diligenter mihi laborem imposui, ut quinque libros de herbarum potestatibus, et virtutibus et confectionibus olerum ostenderem, et quae ab aliis praetermissa sunt scribendo monstrarem... Haec enim quae scripsi... non ex opinione aut fama cognovi, sed ex electione et experimento didici "). In questo senso mantiene tutto il suo valore l'aporia rilevata dalla puntigliosa glossa del Castelvetro: " Io non so che si venga a dire accoglitor del quale in questo luogo, né veggo che quale si possa appiccare più tosto a l'erbe che ad altro ".

Indubbiamente la locuzione è caratterizzata da una forte asimmetria logica e stilistica: oltre che da un uso concreto a uno astratto, essa cade da un tecnicismo così tipicizzato come accoglitor a un'accezione banalizzata e atipica di quale. Il termine accoglitor era infatti proprio del linguaggio botanico e agricolo, e corrispondeva a collector, designando colui che compiva l'atto di colligere herbas (o poma, ecc.). Quella della collectio o ‛ raccolta ' era peraltro la fase cruciale e qualificante dell'attività del semplicista, legata com'era a precise contingenze di luogo e di tempo e soggetta a interdizioni e regole meticolose. Dioscoride stesso - ma era luogo comune - ricordava come nell'arte del colligere consistesse il compito più arduo dell'erborista: " Convenit nosse ex quibus locis collegendae sunt herbae. In quibus etiam reponantur temporis etiam oportunitas requirenda est... Quae pro tempore colligas, ne aut arida nimis, aut immatura decerpas. In his enim colligendis, nisi tempus adverteris, potestatum suarum et virtutum possibilitates amittunt. Magna res est enim in scire tempus herbarum colligendarum " (De Materia medica proem., ediz. K. Hoffmann-T.M. Auracher, in " Romanische Forschungen " I [1883] 55 b 10 ss., collazionata con la traduzione di Pietro d'Abano; cfr. anche Ps.-Apuleio Herbarius, ediz. E. Howal-H.E. Sigerist, III 4,. LXXVI 2, XC 6, CV 1, CXXXI).

Con la tipizzazione tecnica di accoglitor (avvertita dai primi commentatori: Pietro " hic vocat 'eum collectorem qualitatis ", Benvenuto " idest bonum collectorem rerum ") D. colse e fissò Dioscoride nell'atto ‛ emblematico ' del serplicista; ed è solo in quanto qualifica questo tipico atto che buono acquista la pregnanza necessaria a celebrare il medico greco e a legittimarne la presenza nel Limbo.

Di fronte a un avvio tanto coordinato della locuzione, la conclusione del quale non può non apparire incongrua. La progressione logica salta infatti da una nitida caratterizzazione a un'attribuzione indefinita, da una determinazione concreta a una generalità astratta.

Con ogni probabilità, D. affidò alla forte connotazione tecnica di accoglitor (prodotto una sola volta in tutta la sua opera, e non in rima) il compito di ridurre, e disciplinare logicamente, l'ampiezza semantica di quale. A sua volta, l'ampia latitudine di q. valeva pur sempre a segnalare senza equivoco l'accezione di accoglitor. Va ricordato infatti come collector (collitor, collettore, coglitor), oltre che raccoglitore di erbe o di frutta, indicasse, con uso tecnico del linguaggio burocratico, il " percettore " o " esattore " di decime, imposte o denaro in genere. D. volle forse liberarsi di quest'ultima accezione, fortemente concorrente, di ‛ accoglitor del quanto ', tracciando con q. il limite comunque invalicabile della propria scelta semantica?

Ogni altra soluzione sembra destinata a più serie difficoltà. Convinto della cesura logica e stilistica del verso, è ancora il Castelvetro a proporre, oltre un'irrecepibile lezione (" Laonde io ho stimato che il testo sia guasto, e che volesse essere scritto così ‛ accoglitor erbale ' "), una soluzione filologica: " Io so che in lingua greca ποίη significa erba e significa quale; e forse in alcun libro pervenuto nelle mani di Dante era stato traslato male ποίη , quale, in luogo d'erba. Il che per aventura ha dato cagione a Dante di errare ".

In effetti accoglitor del quale può ben avere le caratteristiche di uno stilema dotto medievale, dietro cui poteva agire uno latino del tipo collector qualitatis (o qualiscollector) come falsa traduzione del greco - ma raramente attestato - ποιόλογος o ποιόλογῶν (" raccoglitore di erba ", composto di ποία - ποίη = herba, λέγω = colligo). Tuttavia traduzioni - ma non in forme composte - di πόα (ποία, ποίη) con herba, gramen, pabulum, muscus sono attestate dai glossari greco-latini medievali (cfr. alle relative voci G. Goetz, Thesaurus glossarum emendatarum, Lipsia 1899), mentre la definizione di ποία come una delle erbe medicinali era presente nella trattatistica specifica (cfr. Teofrasto Hist. plant. IX VIII 1). Comunque, ipotizzando pure una falsa traduzione di ποίο- in forma composta, resta il fatto che D. non poteva sentire in q. altro che l'accezione di " qualità ", a meno che, a indurlo a prelevare tale quale la locuzione, fosse o l'autorità cogente di una fonte o il gusto di un reperto dotto (a suo modo) e peregrino.

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